CECCHERINI, Sante
Nato a Incisa Valdarno (Firenze) il 15 nov. 1861 da Venanzio e Assunta Bellacci, allievo del Collegio militare di Firenze nel 1878 e dell'Accademia militare di Modena nel 1882, sottotenente in servizio attivo nel 1884, percorse la normale carriera di ufficiale di fanteria, distinguendosi per le doti di schermidore (fu anche campione militare italiano) e per la passione per il corpo dei bersaglieri, in cui svolse pressoché tutta la sua vita militare. Servì un anno in Eritrea nel 1889-90, fu promosso capitano nel 1897 e maggiore nel 1910, ormai quasi cinquantenne; aveva infatti rinunciato a frequentare la Scuola di guerra, che in tempo di pace rappresentava l'unica possibilità di accelerare la carriera. Comandante di battaglione in Libia nell'11º reggimento bersaglieri, ottenne nei combattimenti dell'estate 1912 una medaglia d'argento e una di bronzo. Tenente colonnello all'inizio del 1915, nel luglio si distinse nei primi combattimenti sul San Michele, conseguendo una seconda medaglia d'argento. Nel settembre 1915, promosso colonnello, assunse il comando del 12º reggimento bersaglieri, che condusse nelle aspre battaglie dell'Isonzo e del Carso, ottenendo una terza medaglia d'argento sul Pecinka nel novembre del 1916.
Nell'aprile 1917 il C. passò a comandare la III brigata bersaglieri, sempre nel quadro della 3ª armata, e la guidò sul Carso e poi nella ritirata dopo Caporetto, segnalandosi nella difesa del ponte di Mandrisio sul Tagliamento e poi in novembre e dicembre sul Piave. Promosso al grado di maggior generale (aprile 1918), continuò a comandare la sua brigata nella seconda battaglia del Piave e in quella di Vittorio Veneto, conseguendo due successive decorazioni dell'Ordine militare di Savoia.
La fine delle ostilità segnò in pratica anche la fine della carriera nell'esercito del C. che, in una situazione caratterizzata dal sovrannumero di generali, era destinato ad essere inevitabilmente scavalcato dai colleghi più giovani, nonostante le sue tre medaglie d'argento e una certa notorietà negli ambienti militari e di ex combattenti come valoroso ufficiale dei bersaglieri. Nel marzo 1919 dovette abbandonare il comando della brigata bersaglieri e passare a disposizione del ministero, senza ricevere altro impiego attivo. Accettò quindi la chiamata che D'Annunzio (da lui conosciuto sul Carso) e il figlio, giovane ufficiale di marina e valoroso pilota d'aviazione, gli rivolgevano da Fiume a fine settembre e, dopo aver diramato alla stampa una lettera in cui diceva che il tradimento del governo Nitti gli permetteva di venir meno al suo giuramento di fedeltà alle istituzioni, raggiunse Fiume il 6 ott. 1919.
Ebbe subito una posizione di rilievo, in quanto era il più alto in grado tra gli ufficiali dell'esercito che avevano seguito D'Annunzio: fu nominato comandante della 1ª divisione di truppe fiumane (un comando assai difficile e più che altro teorico, data la scarsa disciplina dei reparti), ma soprattutto svolse un ruolo di mediazione tra le unità dell'esercito regolare che si fronteggiavano agli ordini di D'Annunzio e di Badoglio.
Quest'ultimo, che lo riconosceva "ottimo ufficiale e valorosissimo combattente", oltre che vecchio amico, gli scriveva il 26 ottobre chiedendogli di adoperarsi per difendere la disciplina militare e la monarchia, onde non aggravare la frattura verificatasi all'interno dell'esercito e del paese; e analoghi suggerimenti gli faceva pervenire Nitti tramite la massoneria. In questo non facile compito il C. si logorò, da una parte accompagnando e sostenendo D'Annunzio in tutte le trattative e cerimonie, dall'altra facendo il possibile per mantenere l'ordine ed evitare scontri tra reparti contrapposti. Il 6 maggio 1920 solo il suo intervento diretto permise a trecento tra carabinieri, soldati ed ufficiali di lasciare Fiume; ma a Cantrida i legionari fiumani uccisero due carabinieri e provocarono un incidente, in cui lo stesso C. venne travolto e ferito da un cavallo mentre si interponeva tra reparti contrapposti. Nuovamente a metà novembre 1920 il suo tempestivo intervento prevenne uno scontro tra le truppe del generale Ferrario, comandante della 45ª divisione, e gli arditi di D'Annunzio.
Nonostante i frequenti riconoscimenti (il 6 giugno aveva avuto la carica di presidente della Suprema Corte di terra e di mare di Fiume, armata però di assai scarso potere), egli si andava distaccando da D'Annunzio, rattristato com'era dalla scarsa disciplina dei legionari, dal mancato rispetto per le tradizioni dell'esercito regolare manifestato dall'ordinamento dell'esercito fiumano edito a fine ottobre e dal venir meno delle possibilità di un compromesso che evitasse lo scontro diretto tra esercito italiano e legionari. Lasciò quindi Fiume alla fine di novembre 1920 con un'amarezza che gli strappò in seguito giudizi assai duri verso l'esperienza fiumana (si veda la sua lettera a Mussolini pubblicata da Caviglia).
Negli anni seguenti il C. non ebbe più comandi attivi nell'esercito, ma fu collocato a disposizione per ispezioni e poi, nel marzo 1922, destinato per età alla posizione ausiliaria speciale per riduzione di quadri, una specie di pensionamento anticipato. Non era un trattamento persecutorio, perché il soprannumero di generali era reale e furono allontanati dal servizio attivo anche ufficiali che non si erano compromessi con l'estrema destra; il C. inoltre era ormai quasi sessantenne, quindi svantaggiato nei confronti dei parigrado più giovani, ma certo non gli giovò il fatto che il suo passaggio a D'Annunzio nell'autunno 1919 avesse drammaticamente messo in evidenza le tensioni interne dell'esercito. È degno di nota che la sua avventura fiumana fosse espunta o minimizzata nelle biografie ufficiali fasciste e militari.
Il collocamento in posizione ausiliaria lo lasciava libero di riprendere apertamente l'attività politica; si schierò quindi con il - fascismo e il 16 ott. 1922 prese parte con Mussolini, i generali De Bono e Fara e i gerarchi Balbo, De Vecchi e Igliori alla riunione milanese che decise e preparò la marcia su Roma. Il C. ebbe l'incarico di assistere Dino Perrone Compagni nel comando della colonna di fascisti toscani destinata a concentrarsi a Santa Marinella; la sua attività fu però assai limitata perché la colonna fu bloccata tra le stazioni ferroviarie di Santa Marinella e Civitavecchia fino al 31 ottobre, quando, concluse ormai le trattative per la formazione del nuovo governo, poté essere avviata a Roma per la sfilata conclusiva (sulle squadre toscane, cfr. del C. Le legioni toscane, in Gerarchia, VII [1927]., pp. 978-85).
Nel 1923 il C. fu promosso generale di divisione, senza che ciò implicasse il ritorno in servizio attivo; fu invece eletto membro del Consiglio provinciale di Firenze e, nel luglio 1924, nominato luogotenente generale della milizia fascista e comandante dell'VIII zona (Firenze). Nella crisi del fascio locale si schierò nel 1925 con l'ala squadrista del console Tamburini; nel gennaio 1927 salì poi al grado di ispettore generale della milizia. I suoi ultimi anni furono funestati da una serie di sventure: nel 1926 il figlio diletto morì in un incidente aereo, nel 1928 egli stesso fu colpito da una paralisi parziale al lato destro del corpo.
Il C. morì il 9 ag. 1932 a Marina di Pisa.
Fonti e Bibl.: Necr. in Popolo d'Italia, 10 ag. 1932; per notizie sulla carriera si veda lo stato di servizio presso il Ministero della Difesa; cfr. inoltre: P. Badoglio, Rivelazioni su Fiume, Roma 1946, pp. 67. 89 s.; E. Caviglia, Il conflitto diFiume, Milano 1948, pp. 165, 204-11, 232; P. Alatri, Nitti, D'Annunzio e la quest. adriatica, Milano 1959, ad Ind.; F. Gerra, L'impresa di Fiume, Milano 1966, ad Ind.; R. De Felice, Mussolini il fascista, II,1, 1921-1925, Torino 1966, pp. 343 s., 349; A. Repaci, St. della marcia su Roma, Milano 1976, ad Ind.; A. Lyttelton, Laconquista del potere, Bari 1974, ad Ind.; M. Palla, Firenze nel regime fascista, Firenze 1978, ad Ind.