Salute, sanità e regioni in un Servizio sanitario nazionale
L’istituzione delle regioni in Italia è stata definita «uno dei rari tentativi in tempi recenti degli Stati-nazione dell’Occidente di creare nuove istituzioni rappresentative» (S.Tarrow, Local constraints on regional reform: a comparison of Italy and France, «Comparative politics», 1974, 7, pp. 1-36) e anche «la più significativa innovazione nella politica italiana in più di tre decenni di Repubblica» (R.D. Putnam, R. Leonardi, R.Y. Nanetti, Explaining institutional success: the case of Italian regional government, «The American political science review», 1983, 77, pp. 55-74).
Fin dai primi anni del secondo dopoguerra le politiche sanitarie sono state al centro di questo processo e hanno costituito la principale arena in cui si sono sviluppate competenze e capacità dello Stato e delle regioni intrecciando obiettivi di democrazia, di equità e di modernizzazione (Taroni 2011). Il Progetto di riforma dell’ordinamento sanitario italiano elaborato nel 1944 da Augusto Giovanardi (1904-2005) per il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia prefigurava un sistema sanitario universalistico incentrato su un ruolo attivo di regioni e comuni alternativo al potere prefettizio, emanazione del Ministero degli Interni nella sanità pubblica, e a quello delle mutue in ambito clinico-assistenziale, combinando istanze di democrazia e di efficienza gestionale per trasformare un sistema sanitario centralistico, frammentato e diseguale fra categorie professionali e ambiti territoriali.
Il programma ospedaliero preparato nel 1962 da Giovanni Berlinguer nell’ambito del Piano Giolitti del primo governo di centro-sinistra, si proponeva di riequilibrare la distribuzione degli ospedali fra Nord e Sud del Paese e di incentivare la loro modernizzazione, evidenziando problemi antichi di equità geografica nell’accesso all’assistenza ospedaliera e più recenti ritardi nel recepire la rivoluzione scientifica e tecnologica del secondo dopoguerra.
Negli anni Settanta, l’attuazione delle 15 regioni a statuto ordinario e l’istituzione del SSN (Servizio Sanitario Nazionale) rientravano nel generale processo di «disgelo della Costituzione» (S. Rodotà, Le libertà e i diritti in Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, a cura di R. Romanelli, 1995, pp. 301-63) che ha visto approvare importanti riforme istituzionali e numerose leggi di espansione dei diritti civili. La l. 23 dic. 1978 nr. 833, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, ha dato attuazione all’art. 32 Cost. rendendo operativi i cinque principi fondamentali di universalismo, globalità di copertura, equità, gratuità e finanziamento attraverso la fiscalità generale e delineando uno schema di governo multilivello, che voleva essere contemporaneamente nazionale nella universalità della copertura e nella uniforme accessibilità ai servizi, regionale nella organizzazione e comunale nella gestione. Successivamente, tutti i principali momenti di riforma del SSN si sono profondamente intrecciati con l’evoluzione ‘regionalistica’ dell’ordinamento della Repubblica, fungendo spesso da terreno di sperimentazione di nuove forme di relazioni fra Stato, regioni e autonomie locali, poi estese anche ad altri settori.
Le regioni hanno utilizzato le competenze acquisite in ambito sanitario per rafforzare il loro profilo identitario e affermarsi come soggetti politici e istituzionali in tutti i settori dell’arena politica nazionale. In questo senso le politiche sanitarie hanno svolto nella costruzione dell’identità politico-istituzionale delle regioni un ruolo analogo a quello esercitato dai sistemi di welfare nel processo di nation-building. L’attivismo e la capacità di innovazione di alcune regioni hanno contribuito ad aumentare le differenze nei modelli organizzativi e nel rendimento istituzionale dei sistemi sanitari regionali, facendo temere per l’unitarietà del SSN.
All’antica divisione fra Nord e Sud del Paese sul piano economico, demografico, epidemiologico e nell’offerta di servizi si sono quindi sovrapposte le conseguenze di una più recente divaricazione nella capacità amministrativa e di governo delle regioni, esacerbata dall’aumento delle competenze necessarie per governare sistemi sanitari sempre più complessi e costosi che oggi incidono per quasi il 70% sui bilanci regionali.
Qui si presenta un profilo sintetico dell’evoluzione del ruolo delle regioni nelle politiche sanitarie italiane dalla loro istituzione al nuovo secolo, alla ricerca del difficile equilibrio fra i principi di universalismo equitativo del SSN e l’esaltazione delle differenze nelle pratiche di governo decentrato. L’analisi è organizzata attorno a sei punti di snodo fondamentali dal punto di vista politico e istituzionale e si conclude con una breve valutazione dell’impatto della regionalizzazione sulla sanità italiana in termini di organizzazione, di offerta assistenziale e di risultati di salute nelle diverse regioni, con una particolare attenzione alla divisione fra Nord e Sud del Paese.
Il periodo 1970-74 corrisponde alla fase costituente in cui le regioni hanno esercitato una forte azione di sollecitazione del governo centrale a sostegno della riforma cui hanno contribuito anche con lo sviluppo di nuovi modelli organizzativi. Alla prova della attuazione di una legge alta nei principi ma ambigua e contraddittoria nelle soluzioni organizzative le regioni hanno ottenuto risultati complessivamente deludenti che hanno contribuito alla ricerca pressoché immediata di una ‘riforma della riforma’ realizzata soltanto nei primi anni Novanta.
Aziendalizzazione della gestione e regionalizzazione del governo della sanità sono i due tratti salienti introdotti dalla riforma Amato-De Lorenzo del 1992, rafforzati ed estesi dalle leggi Bassanini, di federalismo amministrativo a Costituzione invariata (l. 15 marzo 1997 nr. 59 e l. 15 maggio 1997 nr. 127; l. 16 giugno 1998 nr. 191; l. 8 marzo 1999, nr. 50) e mantenuti dalla riforma Bindi del 1999. La riforma costituzionale del 2001 ha conferito una competenza concorrente alle regioni nell’organizzazione degli interventi a tutela della salute entro i vincoli dei principi fondamentali del SSN stabiliti dallo Stato e ha segnato la fine delle grandi riforme organiche della sanità a livello nazionale.
Nel decennio successivo sono emersi i problemi di coordinamento fra governo centrale e governi regionali che hanno dapprima trovato espressione nell’aumento del contenzioso sollevato di fronte alla Corte costituzionale e si sono poi focalizzati sulle relazioni intergovernative mediate dal sistema delle conferenze. Lo scoppio della crisi, ufficialmente entrata nella politica italiana nel 2011, e gli episodi di corruzione emersi in alcune delle principali regioni italiane hanno prodotto un’improvvisa eclissi del federalismo nel momento in cui si sarebbe dovuto dare attuazione alla sua fondamentale componente fiscale lasciando in sospeso un lungo e tormentato processo che resta tuttavia in attesa di una conclusione al momento difficilmente prevedibile.
Insieme alle organizzazioni sindacali, le regioni sono state i principali attori a sostegno della istituzione del SSN fin dal loro avvio nel 1970. Malgrado le divisioni fra i partiti dei governi di centro-sinistra, tutte le regioni erano schierate unitariamente contro la tenace resistenza degli enti mutualistici che continuavano a godere dell’appoggio di importanti settori dello Stato e della sua alta burocrazia e del sostegno di gran parte della medicina organizzata (Taroni 2011, p. 162 e segg.). Ad appena tre mesi dalle prime elezioni regionali, un documento unitario dei neoassessori alla Sanità aveva sollecitato il governo a dare attuazione all’accordo sottoscritto con le organizzazioni sindacali per una pronta approvazione del disegno di legge per l’istituzione del SSN, di cui l’anno successivo le regioni elaborarono un proprio schema.
Alle attività politico-istituzionali di sollecitazione e sostegno svolte anche in sede parlamentare attraverso l’apposita Commissione, alcune regioni affiancarono una più concreta azione anticipatrice di sviluppo di nuovi modelli organizzativi che sfruttava i limiti della legislazione nazionale. Mentre la legge delega del 1970 disponeva di trasferire le nuove competenze per ‘settori organici’, gli 11 decreti delegati adottati nel 1972 attribuirono alle regioni una serie di attività frammentate e minuziosamente ritagliate nell’ambito dei poteri dello Stato centrale. Il ‘ritaglio’ di funzioni era espressione delle resistenze degli apparati ministeriali e fu causa di duplicazioni e inefficienze nell’azione amministrativa. Tuttavia, l’assenza di una legge quadro favorì implicitamente l’iniziativa autonoma delle regioni, riducendo i vincoli formali. L’innovazione regionale si concentrò soprattutto sui settori portati all’attenzione generale dalla ‘stagione dei movimenti’ come la salute della donna e la prevenzione nei luoghi di lavoro ed esercitò importanti riflessi anche sulle scelte nazionali.
Un esempio significativo dell’influenza delle innovazioni regionali sulle politiche nazionali è la l. 29 luglio 1975 nr. 405 sui Consultori materno-infantili per promuovere la maternità e la paternità responsabile e tutelare la salute della madre e del bambino. La legge recepiva i modelli organizzativi di Lombardia ed Emilia-Romagna che avevano a loro volta istituzionalizzato sollecitazioni partecipatorie e pratiche assistenziali dei movimenti femministi e di tutela della salute della donna diffusi fin dagli anni Sessanta in molte città. La legge nazionale era fortemente innovativa sia riguardo all’oggetto, integrando elementi sanitari, sociali e socio-assistenziali, sia dal punto di vista istituzionale, affidando alle regioni il compito di programmare la distribuzione delle nuove organizzazioni nel quadro dei principi generali enunciati dalla normativa nazionale.
Significato analogo, ma con un più ampio impatto strategico hanno avuto le esperienze regionali di riorganizzazione della Sanità avviate con la costituzione di Consorzi intercomunali per le attività di sanità pubblica e di prevenzione nei luoghi di lavoro. Riprendendo dopo trent’anni l’intuizione di Augusto Giovanardi, la Lombardia costituì nel 1972 i Consorzi sanitari di zona per l’esercizio consortile delle attività di igiene e di medicina del lavoro, che l’anno successivo estese al complesso delle attività sanitarie. Durante la prima legislatura, anche Toscana, Umbria, Emilia-Romagna, Veneto, Lazio e Basilicata (unica regione del Sud) intrapresero con strumenti diversi una riorganizzazione delle attività di prevenzione e di assistenza territoriale che faceva perno sui comuni (Trevisan 1975). Toscana e Umbria intervennero ‘dall’alto’ con leggi regionali che individuavano specifici Comprensori e costituivano Consorzi socio-sanitari intercomunali per la gestione integrata dei servizi sanitari e sociali. L’Emilia-Romagna adottò invece una strategia ‘dal basso’ fornendo stimoli culturali e incentivi finanziari per indurre comuni e provincie a unirsi volontariamente in Consorzi socio-sanitari. Di fronte all’attivismo regionale, il governo centrale assunse atteggiamenti ambivalenti che rispecchiavano le divisioni in seno ai partiti di governo. Da un lato il governo respinse per ben due volte la legge di riordino della Regione Basilicata per «interferenza su competenze statali» (Trevisan 1975, p. 77). Dall’altro, il ministro della Sanità Luigi Mariotti, visti frustrati i ripetuti tentativi di far approvare la sua proposta di riforma sanitaria invitò le regioni a «legiferare anche in assenza di leggi cornice in ordine all’assetto da dare al servizio sanitario nelle singole Regioni» (Taroni, 2011, p.173).
La l. 22 luglio 1975 n. 382 recante Norme sull’ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica amministrazione e il suo decreto delegato (d.p.r. 24 luglio 1977 nr. 616) sono giustamente ricordati come «lo spartiacque nella evoluzione storica dell’assistenza in Italia» (Fargion 1997, p. 97). La normativa attribuiva ai comuni la titolarità di tutte le funzioni amministrative e alle regioni più problematici e meno definiti compiti di programmazione, indirizzo e coordinamento, a cominciare dalla «determinazione degli ambiti territoriali adeguati alla gestione dei servizi sociali e sanitari» (art. 25). In ambito sanitario tuttavia, la svolta era già avvenuta un anno prima, in modo quasi casuale e certamente inatteso. La discussione sulla conversione in legge di un decreto per l’ennesimo rifinanziamento dei principali enti mutualistici la cui esposizione debitoria poneva gli ospedali sull’orlo della bancarotta trasformò improvvisamente l’istituzione del SSN da riforma difficile da fare a una «riforma impossibile da evitare» come era intitolato un articolo di Berlinguer apparso sulla stampa quotidiana dell’epoca (ora in G. Berlinguer, Una riforma per la salute. Iter e obiettivi del Servizio sanitario nazionale, 1979, p. 127). La l. 17 ag. 1974 nr. 386, recante norme per l’estinzione dei debiti degli enti mutualistici nei confronti degli enti ospedalieri, il finanziamento della spesa ospedaliera e l’avvio della riforma sanitaria, stabiliva infatti una data certa per lo scioglimento delle mutue e il trasferimento delle competenze alle regioni, cui conferì la titolarità della programmazione dell’assistenza ospedaliera e del suo finanziamento da un Fondo ospedaliero nazionale ripartito alle regioni secondo criteri preordinati.
Contestualmente, il ministro della Sanità Vittorino Colombo presentava il disegno di legge governativo per l’istituzione del SSN, che l’ampia relazione illustrativa inquadrava nel contesto dell’attuazione dei precetti costituzionali dell’art. 32, finalmente acquisito come termine di riferimento in contrapposizione all’art. 38 che aveva sostenuto il regime mutualistico. Malgrado godesse di ampia condivisione, l’istituzione del SSN avrebbe dovuto attendere ancora quattro anni per essere infine approvato dalla ‘strana maggioranza’ di un governo di solidarietà nazionale con l’appoggio del Partito comunista italiano, nel pieno della gravissima crisi economica provocata dallo shock petrolifero, quando la maggior parte dei Paesi europei aveva già intrapreso un processo di ridimensionamento dei propri sistemi di welfare e durante uno dei periodi più tragici per la vita civile del Paese, in un contesto eccezionale segnato dal rapimento e assassinio di Aldo Moro e dalle dimissioni del presidente della Repubblica (Giovanni Leone) nel 1978.
«Riconoscimento della salute come un diritto, universalità delle prestazioni per tutti i cittadini; integrazione dei servizi di prevenzione, cura e riabilitazione; gestione decentrata in rapporto col sistema delle autonomie locali; finanziamento attraverso il sistema fiscale» sono nella efficace sintesi di Berlinguer (G. Berlinguer, Servizio sanitario nazionale, in Dizionario di storia della salute, a cura di G. Cosmacini, G. Gaudenzi, R. Satolli, 1996, pp. 557-59) i principi fondamentali e i criteri organizzativi del nuovo Servizio sanitario nazionale. I principi universalistici ed egalitari di stampo beveridgiano ‒ l’economista e politico britannico William H. Beveridge (1879-1963) aveva ideato il complesso piano di assicurazione sanitaria obbligatoria e gratuita per tutti entrato in vigore nel 1948 ‒ operavano uno strappo fra il nuovo sistema sanitario e un sistema di welfare che negli altri settori continuava a essere basato su trasferimenti finanziari e modellato sui principi bismarckiani dei sistemi di assicurazione sociale, tipici dei regimi corporativi dell’Europa continentale.
L’istituzione del SSN trasformava in un diritto di cittadinanza uniforme per tutti gli italiani, con oneri a carico della collettività nazionale, quello che per i precedenti cinquant’anni, a partire dalla Carta del lavoro del 1927, era stato un beneficio riservato ai lavoratori occupati, con prestazioni differenziate per settore economico e per categoria professionale, condizionate al pagamento di corrispettivi economici diversi e proporzionati alle prestazioni secondo il ‘principio commutativo’ proprio dei sistemi assicurativi (Taroni 2011, pp. 61 e segg.). Gli articoli che componevano il nucleo essenziale della legge riflettevano, con formulazioni spesso felici, i principi fondamentali che si erano affermati nel corso di un dibattito trentennale, configurando un provvedimento alto nei principi, approssimativo nel disegno organizzativo e che si sarebbe rivelato scadente nell’attuazione.
Il primo periodo dell’art. 1 della l. 23 dic. 1978 nr. 833 realizzava una sintesi fra i principi enunciati dall’art. 32 della Carta costituzionale e la funzione strumentale alla loro realizzazione che quella legge attribuiva al SSN: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, mediante il Servizio sanitario nazionale». La puntuale indicazione dei soggetti istituzionali interessati all’attuazione del SSN («l’attuazione del SSN compete allo Stato, alle Regioni e agli Enti locali territoriali, garantendo la partecipazione dei cittadini») esplicitava il riferimento alla Repubblica presente nel testo costituzionale ripreso dalla legge. Allo Stato competeva la formulazione della politica sanitaria della nazione attraverso un Piano sanitario nazionale che avrebbe dovuto indicare, su base triennale, le prestazioni garantite e «le norme generali di erogazione». Alle regioni era affidata la programmazione e il coordinamento, anche per via legislativa, di tutti gli interventi sanitari, ospedalieri, territoriali e di sanità pubblica, entro i vincoli del Piano sanitario nazionale. Ai comuni spettavano le responsabilità dirette di gestione delle Unità sanitarie locali (USL), le unità operative fondamentali del sistema, in ragione della titolarità di tutte le funzioni amministrative a loro già riconosciuta anche in campo sanitario dal d.p.r. 24 luglio 1977 nr. 616 in attuazione della l. 22 luglio 1975 nr. 382.
Sul piano organizzativo e gestionale, la riforma sanitaria enunciava un grandioso progetto di integrazione verticale completa su base territoriale sotto l’unica proprietà pubblica del SSN di tutti i servizi e gli enti erogatori di prestazioni sanitarie, inclusi gli enti ospedalieri che perdevano la personalità giuridica per diventare strutture operative delle USL. La qualificazione della USL come «il complesso dei presidi, degli uffici e dei servizi dei Comuni, singoli o associati, e delle Comunità montane, i quali in un ambito territoriale determinato assolvono ai compiti del SSN» (art. 10), era la risposta in termini di integrazione organizzativa dei servizi in riferimento a una comunità territorialmente definita rispetto alla frammentazione dell’assistenza nei tre circuiti paralleli della medicina generale, specialistica e ospedaliera caratteristica del regime mutualistico.
Contrastava con l’autonomia esaltata dal sistema organizzativo il disegno di un sistema di ‘programmazione a cascata’, in cui il Piano sanitario nazionale su base triennale indirizzava i Piani regionali di attuazione che agivano da vincolo alla gestione comunale delle USL. Al decentramento delle funzioni di gestione faceva da contrappunto anche un sistema di prelievo fiscale e di finanziamento egualmente centralizzati. La riforma tributaria del 1971 aveva concesso alle regioni un’autonomia impositiva limitata, soprattutto in relazione all’entità delle risorse finanziarie mobilizzate dal sistema sanitario. Il finanziamento del SSN prevedeva un disegno ‘a cascata’ parallelo a quello della programmazione in cui il governo centrale determinava annualmente l’ammontare complessivo delle risorse da iscrivere nel bilancio dello Stato e indicava la sua ripartizione fra le regioni, anche a fini di riequilibrio fra Nord e Sud del Paese («tenuta presente l’esigenza di superare le condizioni di arretratezza socio-sanitaria che esistono nel Paese, particolarmente nelle regioni meridionali», come enunciava l’art. 53). Ne risultava un sistema di finanza derivata che dissociava i poteri di spesa da quelli di prelievo e di finanziamento e poneva delicati problemi di responsabilizzazione degli agenti di spesa, uno dei punti di maggiore debolezza della legge di riforma che avrebbe segnato la storia del SSN da allora in poi.
La legge istitutiva delineava quindi un SSN che poteva essere plausibilmente interpretato sia come un’organizzazione unitaria gerarchicamente ordinata sia come un sistema a tre livelli di governo con autonomia politico-istituzionale operanti entro indirizzi generali definiti congiuntamente. Il prevalere negli anni Ottanta del duplice schema di programmazione e di finanziamento ‘a cascata’ (elaborato per la Sanità ma trasferito a numerosi altri settori) realizzava il disegno di una autonomia eterodiretta, costretta negli ambiti dell’attuazione di obiettivi stabiliti dai livelli superiori. Inoltre, il sistema di governo non prevedeva istituzioni deputate alla concertazione delle politiche sanitarie, salvo la curiosa partecipazione di rappresentanti designati dalle regioni (in genere, i loro assessori alla Sanità) a un organo tecnico di consulenza del Ministero della Sanità come il Consiglio superiore di sanità. Le relazioni istituzionali fra Stato e regioni si esprimevano quindi principalmente attorno alle politiche di bilancio elaborate unilateralmente dal governo centrale attraverso le leggi finanziarie annuali, che finirono per comprimere significativamente le competenze delle regioni con un processo di ricentralizzazione giustificato dalle necessità di controllare la spesa pubblica (Buglione, France 1983).
L’attuazione della riforma richiedeva a una burocrazia regionale di recente creazione la produzione di una normativa complessa che avrebbe dovuto, da un lato, assorbire e integrare le competenze di centinaia di enti mutualistici e le attività dei disciolti enti ospedalieri, dall’altro, inventare nuove relazioni con il governo centrale e con gli enti locali in un contesto estremamente sfavorevole sul piano sociale, economico e finanziario.
Le numerose leggi fortemente espansive dei diritti in ambito sanitario e sociale approvate nel corso degli anni Settanta avrebbero dovuto essere attuate nella fase di ‘riflusso’ dei movimenti sociali che ne avevano sospinto l’approvazione. A livello centrale dominavano negli anni Ottanta le rigide politiche di contenimento della spesa pubblica imposte dalla congiuntura economica della doppia crisi del petrolio e dal vincolo esterno dell’adesione al Sistema monetario europeo. Dopo una serie di decreti legge che recavano ‘misure urgenti per la spesa sanitaria’, la finanziaria-bis del 1982 intervenne così pesantemente sulla parte finanziaria della legge di riforma che nella relazione illustrativa si ritenne di includere la seguente esplicita rassicurazione: «i principi fondamentali della l. 833 restano validi ed il processo di riforma non si arresta», precisando tuttavia che «essa si assesta alle mutate ed oggettive condizioni economiche del paese».
La risposta allo squilibrio fra l’aumento del fabbisogno sanitario e la riduzione delle disponibilità per la diminuzione del gettito derivante dalla recessione economica e da una politica fiscale di riduzione dei contributi sociali delle imprese fu una politica di cronico sottofinanziamento del SSN. Irrealistiche previsioni di riduzioni di spesa ponevano il sistema sanitario in una situazione di crisi finanziaria permanente che contribuiva a rallentare la crescita della spesa ma creava nuovi disavanzi che venivano utilizzati per giustificare ulteriori restrizioni finanziarie. La dissociazione fra le politiche restrittive della spesa pubblica a livello nazionale e le politiche espansive dei diritti a livello regionale segnava una differenza di fase fra Stato e regioni che finì per comprimere indirettamente le nuove autonomie regionali e locali, dando luogo a una sorta di «federalismo asimmetrico» (Buglione, France 1983). Infine, le ambiguità e i rinvii della già citata l. 833 che ne avevano agevolato l’approvazione e l’assenza di un Piano sanitario nazionale che avrebbe dovuto indirizzarne l’attuazione ‒ ma venne approvato solo 15 anni dopo ‒ lasciarono ampio spazio a interpretazioni autonome e potenzialmente divergenti di elementi fondamentali per il profilo del nuovo sistema sanitario. Affidata a un ministro esponente dell’unico partito, il Partito liberale italiano, che non l’aveva votata, l’attuazione della riforma si rivelò al di sotto delle aspettative anche di coloro che maggiormente l’avevano sostenuta.
Un’indagine condotta dal CNEL (Comitato Nazionale dell’Economia e del Lavoro) nel 1981 sulla attuazione della riforma mostrava l’insoddisfazione diffusa dei cittadini che dichiaravano di percepire un peggioramento delle condizioni di assistenza rispetto al periodo delle vituperate mutue. La stessa indagine segnalava che tutte le regioni, tranne la Sicilia, avevano formalmente provveduto alla individuazione delle USL e alla nomina dei loro organi, ma la maggior parte era ancora alle prese con la ricognizione e il trasferimento ai comuni del patrimonio dei disciolti enti mutualistici e ospedalieri. Dati del Ministero della Sanità mostravano ampie differenze nel numero e nelle dimensioni delle USL, che contavano mediamente 44.000 abitanti nel Trentino-Alto Adige e in Molise, 178.000 in Friuli Venezia Giulia e 139.000 in Veneto e Lombardia rispetto a una media nazionale di 87.000 abitanti (Del Vecchio 1980). In assenza del Piano nazionale due regioni, Piemonte ed Emilia-Romagna, avevano autonomamente elaborato un Piano sanitario regionale in violazione della norma che vincolava la programmazione regionale agli indirizzi nazionali. Le differenze fra le regioni nelle forme, nei modi e nei tempi di attuazione della riforma suggerirono al CNEL l’importante conclusione che «va aumentando il divario tra le regioni più progredite e quelle a più basso grado di sviluppo, risultato questo che costituisce una grave contraddizione rispetto ad uno dei principi fondamentali della riforma» (CNEL, Osservazioni e proposte sullo stato di attuazione della riforma sanitaria, 1982, p. 98).
Alle differenze fra regioni concorsero anche la diversità nelle relazioni fra società civile e classe politica che condizionarono l’attuazione dell’ideale della «partecipazione democratica», uno dei principi fondamentali della riforma. La «goffaggine istituzionale» della legge istitutiva, che confondeva obiettivi di rappresentanza democratica con esigenze di gestione, attribuendo i poteri esecutivi a politici designati dai partiti rappresentati nei Consigli comunali, favorì un’estesa lottizzazione partitica dei Comitati di gestione delle USL (La salute che noi pensiamo, a cura di M. Ferrera, G. Zincone, 1986, p. 231). L’organizzazione ampiamente decentrata del SSN e la politicizzazione della gestione facilitarono la permeabilità delle istituzioni ai più disparati interessi e gruppi di pressione degenerata talora in fenomeni di clientelismo politico e di corruzione. Soprattutto nelle regioni del Sud il decentramento delle competenze realizzato dalla riforma delle autonomie locali degli anni Settanta avrebbe costituito per il ceto politico «una inattesa e straordinaria opportunità di allocazione delle risorse, da incanalare secondo le pratiche consuete di natura particolaristica e clientelare, attraverso il voto di scambio» (Fargion 1997, p. 124).
La domanda di depoliticizzare l’assistenza sanitaria attraverso l’attribuzione di puntuali responsabilità di gestione delle USL a personale tecnicamente qualificato costituì uno dei principali fattori che favorì anche in Italia la svolta manageriale che si era già affermata nella pubblica amministrazione di molti Paesi e trovò nella Sanità le sue prime applicazioni. Soltanto la crisi finanziaria, istituzionale e politica dei primi anni Novanta avrebbe però segnato la fine del blocco istituzionale che aveva impedito l’approvazione della lunga serie di proposte di ‘riforma della riforma’ avanzate per ovviare ai problemi di attuazione della riforma del 1978.
Gli anni Novanta hanno costituito un decennio cruciale per il governo della Sanità, durante il quale le regioni hanno rafforzato la loro identità politico-istituzionale e assunto un peso crescente nella formulazione delle politiche nazionali.
La ricerca di una riforma della riforma era praticamente cominciata con l’approvazione della l. 833 e aveva dato vita a una frenetica attività legislativa durante gli anni Ottanta. Il principale blocco dell’attività legislativa derivava dallo scontro fra due schieramenti trasversali ai partiti che opponeva ai ‘comunardi’ sostenitori del mantenimento della gestione comunale i ‘regionalisti’ che proponevano invece la trasformazione delle USL in enti strumentali delle regioni. Lo stallo politico e istituzionale fu rotto soltanto dalla gravissima crisi finanziaria, economica e istituzionale dei primi anni Novanta che aprì una ‘finestra di opportunità’ per l’approvazione in brevissimo tempo di una serie di riforme su temi tecnicamente complessi e politicamente sensibili come pensioni, pubblica amministrazione ed enti locali, fra cui anche la sanità.
La riforma Amato-De Lorenzo (d. legisl. 23 dic. 1992 nr. 502), approvata in risposta alla più grave crisi economica e istituzionale del dopoguerra dopo quella iniziata nel 2008, ha introdotto nell’organizzazione del SSN tre elementi fortemente innovativi rispetto ai principi fondamentali e ai criteri organizzativi presenti nella sua legge istitutiva. L’aziendalizzazione trasformava le USL da organizzazioni gestite dai comuni ad aziende pubbliche controllate dalla regione e prevedeva la possibilità di scorporare un numero limitato di ospedali dalla gestione diretta delle USL costituendole in aziende ospedaliere autonome. La regionalizzazione manteneva allo Stato la definizione dei livelli ‘minimi’ di assistenza secondo le disponibilità economiche stabilite dalle leggi finanziarie annuali ma trasferiva alle regioni più ampie competenze sull’organizzazione e sul funzionamento dei servizi in cambio della responsabilità di far fronte con risorse proprie a eventuali eccessi di spesa rispetto ai trasferimenti statali. La privatizzazione attribuiva alle regioni la possibilità di disporre l’uscita volontaria di loro cittadini dal SSN verso «altri incaricati di servizio», identificati a titolo esemplificativo in «mutue professionali, aziendali, volontarie o assicurazioni private» col compito di provvedere alla «erogazione, in tutto o in parte, dei livelli uniformi di assistenza».
Le tre innovazioni della ‘riforma della riforma’ hanno avuto destini molto diversi. Mentre aziendalizzazione e regionalizzazione si sono mantenute nel tempo, diventando uno dei tratti caratteristici del sistema anche a livello internazionale, la privatizzazione del finanziamento è stata immediatamente rimossa dalla legislazione, dal decreto correttivo approvato l’anno successivo, pur restando una tentazione continuamente riemergente.
Sul piano organizzativo la riforma del 1992 è stata talora presentata come la versione italiana della riforma Thatcher del 1979, enfatizzando l’analogia fra la previsione di scorporo degli ospedali dalle aziende ospedaliere territoriali con i quasi-mercati realizzati in Inghilterra attraverso la separazione fra produttori e compratori di prestazioni sanitarie. Come verrà argomentato in seguito né le condizioni strutturali né le scelte delle regioni sembrano aver effettivamente perseguito un simile assetto, con la possibile e transitoria eccezione della Regione Lombardia. Al di là di superficiali analogie sul piano dell’organizzazione conviene piuttosto segnalare due innovazioni significative nel contenuto e nel processo di formulazione delle politiche sanitarie che hanno preso avvio dalla riforma del 1992 e hanno favorito la regionalizzazione del sistema.
La relazione illustrativa della legge delega argomentava «il più ampio decentramento alle Regioni» con il fine di «garantire la diversità delle soluzioni, frutto di scelte autonome e democratiche» e l’obiettivo di collocare i momenti decisionali nelle sedi «più vicine e più sensibili ai bisogni della gente», responsabilizzando le regioni «non tanto verso l’amministrazione centrale come è stato finora ma verso i cittadini». Queste classiche istanze federaliste riprendevano temi emersi anche nei lavori della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali che, sotto la presidenza di Ciriaco De Mita (1992-93) e poi di Nilde Jotti (1993-94), aveva predisposto uno schema di ordinamento federale dello Stato rimasto inattuato.
Tuttavia, l’intreccio fra responsabilizzazione finanziaria (uno dei problemi irrisolti della riforma del 1978), devoluzione delle funzioni di organizzazione e privatizzazione del finanziamento del SSN suggerisce piuttosto un’analogia con le «nuove politiche pubbliche» di restrizione dei sistemi di welfare degli anni Ottanta (Pierson 1996). La responsabilità finanziaria imposta alle regioni per livelli di spesa eccedenti i trasferimenti statali era esorbitante rispetto alla ridotta autonomia impositiva riconosciuta loro da un regime fiscale che continuava a essere fortemente centralizzato. L’autofinanziamento regionale poteva infatti contare su un limitato aumento dei contributi e dei tributi regionali, come il bollo auto, il gas metano e la quota di compartecipazione all’IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) e sull’imposizione di ulteriori forme di compartecipazione sui costi delle poche prestazioni non gravate da ticket nazionali, come per es. le prestazioni di pronto soccorso. L’uscita di una parte della popolazione regionale dalla tutela del SSN rappresentava quindi la soluzione più credibile per raggiungere l’equilibrio dei bilanci regionali a fronte dei declinanti trasferimenti centrali. L’intreccio implicito fra regionalizzazione e privatizzazione del sistema evoca quindi il profilo tipico delle ‛nuove politiche pubbliche’ adottate per attuare i programmi di restrizione dei sistemi di welfare già adottati in altri Paesi che sfruttavano il decentramento delle responsabilità delle scelte di riduzione del welfare per distribuire e diluire il biasimo che avrebbe altrimenti colpito il governo centrale.
Ai nuovi contenuti delle politiche sanitarie si associò anche un diverso processo di formulazione delle politiche, elaborate ‘all’impronta‘ dalle leggi finanziarie annuali approvate da una serie di governi tecnici di breve durata in assenza di un modello generale di riferimento e attingendo largamente dalle esperienze regionali in corso. In parte, il nuovo stile si contrapponeva alla programmazione particolareggiata degli anni Settanta cui si era ispirata la l. 833 e rifletteva la concezione dello Stato ‘facilitatore’. Se compito dello Stato era di «guidare, non remare» secondo il fortunato slogan del tempo, norme di dettaglio su organizzazione e funzionamento dei servizi avrebbero contraddetto politiche che esaltavano imprenditorialità, innovazione e decentramento delle responsabilità secondo i principi del New public management (NPM) che, pur senza essere mai nominato, ha connotato anche le politiche pubbliche italiane dei più svariati settori negli anni Novanta. La genericità e la non infrequente contraddittorietà della legislazione era però favorita anche dalla eccezionalità della produzione legislativa in un periodo di grave crisi di funzionalità del Parlamento e di governi tecnici di brevissima durata privi di una stabile maggioranza parlamentare che lasciava alle regioni ampi margini di autonomia nell’elaborazione delle politiche sanitarie.
La ‘rivoluzione continua’ delle relazioni fra Stato, regioni, aziende sanitarie e strutture private iniziata con il decreto correttivo Ciampi-Garavaglia del 1993 e continuata con le leggi finanziarie annuali ha fatto emergere significative differenze nell’organizzazione e nel funzionamento dei servizi sanitari regionali. Da un lato i frequenti cambiamenti della legislazione nazionale offrivano ampie possibilità di scelta alle regioni a seconda della loro capacità amministrativa, dell’orientamento ideologico del governo in carica e della stabilità del loro quadro politico. Dall’altro, le regioni hanno assunto il ruolo più prossimo a quello di ‘laboratori di politiche’ (se non di democrazia) proprio dei sistemi federali nel contesto del sistema di governo ‘multilivello’ che si è andato formando nel corso degli anni Novanta per il crescente peso dell’Europa e per la forte assertività delle regioni sul piano politico e istituzionale. L’esempio più significativo di questo periodo è la legge della Regione Lombardia (l. 31 luglio 1997 n. 31) che affermava la libertà di scelta del cittadino in un sistema sanitario ‘aperto’ in cui strutture pubbliche e strutture private erano poste su un livello di assoluta parità e la funzione ospedaliera era stata scorporata pressoché integralmente dalle ASL, ben oltre le previsioni originarie della riforma Amato-De Lorenzo.
La riforma Bindi del 1999 ha fatto irruzione in un contesto di rimaneggiamento continuo delle relazioni fra Stato e regioni con l’obiettivo dichiarato di sciogliere le ambiguità presenti in una normativa caotica che faveva temere la disintegrazione dell’unitarietà del SSN in 21 servizi sanitari regionali e una sua ‘privatizzazione passiva’. L’obiettivo era quello di ricollegarsi direttamente ai principi della l. 833 mantenendo i nuovi strumenti della regionalizzazione del governo del sistema e dell’aziendalizzazione della sua gestione, ma riconoscendo anche un ruolo significativo ai comuni che erano stati completamente estromessi dalla riforma Amato-De Lorenzo.
Il d. legisl. 19 giugno 1999 n. 229 sanciva la coesistenza fra il carattere nazionale del servizio sanitario e la sua regionalizzazione qualificando il SSN come «complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi sanitari regionali» (art. 1, 1° co.). Il collante sostanziale del ‘nuovo’ SSN era identificato nei Livelli essenziali di assistenza (LEA) definiti a livello nazionale «contestualmente alla determinazione delle risorse finanziarie» e «garantiti in modo uniforme da tutte le Regioni attraverso le Aziende sanitarie locali» (d.p.c.m. 29 nov. 2001). Al governo nazionale veniva attribuita la funzione di armonizzare e di integrare i servizi sanitari regionali (si veda, per es., l’art.19-ter, la cui rubrica porta il titolo ‘Federalismo sanitario, patto di stabilità e interventi a garanzia della coesione e dell’efficienza del Servizio sanitario regionale’) con interventi di supporto e attività di controllo che potevano giungere fino all’esercizio di poteri sostitutivi su atti di governo ritenuti fondamentali, come l’approvazione del Piano sanitario regionale (si veda, per es., l’art. 2).
Alla riforma Bindi deve essere riconosciuto il tentativo di conciliare antiche tensioni presenti nel SSN dalla sua istituzione e il merito di aver introdotto nella legislazione concetti fondamentali come quello dei livelli essenziali e uniformi di assistenza, poi tanto fortunati da essere recepiti dalla successiva riforma costituzionale ed estesi a tutti i settori dell’intervento pubblico. Tuttavia, le prese di posizione contrarie alla nuova riforma furono numerose e veementi, anche al di là delle prevedibili reazioni del personale medico costretto per la prima volta a un rapporto di lavoro esclusivo. Accuse di ‘centralismo’ e di ‘statalismo’ furono rivolte riguardo sia alle relazioni orizzontali fra sanità pubblica e sanità privata (sottolineate anche da ripetute segnalazioni dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato) sia a quelle verticali tra le competenze del governo centrale e le regionali.
L’affermazione di livelli essenziali di assistenza non derogabili e sottratti alla sovradeterminazione finanziaria prevista dalla riforma Amato andava contro «lo scenario non del tutto inconcepibile» negli anni Novanta che l’Italia potesse abbandonare i principi universalistici del SSN che aveva adottato per prima fra i Paesi dell’Europa continentale (G. France, Sanità, le insidie all’universalismo, «Il Mulino» 1997, 1, pp. 170-81). Nuove politiche selettive erano infatti sostenute da una coalizione composita a favore dell’apertura del sistema sanitario a capitali privati, presentata come l’unica possibilità di colmare il divario fra la domanda crescente e la declinante capacità di finanziamento pubblico. Sul piano istituzionale le critiche più dure vennero da Sabino Cassese (già ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi) che bollò la riforma come «imperiale»: «il servizio sanitario che esce dal nuovo decreto legislativo è un servizio sanitario imperiale, ordinato come una piramide, simmetrico, che risponde forse ai bisogni di governo del centro, non necessariamente ai bisogni della collettività» (Cassese 1999, p. 21). Analogamente, Franco Reviglio (già ministro del Bilancio del governo Amato ai tempi dell’approvazione della riforma Amato-De Lorenzo) rimproverò alla riforma «un’impostazione centralistica che riserva allo Stato un eccessivo potere regolamentare, espressione di una fiducia, non certo meritata, nelle sue capacità di programmazione» (Reviglio 1999, p. 129).
L’approvazione nel 2001 della riforma del titolo V Cost. ha consolidato le competenze regionali acquisite nel corso del decennio assumendo ancora una volta la sanità come modello per gli altri settori dell’intervento pubblico. La riforma bilanciava l’estensione della potestà legislativa concorrente delle regioni al campo della tutela della salute rispetto all’angusta competenza sull’«assistenza sanitaria e ospedaliera» dell’originario art. 117 Cost. con il vincolo del rispetto dei principi fondamentali del SSN (3° co.) e con la competenza esclusiva statale sulla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (2° co., lett. m) da garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale. Il nuovo equilibrio ha provocato incertezze nell’attribuzione della potestà sulle materie a legislazione concorrente, soprattutto in ambito sanitario in cui la competenza regionale è passata da una materia-oggetto come ‘l’assistenza sanitaria e ospedaliera’ a una materia-funzione a estensione potenzialmente in(de)finita come ‘a tutela della salute’ (Balduzzi 2002). Queste incertezze sono state inizialmente fonte di aumento del contenzioso davanti alla Corte costituzionale che si è poi ridotto spontaneamente a livelli fisiologici. Sono invece rimaste indefinite le questioni relative al cosiddetto federalismo fiscale di cui all’art. 119 Cost. e alle nuove istituzioni del federalismo quali per es. la Camera delle regioni. L’incompletezza della riforma sul piano fiscale e su quello istituzionale ha reso più problematiche le tensioni determinate dal crescente squilibrio verticale fra finanza statale e bilanci regionali, su cui la sanità grava per oltre il 70%, che hanno costituito i temi dominanti di politica sanitaria.
Al problema del crescente squilibrio fra funzioni trasferite, finanziamento nazionale e capacità regionale di prelievo fiscale sono state opposte due possibili soluzioni, entrambe in contrasto con i principi fondamentali del SSN. La secessione fiscale rivendica la proprietà regionale delle basi imponibili negando o comunque riducendo in modo significativo la solidarietà fra territori con grandi differenze nella capacità fiscale come le regioni italiane. Il finanziamento dell’assistenza sanitaria attraverso sistemi cosiddetti multipilastro prevede invece di affiancare al finanziamento pubblico di un SSN ridimensionato nella copertura delle persone e/o delle prestazioni un «secondo pilastro» mutualistico ed un «terzo pilastro» assicurativo. Secondo i suoi sostenitori il pluralismo delle fonti di finanziamento sarebbe l’unica possibilità per coprire il «delta» fra «la domanda crescente di risorse» espressa dal sistema sanitario «mentre i bilanci pubblici offrono una dimensione decrescente di finanziamenti» riequilibrando per di più la responsabilità individuale con la solidarietà collettiva rispetto ai livelli «minimi» di assistenza (Amato 1999, p. 127).
Oltre ad attrarre nuove risorse finanziarie private per espandere la spesa sanitaria totale riducendo quella pubblica, il pluralismo del finanziamento avrebbe dovuto esercitare numerosi effetti indiretti a diversi livelli, quali favorire l’emergere di forme organizzate della società civile per la gestione comunitaria di fondi territoriali secondo il modello del welfare-mix pubblico e comunitario; promuovere la libertà di scelta del cittadino consumatore non solo rispetto al luogo di cura ma anche riguardo al soggetto cui affidare la tutela della propria copertura assistenziale; migliorare l’efficienza della produzione e la diversificazione dell’offerta attraverso la competizione anche dal lato della domanda di servizi e prestazioni.
La prima enunciazione del possibile intreccio fra le relazioni verticali Stato-regioni e orizzontali fra Stato e mercato è rinvenibile nel Documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF) del secondo governo Berlusconi, che connetteva esplicitamente i progetti di devoluzione con una tutela «multipilastro»: «con la devoluzione, acquistano nuove e vastissime chance di ingresso nella categoria della produzione di servizi alle persone (sanità, istruzione) tanto il mercato quando il cd. ‘terzo settore’: famiglie, volontariato, mutue, fondazioni, ecc.» (DPEF 2002-6, Sintesi e conclusioni, p. 3). Le enunciazioni programmatiche si chiarivano nel DPEF 2003-6 in cui veniva precisato che «è necessario qualificare il sistema delle prestazioni socio-assistenziali anche attraverso l’introduzione, in via sperimentale, di mutue integrative e/o sostitutive» (DPEF 2003-6, La salute, p. 62).
La focalizzazione sul controllo della spesa delle regioni e la peculiare distribuzione regionale dei disavanzi del SSN sono i principali determinanti delle politiche sanitarie del primo decennio del nuovo secolo caratterizzate da due fondamentali elementi distintivi: la natura pattizia dal punto di vista del metodo e il loro progressivo assorbimento nell’ambito delle politiche di bilancio rispetto all’oggetto.
La politica di contenimento della spesa pubblica provocata dal deterioramento delle condizioni della finanza pubblica entro i vincoli della Unione Europea ha interessato anche la sanità, che pure presenta andamenti virtuosi rispetto agli altri Paesi con cui l’Italia ama confrontarsi. Secondo gli ultimi dati OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), l’incidenza percentuale della spesa sanitaria complessiva rispetto al Prodotto interno lordo (PIL) ha raggiunto nel 2010 il 9,3%, inferiore alla media generale dei Paesi OCSE (9,5%) e molto al di sotto non solo degli Stati Uniti (17,6%) ma anche di Paesi leader in Europa come Olanda (12%), Francia e Germania (11,6%). L’andamento della spesa nel decennio 2000-09 ha presentato un tasso medio annuo di crescita in termini reali di appena il 1,9% contro una media del 4,3%, mentre la spesa pubblica è cresciuta a un tasso del 2,8%, molto inferiore alla media generale (4,5%) e quasi metà di quella della Gran Bretagna (5,5%). Il rallentamento della crescita della spesa osservata in questo periodo è tanto più rimarchevole in quanto segue il ‘congelamento’ della spesa pubblica degli anni Novanta, in risposta al ‘mercoledì nero’ della lira prima e alle manovre per l’ingresso in Europa poi. La dinamica della spesa sanitaria pubblica è ulteriormente rallentata allo 0,9% nel 2010 e allo 0,1% (al netto delle nuove regole di contabilizzazione degli ammortamenti) nel 2011, mentre la legge di stabilità prevede addirittura una crescita negativa nel triennio successivo.
Il rallentamento della dinamica della spesa sanitaria pubblica si è associato a un incremento della spesa privata e a una marcata e sistematica riduzione della produzione di disavanzi da parte delle regioni. La crescita del 2,9% della spesa privata nel 2010 rispetto all’anno precedente riproduce il suo andamento classico che segue fedelmente il ciclo della spesa pubblica, espandendosi contestualmente alla sua contrazione. L’andamento speculare delle due componenti è conseguenza della pressoché totale assenza di intermediazione assicurativa della spesa privata, composta per oltre il 40% dalla spesa per ticket e per farmaci esclusi dalla copertura pubblica. Questo spiega anche la distribuzione geografica della spesa privata, pari a circa 1000 euro a famiglia a livello nazionale, ma che tocca i 1265 euro al Nord e i 955 euro al Sud, dove sono più diffuse le esenzioni.
I disavanzi del SSN sono stimati nel 2011 pari a 1,8 miliardi di euro, l’1,5% della spesa, il punto più basso di una sistematica e crescente diminuzione che ha ridotto di quasi un quarto i disavanzi 2010, a loro volta inferiori del 28% a quelli del 2009, che presentavano una riduzione del 6,3% rispetto all’anno precedente. L’associazione fra rallentamento della crescita della spesa pubblica e diminuzione dei disavanzi rappresenta un’importante differenza rispetto agli anni Novanta, in cui i disavanzi costituivano in media il 5% annuo, toccando punte del 15%. La contrazione del disavanzo complessivo si è accompagnata alla sua concentrazione nelle regioni del Centro-Sud che pure presentano, in media, una spesa sanitaria inferiore. Complessivamente, quasi il 90% del disavanzo del SSN è oggi concentrato in quattro regioni (Lazio, Campania, Puglia e Sardegna), che, tranne la Puglia e assieme al Molise, hanno anche i valori pro capite più elevati (Lazio 247 euro; Molise 199; Sardegna 137 e Campania 136).
Le stringenti esigenze di controllo della spesa pubblica e la nuova configurazione della distribuzione dei disavanzi hanno progressivamente fatto emergere una diversa strategia nelle relazioni fra lo Stato e le regioni che distingue le regioni ‘virtuose’ da quelle ‘in difficoltà’ per i forti disavanzi.
Lo strumento ordinario delle nuove politiche è costituito dagli accordi, denominati Patti per la salute che definiscono impegni dello Stato e obiettivi, vincoli, incentivi e sanzioni, finanziarie e politiche, per le regioni. I Patti sono negoziati fra regioni e Stato attraverso il sistema delle Conferenze, vengono tradotti dal governo nazionale in decreti che sono successivamente proposti al Parlamento per la conversione in legge. Le Conferenze Stato-regioni, Stato-autonomie locali e la Conferenza unificata costituiscono quindi la principale istituzione del federalismo e compongono il «sistema delle Conferenze» definito dalla Corte costituzionale «un’istituzione operante nell’ambito della comunità nazionale come strumento per l’attuazione della cooperazione fra gli stessi» (sent. nr. 116 del 1994) al fine di «realizzare la leale collaborazione e per promuovere accordi ed intese», come si esprimeva il disegno di legge per la sua costituzionalizzazione poi decaduto. Gli accordi permettono alle regioni di partecipare indirettamente all’attività legislativa nazionale attraverso gli impegni assunti dal governo centrale che hanno tuttavia una valenza esclusivamente politica in quanto toccano competenze proprie del parlamento. Attraverso gli accordi le regioni assumono a loro volta impegni nei confronti del governo, accettando i vincoli e gli obiettivi come condizione dei trasferimenti finanziari che continuano a essere la forma di finanziamento pressoché esclusiva delle funzioni loro devolute.
La negoziazione fra gli esecutivi di Stato e regioni senza il coinvolgimento delle loro assemblee legislative delinea una sorta di ‘federalismo degli esecutivi’ analogo a quello lamentato in Canada come causa di opacità dei rapporti e di deficit di democrazia, più consono a una federalismo duale che a quello cooperativo e solidale che si afferma di voler costruire in Italia. Inoltre, gli accordi negoziati permettono al governo nazionale di recuperare il potere di controllo parzialmente perso in seguito alla riforma costituzionale sfruttando il ‘potere della borsa’ per condizionare l’autonomia regionale. In questo contesto, il governo ‘nazionale’ del SSN si è progressivamente identificato con il nesso delle relazioni fra lo Stato e le regioni riguardo alle politiche di bilancio da applicare alla spesa sanitaria pubblica, con l’obiettivo di rendere più rigidi i vincoli ai bilanci regionali attraverso la regolazione dell’accesso a quote del fondo sanitario appositamente accantonate e a fondi speciali per il ripiano dei disavanzi.
Le politiche sanitarie tendono quindi a configurarsi come il corollario organizzativo dei patti negoziati fra Stato e regioni aventi per oggetto gli interventi per il rispetto dei tetti di spesa e dei vincoli di capacità produttiva posti come condizione per ricevere i trasferimenti dallo Stato. La conseguente subordinazione delle politiche sanitarie regionali alla loro funzionalità rispetto agli obiettivi di finanza pubblica nazionale fa da contrappeso al passaggio nell’arena regionale delle responsabilità sull’organizzazione dei sistemi regionali in un contesto di crescente squilibrio verticale fra le regioni e lo Stato.
I vincoli posti dal governo centrale ai trasferimenti finanziari e la rigidità delle procedure per la loro verifica hanno progressivamente conferito agli accordi stipulati fin dal 2000 da governi di vario orientamento un carattere di condizionalità, culminata con la sottoscrizione da parte delle regioni dichiarate ‘in difficoltà’ di specifici piani triennali di rientro dai disavanzi. Il modello della condizionalità per la regolazione delle relazioni fra Stato e regioni è emerso per la prima volta nel Patto di stabilità interno del 1998 che trasferiva in sede nazionale gli impegni assunti dall’Italia con l’ingresso nell’euro. La strategia si è andata progressivamente inasprendo con il cosiddetto Patto Giarda del 2000, che prevedeva l’impegno delle regioni a sanare i propri disavanzi attraverso risorse proprie ricorrendo alle addizionali regionali IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) e IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive). L’accordo dell’8 agosto 2001 (il cosiddetto Patto Tremonti) a fronte dell’impegno del governo a uno stanziamento di bilancio che nell’arco di un triennio avrebbe dovuto avvicinare il finanziamento del SSN al 6% del PIL vincolava le regioni a interventi specifici e dettagliati quali tetti di spesa settoriali, come per es. il 13% della spesa sanitaria complessiva per la spesa farmaceutica territoriale; l’esclusione di una lista di farmaci (delisting) dalla copertura del SSN; la riduzione dei posti letto ospedalieri allo standard nazionale di 4 per 1000 abitanti; l’adesione alle convenzioni sottoscritte in sede nazionale per gli acquisti di beni e servizi.
I cosiddetti Piani di rientro costituiscono un radicale cambiamento di strategia nelle relazioni fra Stato e regioni conseguente alla progressiva concentrazione dei disavanzi del SSN in un numero ristretto di regioni, particolarmente del Sud. I Piani di rientro costituiscono lo strumento specifico per il rientro dai disavanzi e seguono un percorso distinto da quello del finanziamento ordinario del SSN negoziato con i Patti per la salute, separando le regioni ‘in difficoltà’ da quelle ‘virtuose’. Infatti, mentre i Patti per la salute stabiliscono regole generali valide per tutte le regioni, i Piani di rientro sono il prodotto di negoziazioni bilaterali fra lo Stato e le singole regioni dichiarate ‘in difficoltà finanziaria’ in quanto i loro disavanzi superano il 7% (poi ridotto al 5%) del finanziamento ordinario e delle entrate proprie.
Con i Piani di rientro, la regione si impegna ad azzerare il disavanzo complessivo accumulato e a raggiungere l’equilibrio di bilancio in un periodo massimo di tre anni attraverso la riduzione dei costi di gestione e l’aumento delle entrate, grazie a trasferimenti vincolati dello Stato e all’inasprimento della pressione fiscale e, eventualmente, alla compartecipazione al costo delle prestazioni utilizzate dai cittadini. Il Piano indica in dettaglio le azioni che la regione si impegna ad attuare, una volta ottenuta la preventiva approvazione da parte del Ministero della Salute e quello dell’Economia e delle Finanze (MEF). Gli interventi includono provvedimenti strutturali (come la rideterminazione delle aziende sanitarie e il riordino del sistema ospedaliero), amministrativi (per es. il blocco delle assunzioni e la riduzione delle tariffe delle prestazioni) e finanziari (come l’innalzamento automatico delle addizionali IRAP e IRPEF regionali anche oltre la misura massima prevista e l’imposizione di nuovi ticket).
L’accesso al finanziamento statale è condizionato ai risultati della verifica dell’attuazione dei provvedimenti affidata a un intenso programma di monitoraggio trimestrale condotto dal MEF e dal Ministero della Salute. Inoltre, in caso di mancato adempimento, è prevista una diffida formale nei confronti del presidente della regione da parte della Presidenza del Consiglio che può portare alla nomina di un commissario con il compito di adottare ‘tutti i provvedimenti necessari’ per l’attuazione del Piano. Dieci regioni italiane sono state assoggettate finora a Piani di rientro, di cui sette nel 2007 (Lazio, Campania, Sicilia, Liguria, Sardegna, Abruzzo, Molise) e tre (Calabria, Piemonte e Puglia) nel 2009-10. Delle sette regioni interessate dal 2007, che hanno quindi concluso il ciclo triennale, la Liguria ha completato positivamente l’iter previsto. La Sardegna ha ricevuto una valutazione negativa dei risultati raggiunti, pur evitando il commissariamento che ha invece colpito Abruzzo, Molise, Campania e Lazio, cui si è recentemente aggiunta la Calabria. Sulla Sicilia le ripetute valutazioni critiche non avevano portato a una diffida formale finchè significativi problemi sulla formulazione del bilancio regionale hanno portato alla dimissione del presidente e alla indizione di nuove elezioni.
La valutazione dell’impatto di uno strumento tanto dissonante rispetto alle relazioni fra Stato e regioni che si sono sviluppate nel corso degli anni Novanta è al momento estremamente complessa e tuttavia necessaria. Presentati inizialmente come eccezionali, i Piani di rientro hanno infatti interessato in appena cinque anni quasi la metà delle regioni italiane e tutte le regioni del Sud, tranne la Basilicata. Riguardo al processo, la valutazione è resa difficile in quanto la disciplina dei Piani si è progressivamente costituita come la stratificazione nel tempo di provvedimenti di diversa natura emanati dal 2005 e adottati spesso per risolvere problemi contingenti. Particolarmente delicati anche sotto il profilo costituzionale si sono rivelati i provvedimenti di commissariamento e l’ampiezza dei poteri del commissario sia rispetto agli organi della regione sia rispetto alla possibilità di derogare da, o addirittura abrogare, leggi regionali giudicate ostative all’attuazione del Piano. Riguardo ai risultati, i pur frammentari dati empirici autorizzano molte perplessità.
Il MEF ha enfatizzato il ruolo di revisione del disegno organizzativo e di promozione dell’efficienza operativa del sistema regionale di produzione, qualificando il Piano di rientro come «un vero e proprio programma di ristrutturazione industriale che incide sui fattori di spesa sfuggiti al controllo della Regione» (F. Massicci, Evoluzione, disciplina e prospettive dei Piani di rientro, «Monitor», 2008, 22, p. 22). Nel tempo, il processo di elaborazione, approvazione preventiva e verifica dei risultati di bilancio si è sempre più connotato in senso finanziario. I Piani rappresentano infatti un complesso e articolato sistema di incentivi e di sanzioni, finanziarie e politiche, i cui risultati sono principalmente valutati in funzione della convergenza fra la spesa regionale risultante dai costi di fornitura dei livelli essenziali di assistenza in condizioni «di appropriatezza e efficienza » (F. Massicci, Evoluzione, cit., p. 20) e l’ammontare del fabbisogno definito dal governo centrale tenendo conto degli obiettivi di finanza pubblica. Sul piano istituzionale, l’assunzione di una corrispondenza fra fabbisogno presunto e spesa effettiva ripropone sotto nuove vesti l’antica questione della dissociazione fra potere di spesa e responsabilità di finanziamento. Sul piano della valutazione dell’efficacia dello strumento, l’accettazione dell’ipotesi della convergenza solleva la questione se il disavanzo osservato derivi dall’inadeguata capacità politica e amministrativa della regione ovvero, al contrario, dalla sua adozione di una strategia opportunistica da vincolo ‘soffice’ di bilancio, in fiduciosa attesa dell’inevitabile salvataggio da parte del governo centrale. Il suo rifiuto, in assenza di una puntuale definizione dei livelli essenziali di assistenza e della precisa determinazione dei costi standard della loro produzione, induce invece a ritenere che l’emergere di disavanzi sia l’effetto della prosecuzione della strategia governativa di sottostima del fabbisogno del SSN già praticata con buoni risultati dalle politiche di bilancio degli anni Ottanta.
Le sanzioni finanziarie e la frequente censura politica previste dai Piani di rientro hanno certamente reso molto più costoso per le imprese, i cittadini e la stessa classe politica il ricorso al deficit per finanziare la sanità regionale, i cui vincoli di bilancio sono oggi certamente più rigidi. Nella maggior parte delle regioni interessate, il tasso di crescita della spesa sanitaria è rallentato e l’ammontare dei disavanzi si è ridotto, in alcuni casi in modo significativo. Non sembra invece che siano state eliminate le cause strutturali della produzione dei disavanzi. I dati disponibili mostrano che il rallentamento del tasso di crescita della spesa sanitaria e la riduzione dei disavanzi sono stati realizzati principalmente attraverso provvedimenti amministrativi (principalmente il blocco delle assunzioni del personale e, in taluni casi, la riduzione delle tariffe delle prestazioni) e finanziari, come l’inasprimento delle addizionali regionali IRAP e IRPEF (un provvedimento automatico con l’avvio del Piano) e l’aumento della compartecipazione al costo delle prestazioni. Sul piano dell’organizzazione, oltre all’accorpamento delle aziende sanitarie, realizzando una disposizione già presente nella riforma del 1992, è stata osservata in tutte le regioni una riduzione nel numero dei ricoveri che è tuttavia avvenuta in assenza di un ridisegno della struttura produttiva e in perdurante carenza di strutture alternative territoriali.
Indipendentemente dai risultati delle analisi empiriche i Piani di rientro hanno comunque esercitato un notevole effetto indiretto di ricentralizzazione sia sulle relazioni fra Stato e regioni che fra queste e i loro territori. Mentre lo Stato è tornato a intervenire direttamente sui processi decisionali riguardo all’organizzazione dei servizi sanitari delle regioni, sul piano infraregionale i Piani di rientro hanno avviato un processo di neocentralismo regionale ‘per necessità’, forzando le resistenze locali attraverso la cogenza del vincolo esterno imposto sulla regione dal governo centrale.
Questo processo è presumibilmente destinato ad accentuarsi per il probabile aumento del numero delle regioni che saranno assoggettate a Piani di rientro perchè entrate in difficoltà sotto l’incalzare della riduzione del finanziamento del SSN prevista nel prossimo triennio. Intanto, la crisi e i recenti episodi di corruzione che hanno portato allo scioglimento anticipato delle assemblee delle due più importanti regioni italiane, la Lombardia e il Lazio, sembrano avere prodotto un declino dell’ipotesi federalista proprio nel momento in cui avrebbe dovuto avere attuazione la sua attesa componente fiscale, modellata ancora una volta sulle esperienze della sanità. Le esigenze di contenimento della spesa pubblica e i vincoli sovranazionali hanno comunque già inciso sulle relazioni intergovernative producendo sul piano giuridico una sorta di dottrina dello stato di eccezione volta a giustificare macroscopiche violazioni della ripartizione delle competenze per realizzare le politiche di austerità che connotano sul piano finanziario le attuali relazioni fra Stato e regioni (Falcon 2012).
Nello spazio di poco più di un ventennio, la Sanità ha attraversato quattro grandi riforme che hanno rimodellato le relazioni fra governo nazionale, governi regionali e autonomie locali e fra questi e le unità operative fondamentali del sistema finchè la riforma costituzionale del 2001 ha conferito alle regioni un’autonomia nell’organizzazione dei propri sistemi sanitari ora insidiata da istanze ricentralizzatrici. Nello stesso periodo, le politiche sanitarie sono passate dalla programmazione centralizzata alle politiche di bilancio degli anni Ottanta per approdare dopo il breve periodo della concorrenza alla faticosa ricerca di una concertazione a contenuti sempre più finanziari e con intenti condizionali. I cambiamenti delle politiche sanitarie e delle relazioni istituzionali con lo Stato e con le autonomie locali hanno prodotto un’ulteriore disorganizzazione permanente del SSN, cui le regioni hanno risposto in ragione dell’eterogeneità delle condizioni strutturali ereditate dalla storia, della loro capacità di governo e della stabilità della loro direzione politica.
Non tutti i modelli organizzativi rintracciabili nelle diverse regioni sono quindi imputabili a scelte strategiche operate consapevolmente e più o meno efficacemente messe in pratica. In alcuni è più facilmente riconoscibile l’esito inerziale di un’elevata instabilità politica e di una ridotta capacità amministrativa sotto l’incalzare di sempre più vincolanti indirizzi nazionali. Tutti risentono in diversa misura di scelte operate in modo incrementale e in condizioni di incertezza riguardo alla stabilità dei trasferimenti nazionali e, non raramente, delle mode del momento. Non è quindi agevole individuare una tipologia dei modelli di organizzazione dei sistemi sanitari regionali né, a maggior ragione, è possibile misurare il loro grado di coerenza rispetto a quello di un SSN dai contorni sempre più incerti. Convenzionalmente, tuttavia, può essere utile fare riferimento alla tipologia originariamente proposta da George France (1997) principalmente focalizzata sulle relazioni fra aziende territoriali e aziende ospedaliere.
Nel modello ‛terzo pagante’ le ASL remunerano ex post i produttori in ragione delle prestazioni rese per effetto delle scelte individualmente operate dai pazienti, secondo lo schema più tradizionale e sostanzialmente passivo prevalente soprattutto nelle regioni del Sud negli anni Novanta. Il modello della ASL-sponsor presuppone invece una separazione pressoché completa della funzione di remunerazione da quella di produzione e prevede per le ASL il compito di definire accordi o stipulare contratti con alcuni dei produttori presenti nel proprio ambito di riferimento, selezionati in base a valutazioni comparative dei costi e della qualità delle prestazioni offerte. La Lombardia è la regione che si è maggiormente avvicinata a questo modello, affidando alle sue ASL le funzioni di Programmazione, acquisto e controllo (PAC). Il modello della ASL-programmatore conserva l’unitarietà delle funzioni di programmazione e di produzione ed è caratterizzato dall’elaborazione di piani preventivi di attività fra produttori e finanziatori che integrano la capacità di produzione diretta della ASL, delle aziende ospedaliere e del settore privato e sono valorizzati globalmente in base alle tariffe regionali. La Regione Emilia-Romagna ha sviluppato qualcosa di simile con la cosiddetta programmazione negoziata del Piano regionale 1999-2001 in cui gli accordi pattuiti non hanno la funzione tipica dei contratti di allocare il rischio finanziario fra i contraenti quanto piuttosto di definire gli ambiti di responsabilità reciproca e l’allineamento preventivo dei comportamenti in funzione di obiettivi condivisi.
La modellistica regionale si è progressivamente arricchita di una modulazione più sofisticata che oltre all’assetto strutturale e alle relazioni funzionali fra le aziende sanitarie considera anche le loro relazioni istituzionali e finanziarie con la regione che non ha, tuttavia, sostanzialmente il profilo generale della tipologia originaria di France ma ha piuttosto focalizzato l’attenzione sul ruolo cruciale del sistema di remunerazione prospettica dell’assistenza ospedaliera basata sui DRG (Diagnosis Related Groups) o Raggruppamenti omogenei di diagnosi (ROD) in italiano.
A differenza degli Stati Uniti e in dissonanza con la stessa normativa nazionale, il sistema dei DRG è stato utilizzato dalle regioni principalmente per valorizzare gli accordi negoziati riguardo a volumi e tipologie di prestazioni, distribuendo fra gli ospedali pubblici e privati accreditati l’ammontare delle risorse complessivamente destinate al settore dell’assistenza ospedaliera (Politiche innovative del Ssn: i primi dieci anni del Drg in Italia, 2004). La modulazione delle tariffe associate a diverse tipologie di ricoveri secondo le priorità di sviluppo (o di abbandono) dei vari settori di attività ospedaliera ha inoltre prodotto gli incentivi positivi e negativi a supporto delle politiche di programmazione regionale e aziendale riguardo all’appropriatezza clinica e organizzativa delle diverse tipologie di ricoveri (Fiorentini, Ugolini 2000). Una tecnologia amministrativa originariamente adottata per favorire la competizione fra produttori e la libera scelta dei pazienti è stata quindi trasformata dalle politiche regionali in uno strumento di controllo della spesa ospedaliera e di ripartizione ‘equa’ delle risorse disponibili fra gli ospedali esistenti in ragione della complessità dei pazienti ricoverati.
Indipendentemente dai principi cui dichiaravano di ispirarsi, tutti i sistemi sanitari regionali hanno adottato strumenti tipicamente anticompetitivi per controllare la spesa ospedaliera. I più diffusi sono meccanismi di regressione tariffaria che comportano l’automatico adeguamento verso il basso delle tariffe in caso di superamento del tetto di spesa predefinito a livello complessivo di settore o per singola struttura. A questi strumenti di breve periodo, alcune regioni hanno affiancato strategie più complesse di governo della struttura del sistema di produzione come il controllo dell’ingresso di nuovi soggetti attraverso l’accreditamento istituzionale. L’equilibrio che si è instaurato fra regolazione tariffaria e criteri di accreditamento è il principale motivo dell’apparente paradosso per cui tetti di spesa e obiettivi di produzione, tipiche forme di governo ‘comando e controllo’, sono particolarmente incisivi e sofisticati nelle regioni che hanno maggiormente favorito il pluralismo dei produttori attraverso l’apertura del processo di accreditamento, come per es. la Lombardia o in cui l’ampiezza del settore privato convenzionato è strutturalmente elevata, come per es. nel Lazio.
È stato ricordato come alcune rappresentazioni del nuovo modello di SSN delineato a livello nazionale dalle incerte norme della riforma Amato-De Lorenzo abbiano sottolineato le analogie con lo scorporo fra acquirenti e produttori di servizi sanitari realizzato dall’NHS (National Health Service) inglese con lo scopo di creare un mercato interno dei servizi sanitari per incentivare la competizione fra le strutture di produzione. In realtà, la stagione della concorrenza in sanità non è mai stata codificata in Italia in alcuna norma, né seriamente perseguita da nessuna regione. Sul piano normativo, lo scorporo dalle ASL dei presidi ospedalieri da costituire in aziende ospedaliere autonome avrebbe dovuto essere limitato ai soli ospedali «di alta specialità e di interesse nazionale», circa 70 ospedali, secondo le stime pre-riforma che si dimostrarono molto vicine alle 82 aziende ospedaliere di prima costituzione (d. legisl. 30 dic. 1992 nr. 502). In secondo luogo, il decreto non faceva riferimento a relazioni contrattuali fra acquirenti e produttori, ma poneva piuttosto l’enfasi su un nuovo sistema di remunerazione degli ospedali fondato sulla «corresponsione di un corrispettivo predeterminato a fronte della prestazione resa», come si esprimeva l’art. 8.
Quanto alle attuazioni regionali, nessuno dei due elementi fondamentali che avrebbero favorito la competizione, un ampio scorporo degli ospedali e l’autonomia pressoché totale di spesa alle aziende sanitarie, è stato mai seriamente perseguito, salvo forse dalla Regione Lombardia per un breve periodo. Nel 1995, l’anno usualmente preso a riferimento per l’avvio del nuovo assetto aziendale, il SSN ha visto una drastica riduzione nel numero delle USL, passate da 659 a 228 aziende che gestivano direttamente in media tre presidi ospedalieri. Dalle ASL sono stati scorporati 175 stabilimenti ospedalieri costituiti in 82 aziende ospedaliere autonome che rappresentavano appena il 17% degli ospedali e il 39% dei posti letto pubblici ed erano principalmente concentrate in Lombardia e in Sicilia. Considerando le altre strutture del SSN con autonomia giuridica come, per es., gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS), gli ospedali cosiddetti classificati e le strutture private accreditate, un eventuale mercato interno dell’assistenza ospedaliera avrebbe quindi potuto potenzialmente disporre di meno della metà dei posti letto complessivi. Inoltre, la maggior parte di queste strutture è costituita da presidi di alta specialità spesso sede di attività di insegnamento. Queste strutture sono le meno indicate a favorire lo sviluppo di processi di competizione fra fornitori in quanto i servizi ad alta specializzazione sono raramente collocati in ambiti territoriali sufficientemente prossimi per competere e sono gravate da alti costi non recuperabili in personale e tecnologie che scoraggiano l’ingresso di nuovi soggetti, rendendo poco contendibile il mercato di queste funzioni.
Successivamente il numero delle aziende ospedaliere è rimasto sostanzialmente stabile, malgrado la competenza sulla loro costituzione sia stata integralmente trasferita alle regioni nel 2001. Il lieve aumento per il completamento dello scorporo in Lombardia è stato più che compensato dalla riduzione indotta dai Piani di rientro che hanno dimezzato il numero di aziende ospedaliere in Sicilia e ridotto a un terzo quelle della Puglia.
Un elevato grado di autonomia delle aziende USL e delle aziende ospedaliere rispetto alla regolazione regionale è la seconda condizione elementare per lo sviluppo di un mercato competitivo delle prestazioni ospedaliere raramente realizzata. Alcune regioni, come per es. la Liguria, finanziano direttamente le aziende ospedaliere trasferendo alle ASL appena il 65% del Fondo sanitario regionale, mentre altre, come per es. il Veneto, pur assegnando nominalmente gran parte delle risorse finanziarie alle ASL, vincolano una quota prestabilita alle aziende ospedaliere che risultano quindi di fatto finanziate dalla regione (Fioravanti, Spandonaro 2004). La Regione Lombardia, pur essendo stata la più radicale nello scorporo degli ospedali e nel concentrare nelle nuove aziende ospedaliere l’attività specialistica, ha progressivamente rafforzato il controllo della regione sull’attività ospedaliera, trasformando il tetto di spesa ospedaliera da regionale a specifico per struttura, per passare poi ad accordi contrattuali fra ASL e aziende ospedaliere basati su uno schema regionale che lascia alle ASL soltanto funzioni di controllo e di monitoraggio dell’andamento delle condizioni pattuite per conto della regione.
Un ulteriore modello di relazione fra regione, aziende USL e aziende ospedaliere è offerto dalla Regione Emilia-Romagna che dalla seconda metà degli anni Novanta trasferisce oltre il 90% del Fondo sanitario regionale alle ASL, senza imporre vincoli di destinazione e lasciando loro autonomia sufficiente per negoziare accordi contrattuali con l’azienda ospedaliera di riferimento e con le case di cura private accreditate, entro i vincoli degli accordi regionali triennali stabiliti con le loro organizzazioni rappresentative. Gli accordi stipulati fra ASL e aziende ospedaliere sono tuttavia accordi relazionali di lungo periodo attraverso i quali le aziende ospedaliere, anziché competere fra di loro e con gli ospedali privati per i contratti concorrono alla programmazione dei servizi per la popolazione di riferimento delle ASL, che mantengono una leadership strategica (Fiorentini, Ugolini 2000).
L’imposizione di vincoli di destinazione ai trasferimenti regionali, la definizione di tetti di spesa per settore e/o per singola struttura, l’uso dell’accreditamento per la programmazione dei fabbisogni, il controllo esercitato dalla regione sull’esercizio delle funzioni di committenza delle aziende USL hanno comportato il superamento di fatto del modello di competizione amministrata cui le ambiguità del d. legisl. 502 avevano forse alluso e che solo il Piano sanitario nazionale 1994-96 aveva posto come un obiettivo scarsamente considerato dalle regioni. Piuttosto che come l’effetto di una tardiva ‘rivincita del piano sul mercato’, come venne al tempo sostenuto, i diversi modelli regionali appaiono quindi come varianti marginali di un assetto che con qualche oscillazione si è mantenuto relativamente omogeneo (Balduzzi 2008), a dispetto delle esagerazioni retoriche richieste dalla competizione identitaria fra regioni e con lo Stato che per un certo periodo ha fatto temere la frammentazione del SSN in 21 servizi sanitari diversi.
Riconoscere il peso dei fattori esogeni nei modelli organizzativi presenti in molte regioni non significa negare l’esistenza di peculiarità volontariamente perseguite da alcune. La regione Marche si è distinta a livello nazionale per l’originalità della scelta di costituire una unica ASL regionale. La Regione Toscana ha per prima istituito le Aree vaste come un livello autonomo di governo sovra-aziendale di alcune funzioni del sistema in ambito amministrativo e gestionale. Un’analoga funzione sovra-aziendale è stata esercitata dai Quadranti piemontesi istituiti però in ambito assistenziale, soprattutto oncologico, secondo un disegno programmatorio non diverso dalla configurazione (denominata hub and spoke) di alcune funzioni di assistenza ai traumi e alle patologie cardiovascolari dal Piano sanitario della Regione Emilia-Romagna. Ancora la Regione Toscana ha avviato nel 2002 la sperimentazione delle cosiddette Società della salute, riprendendo l’antico strumento consortile per favorire l’integrazione fra le funzioni sociali dei comuni e quelle sanitarie delle ASL, aprendo anche a organizzazioni non-profit di volontariato. La Regione Emilia-Romagna ha ricercato analoghe forme di collaborazione fra aziende sanitarie e autonomie locali nella programmazione locale dei servizi sanitari e sociali con interventi legislativi e programmatori.
Esempi specifici riguardano i piani per la salute, condotti congiuntamente da aziende sanitarie, enti locali e organizzazioni della società civile; il potenziamento dell’autonomia del livello distrettuale e del ruolo della Conferenza territoriale sociale e sanitaria nella nomina e nella conferma dei direttori generali; l’istituzione del Fondo regionale per la non autosufficienza, in cui confluiscono risorse del bilancio aziendale e comunale. Non mancano, infine, esempi di trapianto di innovazioni regionali nella legislazione nazionale, come la recente costituzione del Collegio di direzione in organo delle aziende sanitarie per favorire la partecipazione delle professioni al governo aziendale. Nel contesto di numerosi, piccoli cambiamenti al margine di modelli regionali in continua evoluzione nessuno dei sistemi regionali emergenti può però definirsi una eccezione tanto significativa da prefigurare un’anomalia del sistema. La risposta complessivamente resa dalle regioni all’espansione delle loro competenze nell’organizzazione dei servizi sanitari propende più in un comune impegno a «consolidare il pieno inserimento dei sistemi sanitari regionali all’interno del Servizio sanitario nazionale» che non in una «corsa a nuovi modelli legislativi» (Balduzzi 2005, p. 720).
Le differenze fra le regioni italiane nelle dimensioni, nella demografia, nella epidemiologia, nello sviluppo economico e sociale, nella cultura civica e nella loro capacità amministrativa mostrano le ragioni per chiedere e le difficoltà di realizzare un ‘federalismo sanitario’ che concili la domanda di politiche locali con i principi fondamentali del SSN di copertura universale, uniformità di accesso e solidarietà nel finanziamento fra territori a diversa capacità fiscale. I problemi non derivano solo dalla eterogeneità delle regioni italiane, che pure è importante sul piano politico, organizzativo e gestionale, ma sono anche di ordine normativo e positivo e intrecciano fattori endogeni ed esogeni al bene ‘assistenza sanitaria’.
Sul piano dei principi, assetti federali e politiche sociali universalistiche ed egalitarie sono termini polari che oppongono uguaglianza a differenze in quanto «la cittadinanza sociale assicura trattamenti uguali a tutti i cittadini» mentre «la promessa del federalismo è nella differenza delle politiche pubbliche, che riflette le diversità di preferenze e culture locali» (Banting 2006, p. 44). La tensione intrinseca a questa polarità costituisce uno dei problemi irrisolti del SSN e rende paradossale che la sanità si sia storicamente affermata come il principale terreno di sperimentazione dell’autonomia regionale.
Un secondo ordine di problemi deriva invece dalla natura particolare del bene ‘assistenza sanitaria’ e dalle diverse ‘tecnologie di aggregazione’ dei contributi delle sue unità fondamentali nei vari settori specifici (Sandler 2004). Per alcune funzioni l’utilizzabilità effettiva dell’offerta complessiva del SSN corrisponde semplicemente alla somma dei contributi di ciascuno dei sottosistemi regionali che lo compongono. Nel caso dei ricoveri ospedalieri per le specialità di base, per es., il contributo di ciascun sistema sanitario regionale può essere considerato, a talune condizioni, del tutto intercambiabile in quanto l’assistenza di un cittadino italiano può essere soddisfatta da qualsiasi regione di ricovero, fatta salva la compensazione a posteriori dei costi da parte della regione di residenza. In altri casi, invece, il contributo minimo apportato da una singola regione determina il livello complessivo del bene effettivamente disponibile a tutti.
L’efficacia di un sistema informativo per la notifica delle malattie infettive, per es., è tendenzialmente pari al più basso livello di qualità, completezza e tempestività garantito dalla regione peggiore. In questo caso, l’imposizione di uno standard esterno sulla completezza e sulla qualità della notifica per mantenere anche il contributo più scadente al di sopra del livello giudicato accettabile rappresenta lo strumento più efficiente per aumentare il valore del bene pubblico complessivamente offerto da tutti i partecipanti. L’efficacia complessiva del SSN in altri settori può invece essere valutata come l’effetto della somma ponderata del contributo di ciascuna singola regione, ove il coefficiente di ponderazione è funzione della capacità relativa di ciascuna. È il caso, per es., del contributo delle singole regioni all’acquisizione di organi nell’ambito del Programma nazionale trapianti, o delle donazioni di sangue del Piano nazionale sangue, o ancora della prevenzione della diffusione dell’infezione da HIV (Human Immunodeficiency Virus), o della resistenza agli antibiotici.
Le difficoltà di conciliare ordinamenti ‘federali’ dello Stato e dei SSN sono quindi esogene ma anche endogene alla Sanità. I compiti delle istituzioni che governano l’assistenza sanitaria non si limitano a dover soddisfare sia le preferenze delle comunità locali sia i valori universalistici ed equitativi dei modelli classici di cittadinanza sociale. Esse devono contemporaneamente fare fronte alle interdipendenze delle tecnologie di aggregazione dei diversi settori dei sistemi sanitari che esorbitano dalle tradizionali economie di scala e di scopo e richiedono istituzioni diverse, dall’autocoordinamento regionale all’imposizione di rigidi standard nazionali, diversamente compatibili con un assetto federale.
La l. 833 istitutiva del SSN traduceva in diverse forme di equità le istanze di universalizzazione dei diritti e di esigibilità uniforme delle prestazioni, stabilendo, in accordo con i principi fondamentali della legge stessa, il superamento degli squilibri territoriali nelle condizioni socio-sanitarie del Paese (art. 2); l’uniformità dei livelli delle prestazioni sanitarie che devono essere, comunque, garantite a tutti i cittadini (art. 3); le condizioni e garanzie di salute da assicurare in modo uniforme nell’intero territorio nazionale (art. 4); la definizione di indici e standard di finanziamento per la spesa corrente e in conto capitale «per eliminare le differenze strutturali e di prestazioni fra le Regioni» (art. 51). A oltre trent’anni di distanza, i divari fra condizioni di salute, processi assistenziali e offerta di servizi nelle diverse regioni sono ancora marcati, riproducendo in alcuni casi esempi di «inverse care law», in cui «l’offerta di assistenza di buona qualità tende a variare inversamente al suo fabbisogno nella popolazione destinataria» (J. Tudor Hart, The inverse care law, «The Lancet», 1971, 7696, pp. 405-12). Non mancano tuttavia transitorie convergenze come quella relativa alle condizioni di salute osservate nelle diverse regioni italiane durante gli anni del miracolo economico. In realtà tale convergenza si verificò perché il Mezzogiorno, dove era più alta l’incidenza delle malattie infettive, potè beneficiare maggiormente sia del miglioramento delle condizioni generali di vita sia della diffusione delle terapie antibiotiche (i prodotti della grande rivoluzione terapeutica del dopoguerra) con risultati più tangibili e immediati. Il riemergere, nei decenni a cavallo del 20° e 21° sec., di un significativo divario Nord-Sud nelle condizioni economiche, di istruzione e di reddito (Malanima, Zamagni 2010) ha invece comportato un più profondo dislivello nei processi assistenziali e nelle condizioni di salute. Il rinnovato peso della qualità dell’assistenza e del contesto sociale nel mutato quadro epidemiologico dominato in tutto il Paese dalle malattie cronico-degenerative è evidente sia nel confronto fra indicatori sintetici di rendimento istituzionale delle regioni sia in analisi specifiche.
L’ordinamento dei 21 sistemi sanitari regionali secondo un indicatore sintetico che combina spesa, offerta e consumi di servizi, processi di cura e livelli di salute evidenzia una netta superiorità degli indici di rendimento istituzionale delle regioni del Centro-Nord rispetto alle regioni del Sud associato a una deludente immobilità nella posizione relativa delle varie regioni fra il 1996 e il 2009 (Pavolini 2012), segno della tenace persistenza dei divari interregionali.
Dal punto di vista finanziario si è realizzata una relativa convergenza nella spesa sanitaria regionale pro capite delle regioni, anche se le regioni del Sud continuano a presentare una spesa sistematicamente inferiore e a produrre gran parte del disavanzo complessivo del SSN. Delle dieci regioni dichiarate in difficoltà finanziaria per l’entità dei loro disavanzi ben otto sono al Sud, e in quattro di queste si concentra il 90% dell’attuale disavanzo complessivo del SSN. Dal lato del finanziamento, l’adozione della quota capitaria ponderata con l’età della popolazione come principale criterio di ponderazione ha prodotto continue tensioni in sede di riparto del Fondo sanitario nazionale fra le regioni del Nord e quelle del Sud, svantaggiate dalla minor proporzione di popolazione anziana.
Continuano a rimanere molto ampie le differenze nella composizione della spesa complessiva delle regioni, riflesso della diversità nella struttura produttiva. Le regioni del Nord hanno per molti anni presentato una più elevata proporzione di spesa ospedaliera, espressione delle carenze di offerta e di utilizzo delle regioni del Sud. In anni più recenti, la proporzione si è invertita in quanto i cambiamenti demografici ed epidemiologici, l’innovazione organizzativa e il mutamento del quadro finanziario hanno provocato una brusca accelerazione della transizione organizzativa dei sistemi sanitari delle regioni verso l’assistenza territoriale, con il risultato di una maggiore capacità di governo della loro struttura, che ha nettamente distanziato le regioni del Nord nel percorso di ‘modernizzazione’ del sistema.
Resta sempre sostenuta e con la tradizionale direzione da sud a nord la mobilità sanitaria interregionale, che non riguarda soltanto le strutture di eccellenza. Nel 2009 il costo complessivo della mobilità ospedaliera totalizzava oltre 3500 milioni di euro (pari a circa il 3% della spesa sanitaria pubblica), ma incideva in modo significativamente diverso sui bilanci regionali, con un saldo negativo del 6,6% per la Campania e uno positivo del 4,7% per l’Emilia-Romagna. I tassi di ricovero in età pediatrica sono molto simili se esaminati per regione di residenza dei ricoverati. Tuttavia, più del 20% dei bambini con meno di 14 anni residenti in Basilicata e Molise e oltre il 16% di quelli residenti in Calabria e Abruzzo sono ricoverati in ospedali del Nord.
I divari interregionali fra Nord e Sud del Paese trovano espressione diretta nella qualità tecnica e nella qualità percepita dei processi di assistenza e dei loro esiti («E &P epidemiologia & prevenzione», 2011, nr. monografico: Salute e sanità a 150 anni dall’Unità d’Italia: più vicini o più lontani?). Al Sud, solo il 41% degli intervistati si dichiara soddisfatto dell’assistenza sanitaria ricevuta nella propria regione, contro il 71% del Nord. I dati oggettivi confermano queste percezioni soggettive sia per i servizi territoriali di prevenzione sia per l’assistenza ospedaliera. Si rivolgono allo screening per il cancro della mammella l’80% delle donne di oltre 50 anni residenti nelle regioni del Nord contro il 48% delle donne del Sud, dove sono più numerose quelle che lo effettuano privatamente, al di fuori di programmi organizzati, che coprono il 63% delle donne del Nord e solo il 29% di quelle del Sud.
La frequenza di utilizzazione dell’ospedale è oggi più elevata nelle regioni del Sud, senza che questo si traduca in significativi vantaggi in termini di qualità dell’assistenza ma presentando al contrario segni di inappropriatezza clinica e organizzativa e di carenza di strutture alternative. Il tasso standardizzato di ricoveri in ospedali per patologie acute tocca il 231,8 per 1000 abitanti in Campania contro il 148,5 per 1000 in Friuli Venezia Giulia. Nelle stesse regioni la frequenza di parti con taglio cesareo è rispettivamente del 61,9% e del 23,6%. Il confronto dei dati dei Registri tumori (anch’essi più numerosi al Nord che al Sud) documenta la minore frequenza di sopravvivenza a cinque anni per tutte le principali neoplasie delle diverse età. In un contesto generale di grande variabilità geografica, il Programma nazionale dimostra la spiccata concentrazione negli ospedali del Sud degli esiti più sfavorevoli di interventi frequenti e rilevanti per la qualità della vita. Le persone con più di 65 anni operate per una frattura del collo del femore entro 48 ore dal ricovero sono appena il 29% del totale a livello nazionale, con un range che va dallo 0 all’89% in un numero molto ridotto di ospedali, tutti concentrati nelle regioni del Nord. Differenze analoghe si osservano anche nell’assistenza territoriale agli anziani: la frequenza di persone con più di 65 anni che trovano sistemazione in residenze territoriali o sono assistiti a domicilio è dell’8% al Nord e di appena il 3,4% al Sud.
La situazione di crisi finanziaria generale aggravata dalla perdurante difficoltà di raggiungere un accettabile equilibrio di bilancio nella maggior parte delle regioni del Sud, soggette quasi tutte a difficoltosi piani di rientro, è presumibilmente destinata a rendere più acuta la carenza di risorse strutturali per investire nello sviluppo di servizi e strutture alternative territoriali e nella modernizzazione dell’assistenza sanitaria.
Carenze strutturali, concentrazione dei disavanzi e mobilità sanitaria compongono un’immagine significativa della trappola in cui sembrano costrette le regioni del Sud di cui non potrà non tenere conto la auspicabile conclusione del lungo e tormentato processo di regionalizzazione dell’assistenza sanitaria.
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