SANTACROCE
– Famiglia di scultori attivi a Genova dalla seconda metà del Cinquecento fino alla metà del Seicento.
Filippo, detto il Pippo, nato a Urbino da Luca, raggiunse Genova in un momento di poco antecedente al 1569, anno in cui acquistò un alloggio nei pressi della chiesa di S. Tommaso, adibito ben presto a bottega e dimora della numerosa famiglia (Alizeri, 1875, p. 345; Id., 1880, p. 172). Secondo Raffaele Soprani, il giovane scultore venne notato dal conte genovese Filippino Doria, titolare del feudo di Sassocorvaro e di passaggio «per lo Stato d’Urbino», il quale decise di offrirgli l’opportunità di un soggiorno di studio a Roma (Soprani, 1674, pp. 303 s.). Qui Filippo, prima di venir chiamato a Genova dal suo mecenate per realizzare «molti lavori di finissimo intaglio», si fermò per qualche tempo «dissegnando molte anticaglie, e pratticando sempre con persone perite» fino a eccellere «nelli minuti intagli [...] di corallo, legno et avorio» (p. 304). Nel 1571 lo scultore, ormai inserito nel contesto artistico genovese, s’impegnò a realizzare, insieme al collega Matteo Castellino (che beneficiava del guadagno maggiore), due scudi e due polene allegoriche per la decorazione di due triremi del re di Spagna (Alizeri, 1880, pp. 139 s.).
Restano i documenti di un rapporto privilegiato con Giovanni Andrea Doria, principe di Melfi ed erede dell’ammiraglio Andrea: per sua volontà Filippo prese parte, entro la primavera del 1571, alla decorazione della galea Capitana Nova (Merli - Belgrano, 1874, p. 50; Alizeri, 1880, p. 141), il 15 agosto 1571 ricevette 28 lire «per la fattura di un Crocifisso d’avolio» (Merli - Belgrano, 1874, p. 50) e nel 1578 guadagnò 42 lire per due mani in corallo nell’atto di scongiuro («due mani con le ficche») da inviare come dono in Spagna a Diego di Cordova (p. 56). Nel 1583, nel contesto di decorazione dell’oratorio domestico di Zenobia Del Carretto, moglie di Giovanni Andrea Doria, Filippo ebbe l’incarico di scolpire in legno un Calvario costituito da una ventina di statue, dipinte da Lazzaro Calvi (pp. 59 s.). Sempre per il Doria scolpì nel 1590 «due figure di corallo, una di Nostro Signore e l’altra della Maddalena», ricevendone, il 22 dicembre, 64 lire (p. 67).
Successivamente al 1587, Giovanni Battista Negrone, che avviò in quell’anno l’erezione della propria cappella nella chiesa di S. Maria delle Vigne a Genova, gli ordinò un crocifisso ora disperso, citato da Raffaele Soprani (1674, p. 304; Soprani - Ratti, 1768, p. 426) come esempio «di far in legno figure di giusta grandezza» e menzionato come termine di paragone nel contratto del 10 dicembre 1592 relativo all’esecuzione di un altro crocifisso per le monache del convento genovese di S. Silvestro (Alizeri, 1880, p. 184).
In via di ipotesi quest’ultimo potrebbe riconoscersi nella scultura collocata nella sala del Capitolo di quel convento, come dimostra l’immagine fotografica scattata in un momento precedente ai bombardamenti del 1942 e del 1944, che distrussero il complesso di S. Silvestro e le sue opere (Sanguineti, 2013, pp. 130, 241 s. nota 94).
Nel 1590 è nuovamente documentata la fornitura di un elemento scultoreo per una nave (Varni, 1861), mentre nel 1592 Filippo intagliò, con «aquile, termini e trofei», un trono portatile in occasione dei festeggiamenti per le nozze del figlio primogenito di Giovanni Andrea, Andrea II, con Giovanna Colonna (Merli - Belgrano, 1874, p. 68). Il 5 aprile 1594 stipulò il contratto con i confratelli dell’oratorio di S. Ambrogio a Genova Voltri per l’esecuzione di un gruppo processionale raffigurante S. Ambrogio che sconfigge gli eretici (Alizeri, 1880, pp. 185 s.), tuttora conservato. Nel contratto è menzionato, come termine di paragone, il disperso gruppo processionale dell’oratorio genovese di S. Bartolomeo, probabilmente appena scolpito dato che nel febbraio 1595 il pittore Agostino Piaggio fu incaricato di decorarlo (p. 185, con trascrizione errata della data [febbraio 1594]). Il 9 gennaio 1597 Filippo fu il beneficiario di una parte della cifra consegnata a Marcello Sparzo, stuccatore urbinate che aveva maturato un debito con lo scultore – di cui era divenuto nel frattempo cognato –, per una decorazione eseguita nella chiesa di S. Tommaso a Pavia (Alizeri, 1880, pp. 202, 221 s. nota 1). Il 1° agosto 1605 Filippo ricevette il pagamento, da parte della confraternita della Madonna del Carmine di Multedo, per l’esecuzione della statua mariana, ancora esistente, ma ingiudicabile per via di una pesantissima ridipintura (Sanguineti, 2013, pp. 133, 242 nota 100).
Il 5 marzo 1607 dettò il proprio testamento: dal documento si deduce lo stato di una famiglia numerosa, dato che dalla prima moglie, Giorgetta, ebbe Matteo, Giulio e Scipione, dalla seconda moglie, Laura, ebbe Luca Antonio e Agostino (e da entrambe nacquero anche svariate figlie). Tutti i figli maschi furono impiegati a coadiuvare il padre in bottega. Infatti, Filippo dispose che «omnia ferramenta [et] lignamina», l’avorio grezzo, i disegni, le stampe, i gessi e tutte le «materiae concernentes et pertinentes ad artem sive exercitium», fossero divisi equamente tra loro. Inoltre, desiderò che alla sua morte «omnia opera» rimasta in bottega, «confecta, fabricata, elaborata et seu sculpta tam in ebore, corallo et ligno quam in alia quavis materia», fosse venduta a favore della moglie Laura. Infine, destinò la casa in contrada San Tommaso ai cinque figli, affinché venisse suddivisa tra loro, fatto salvo l’usufrutto che avrebbe goduto la moglie (Alizeri, 1880, pp. 173-176).
Lo scultore spirò entro l’11 agosto dello stesso anno, poiché quel giorno Matteo, Giulio, Scipione e Luca Antonio, «filii et heredes cum cautela quondam Philippi de Sancta Cruce», per conto del loro fratello minore Agostino e della vedova Laura, consegnarono al notaio l’inventario della bottega, finalizzato ad alienare le opere presenti (pp. 178-180). Il 26 febbraio 1608 i figli di Filippo (detti i Pippi) ripartirono tra loro la casa «posta a Genova nella contratta delli Canoni di S. Tomaso» (pp. 176 s.).
Matteo fu il figlio maggiore di Filippo e titolare del medaglione biografico dedicato agli eredi dello scultore da Soprani (1674, pp. 196 s.; Soprani - Ratti, 1768, pp. 355 s.). Nel 1595 fu richiesto dai confratelli della Maddalena, a Novi Ligure, per revisionare il gruppo scultoreo del Calvario realizzato da pochi anni per quella sede dallo scultore Daniele, originario di Hucqueliers in Piccardia (Zana, 2012). Il 26 febbraio 1608 ereditò la bottega di Filippo (Alizeri, 1880, pp. 176 s.). Tra i lavori da lui diretti, le fonti ricordano il soffitto ligneo della sala del Maggior Consiglio in palazzo ducale e i decori della galea Capitana della Repubblica. Soprani ricordava poi la «cassa dell’oratorio de’ Disciplinanti di San Tomaso, con li misteri tutti della Passione del Nostro Redentore», oltre a una serie notevole di «Crocefissi, figure di varij Santi, historie, cartelami et altri lavori» (Soprani, 1674, p. 197). Il 22 agosto 1616 Matteo è citato come esecutore di un tabernacolo ligneo per l’altare maggiore della chiesa di S. Pietro a Corniglia (La Spezia), che il pittore Prospero Luxardo doveva dorare e dipingere (Sanguineti, 2013, p. 468, doc. 31). Questa collaborazione permette di avanzare l’attribuzione delle statue raffiguranti i Quattro Evangelisti, conservate nella stessa chiesa, per le quali il Luxardo sembrerebbe essere stato coinvolto nel 1611 in qualità di coloritore (p. 143). Tra il 1619 e il 1625 Matteo venne ricompensato per alcuni lavori a intaglio (tra cui la cantoria dell’organo, in seguito rimossa) per la cappella di Nostra Signora Incoronata nella chiesa di S. Maria delle Vigne a Genova (Varni, 1878). Nel 1627 eseguì per la confraternita di S. Bernardino a Diano Castello (Imperia) il gruppo processionale del santo, di cui restano, con ogni probabilità, i quattro angeli cantonali (Sanguineti, 2013, pp. 143, 469, doc. 38). Nella tassazione del 1630 per la pubblica edificazione della nuova cinta muraria a Genova, contribuì con 3 lire, entro la categoria professionale dei «celatores, vulgo intagliatori» (pp. 469 s., doc. 39). Nel testamento del fratello Giulio, del 27 agosto 1650, lo scultore risulta già defunto (Alfonso, 1985).
Matteo fu maestro dei figli Giovanni Battista e Antonio. Quest’ultimo, fino a ora, risulta menzionato solo nella tassazione del 1630 (Sanguineti, 2013, pp. 469 s., doc. 39) e nel testamento dello zio Giulio Santacroce (27 agosto 1650; Alfonso, 1985).
Giovanni Battista nacque da Matteo probabilmente entro la fine del Cinquecento e fu avviato dal padre alla professione di famiglia nell’ambito della bottega del nonno Filippo. Secondo Soprani, dopo essersi esercitato «con buon dissegno», era giunto a «estraere da legnami et avorio figure, historie et altri lavori molto eccellenti», approdando «con la sua virtù all’imitatione de’ propri antenati» (Soprani, 1674, p. 197). Il biografo ricordò, tra l’ingente produzione realizzata a Genova, il suo intervento nei decori della galea reale di Spagna, «quali ridusse ad ogni perfetto ordine e maestria» (ibid.). L’attività di Giovanni Battista si estese poi all’esecuzione di «diversi Crocifissi, e misteri della passione del Nostro Redentore [...] per gli oratorij e case della città» (p. 198). È ancora esistente l’unico gruppo scultoreo indicato da Soprani, e poi da Ratti, ossia la Madonna del Rosario, «ch’egli lavorò in legno per la chiesa di S. Vincenzo» (Soprani - Ratti, 1768, p. 356), oggi presso la chiesa di Nostra Signora della Consolazione (Sanguineti, 2013, p. 144).
Già in loco nel 1638, l’opera, unitamente a una serie di simulacri accostabili per stile – tra cui quello della chiesa dell’Assunta a Sestri Ponente, databile in un momento posteriore al 1629 (p. 145) –, evidenzia l’appropriazione di un linguaggio tardomanierista, forgiato sugli schemi utilizzati nel marmo da Tomaso Orsolino e dagli altri scultori lombardi.
L’11 ottobre 1630 Giovanni Battista contribuì con 6 lire – la cifra più alta rispetto a quella sborsata da tutti gli altri Santacroce – all’imposta civica per le mura cittadine, comparendo nella categoria dei «celatores, vulgo intagliatori» (pp. 469 s., doc. 39). Nel 1641 fornì alla confraternita della Ss. Trinità e S. Giovanni Battista a Ovada (Alessandria) un gruppo processionale che dovrebbe riconoscersi in quello ancora conservato in oratorio, con rimaneggiamenti settecenteschi, raffigurante il Battesimo di Cristo (p. 145). Lo scultore, che «mancò in età ben avanzata» (Soprani - Ratti, 1768, p. 357), compare nel testamento dello zio Giulio (27 agosto 1650) in qualità di erede universale (Alfonso, 1985). Nel 1658 prese parte ai lavori dell’organo della basilica di S. Maria Assunta di Carignano (Torino), intagliando, con una scarsa propensione all’aggiornamento, due angeli ai lati dell’arma della famiglia Sauli (Varni, 1877). La morte avvenne prima del 1674, giacché nelle Vite di Soprani egli è indicato come defunto.
Giulio fu il secondo figlio maschio di Filippo, nato dal primo matrimonio, con Giorgietta: in tal modo è definito nel testamento del padre steso il 5 marzo 1607 (Alizeri, 1880, pp. 173-176). Comparve poi, l’11 agosto dello stesso anno, insieme ai fratelli, nella stesura dell’inventario delle opere di Filippo rimaste in bottega e, il 26 febbraio 1608, nella divisione con gli altri fratelli della casa paterna, in contrada San Tommaso, dove gli toccò il secondo piano (pp. 176 s.). Tra il 1612 e il 1613 fu pagato per la partitura decorativa dell’organo di destra della cattedrale di S. Lorenzo a Genova (Varni, 1861; Finocchietti, 1873). L’11 ottobre 1630 corrispose 3 lire come tassa dovuta dai «celatores, vulgo intagliatori» per la costruzione delle nuove mura cittadine (Sanguineti, 2013, pp. 469 s., doc. 39): oltre ai fratelli compare un figlio, Antonio, di cui null’altro è dato sapere (salvo datarne la morte prima del 1650, quando non venne nominato erede dal padre).
Secondo Soprani (1674, p. 197) Giulio fu «un cervello bisbetico» e rissoso, «d’umore stravagante» e «di costumi poco lodevoli» (Soprani - Ratti, 1768, p. 356): fu condannato «al tormento della galea» per aver amputato la mano a un avversario nel corso di una rissa, ma fu liberato con la clausola di aiutare i fratelli nell’esecuzione del soffitto ligneo della sala del Maggior Consiglio in palazzo ducale.
Il 27 agosto 1650 dettò il proprio testamento (Alfonso, 1985), nominando il nipote Giovanni Battista erede universale. Spirò entro il 5 febbraio 1651, quando Giovanni Battista risultava già suo erede.
Scipione è menzionato, nel testamento del padre Filippo, come terzo figlio maschio, l’ultimo nato, dopo Matteo e Giulio, da Giorgietta (Alizeri, 1880, pp. 173-176). Tra il 1607 e il 1608 ereditò dal padre, insieme agli altri fratelli, gli strumenti del lavoro, le opere e la casa, della quale gli toccò il quarto piano (pp. 176 s.). Secondo Soprani (1674, p. 196) si applicò, insieme ai suoi fratelli, «alla professione del genitore».
Luca Antonio fu il quarto figlio maschio di Filippo, il primo avuto dalla seconda moglie, Laura. Il 5 marzo 1607 venne nominato, insieme ai fratelli, nel testamento del padre (Alizeri, 1880, pp. 173-176), mentre il 26 febbraio 1608 ricevette il terzo piano della casa paterna in contrada San Tommaso (pp. 176 s.). Il 4 luglio 1611 s’impegnò a realizzare una serie di scene, probabilmente altorilievi, raffiguranti gli episodi della vita di s. Bartolomeo per l’oratorio genovese dedicato al santo (Alfonso, 1985, p. 204). Morì prima del 1630, in quanto il suo nome non compare, accanto ai fratelli, negli elenchi dei tassati per le nuove mura (Sanguineti, 2013, pp. 469 s., doc. 39).
Secondo Soprani, suo figlio Francesco, che morì «d’immatura età», era «dotato d’un felicissimo ingegno» e giunse «al maneggio delli scalpelli, con li quali operava alla buona maniera» (Soprani - Ratti, 1768, p. 357). Fu incline, secondo il biografo, alle statue di gran formato piuttosto che agli intagli minuti. Fino a oggi non è emerso nessun documento a lui relativo, ma la sola citazione nel testamento, del 27 agosto 1650, dello zio Giulio: Francesco, insieme al cugino Giovanni Battista, avrebbe dovuto alienare gli strumenti di bottega e i disegni del defunto, spartendosene il ricavato (Alfonso, 1985).
Agostino fu il figlio minore che Filippo ebbe dalla seconda moglie Laura. Nella divisione della casa, avvenuta il 26 febbraio 1608, risulta ancora minorenne, ossia «di età d’anni 23 in circa», e pertanto spettò a lui la prima scelta «per legal consuetudine» (Alizeri, 1880, pp. 176 s.). Si ricava dunque che la nascita avvenne intorno al 1585. Non si hanno specifiche informazioni sui lavori effettuati da Agostino, il quale fu annoverato da Soprani, insieme agli altri ‘Pippi’, come continuatore della professione paterna (Soprani, 1674, p. 196). Nel luglio del 1610 riscattò presso il suocero, Filippo Zucca, un piccolo San Sebastiano in corallo e una serie di effigi di imperatori realizzati dal padre e toccati a lui nella divisione delle opere presenti in bottega: li aveva depositati in cambio di 150 lire utili per coprire un debito nei confronti della madre Laura (Alizeri, 1880, p. 182). L’11 ottobre 1630 corrispose, entro la categoria dei «celatores, vulgo intagliatori», 2 lire nell’ambito della tassazione per la costruzione delle nuove mura cittadine (Sanguineti, 2013, pp. 469 s., doc. 39).
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