CIPRIANO, san
Caecilius Cyprianus, qui est Thascius (dunque un soprannome: anche Cyprianus fu trasformato, per derisione, volgarmente in Coprianus), di ricca famiglia cartaginese, retore di professione, si convertì al cristianesimo in età di circa quarant'anni, per opera del presbitero Ceciliano, suo coetaneo, fra il 245 e il 247. Nell'Ad Donatum ne appaiono chiari i motivi: sazietà del mondo, delle sue gioie come dei suoi dolori, ricerca d'un rifugio, di una moralità più alta. Fatto prete poco dopo, tra il 247 e il 248, veniva assunto all'episcopato nel 249 con qualche contrasto. Sulle orme di Tertulliano, da lui ormai scelto a maestro, ripudiando almeno nelle intenzioni la letteratura pagana, scriveva il De habitu virginum; e poco dopo (se non prima dell'episcopato) i Testimonia ad Quirinum, l'opera sua più celebre.
Secondo l'uso dei giuristi, C. espone le sue tesi nei singoli tituli seguiti da una serie di citazioni scritturali (capitula). Di qui la grande importanza dell'opera per la storia del testo latino della Bibbia in Africa. I primi due libri, preceduti da un'epistola dedicatoria, intendono dimostrare rispettivamente come gli Ebrei siano stati abbandonati da Dio, e come nel Cristo si siano avverate le profezie. Il terzo libro, che contiene invece una serie di precetti morali, ha un suo proemio, che tace dei due precedenti. Perciò fu ritenuto non autentico; ma la sua redazione potrebbe aver preceduto quella dei primi due.
Scoppiava intanto (250) la persecuzione di Decio: i sacrifici e gli altri atti del culto pagano diventavano obbligatorî per tutti i sudditi dell'Impero. Molti cristiani cedettero (lapsi: distinti in libellatici se si erano limitati ad ottenere un libellus o certificato dalle autorità; thurificati, se avevano soltanto bruciato l'incenso sulle are; e sacrificati, quelli giunti a compiere il sacrificio vero e proprio). Gli stessi vescovi non seppero ovunque affrontare la tempesta; e anche C., sollecito di conservare per quanto era possibile alla sua chiesa un governo regolare, si allontanò da Cartagine, mantenendo le relazioni con i fedeli rimasti in città. Non gli furono perciò risparmiate le critiche, in Cartagine e fuori. La chiesa dl Roma gli annunciava il martirio del papa Fabiano (Epp. 8, 9 e cfr. 9, 2). Nell'aprile, dopo che C. aveva creduto di poter ritornare, la persecuzione infierì più forte. Ai confessori che si trovavano in carcere si rivolgevano i lapsi per essere riammessi nella comunità. Alcuni confessori si limitarono ad intercedere presso il vescovo; altri giunsero fino a rilasciare libelli di riammissione; certi presbiteri concedevano senz'altro la comunione ai pentiti. Ansioso di ristabilire la disciplina e custode gelosissimo dell'autorità vescovile, C., che aveva confidato l'amministrazione a una specie di consiglio composto dei vescovi Caldonio ed Ercolano e dei presbiteri Rogaziano e Numidico (quest'ultimo ordinato dopo le sofferenze patite), adottò una linea di condotta intransigente, appena mitigata in circostanze eccezionali. Martiri e popolo furono esortati a rispettare la disciplina; i lapsi avrebbero dovuto attendere le decisioni che i vescovi, non appena ristabilita la calma, avrebbero preso di comune accordo; frattanto a quelli che avevano ricevuto un libello dai martiri si concedeva in punto di morte l'imposizione delle mani per la penitenza, amministrata da un prete o da un diacono (Epp. 15-19). Di ciò C. informava la chiesa romana ehe, per mezzo di Novaziano, rispondeva doversi attendere, per regolare la grave questione, il ritorno della pace; con un'altra lettera, i confessori di Roma lodavano C. (Epp. 20, 27, 30, 31). Ma non disarmavano i suoi avversarî cartaginesi: mentre a Roma Novaziano iniziava il suo scisma, un altro ne era provocato a Cartagine dal prete Novato e da Felicissimo, e si fondeva col primo. C., che aveva avuto occasione di riaffermare, in cospetto dei lapsi, la sua concezione dell'episcopato (Ep. 33), ritornava a Cartagine poco dopo la Pasqua del 251. Compose allora il De lapsis, le cui proposte furono accettate dal sinodo, riunito quasi subito: concedendo il perdono ai libellatici, imponendo una dura penitenza agli altri.
Nello stesso tempo egli scrisse il De catholicae Ecclesiae unitate fonte d'infinite discussioni, da parte di chi volle trovare in C. esplicita sia la conferma sia la negazione del primato romano. E ciò anche per le condizioni del testo, di cui abbiamo due redazioni, la seconda delle quali cita Giovanni, XXI, 16-18, menziona la cattedra di Pietro e ne afferma il primato. Essa è accolta come autentica da J. Chapman (in Revue bénédictine, 1903 e 1912), A. v. Harnack, E. Caspar; respinta come interpolazione tardiva da W. Hartel e H. Koch (v. bibl.). Si discute inoltre l'esatto valore della frase, che ricorre in ambedue le versioni, super unum aedificat ecclesiam. In realtà sulla formazione dell'ecclesiologia di C. influirono sensibilmente le circostanze; e, mentre egli formulò nettamente il pensiero che fuori della chiesa non v'è salvezza, gli mancò - e tenderebbero a dimostrarlo alcune sue immagini, di carattere indubbiamente più mistico che giuridico - una concezione adeguata dell'unità di governo nella chiesa (cfr. anche Ep., 71,3).
Nel frattempo, C. sosteneva papa Cornelio contro Novaziano (Epp. 44-55, 59, 60), e riusciva a ottenere che la chiesa di Roma si mantenesse in comunione con lui. Faceva decidere in un concilio (252) il perdono a tutti i lapsi che avessero fatto penitenza, organizzava i soccorsi in occasione della pestilenza ch'era scoppiata; raccoglieva 100.000 sesterzî per aiutare i cristiani della Numidia depredati da un'incursione di tribù nomadi (Epp. 57, 62); scriveva i trattatelli De oratione dominica (commento al Pater noster), De mortalitate, De opere et eleemosynis, Ad Demetrianum, in risposta al retore che vedeva nei cristiani la causa di tutti i mali che affliggevano l'Impero e l'importante Ep. 63 a Cecilio contro l'uso di offrire l'acqua, invece del vino, nell'Eucaristia.
Ma a papa Cornelio e a Lucio succedeva, il 12 maggio 254, Stefano. Da lui era stato reintegrato uno dei due vescovi spagnoli libellatici, Basilide e Marziale, che avevano voluto riprendere le loro funzioni. Un concilio convocato da C. accoglieva invece il ricorso delle chiese di Legio e Asturica (Leon e Astorga) e di Emerita (Mérida); poco dopo, C. stesso premeva su Stefano perché fosse rinnovata la condanna, pronunciata già da Faustino vescovo di Lione, contro il novazianista vescovo di Arles, Marciano (Epp. 67 e 68). E continuando nella sua opera di difensore dell'unità della chiesa contro gli eretici, C. scriveva (Ep. 69) che anche il battesimo impartito dal Novaziano e dai suoi seguaci si doveva considerare nullo, e per conseguenza coloro che dallo scisma o dall'eresia avessero voluto far ritorno alla chiesa dovevano essere battezzati nuovamente. Tale era infatti la prassi della chiesa africana e di quelle dell'Asia; ma Roma si accontentava della penitenza e dell'imposizione delle mani. Due concilî, del 255 e del 256, appoggiarono C., il quale ammetteva un'attenuazione a tale severità solo nel caso di coloro che dopo aver ricevuto il battesimo cattolico fossero passati all'eresia (e poi se ne pentissero) (Epp. 70-72).
La chiesa di Roma protestò, considerando questa come un'innovazione disciplinare. C. immaginando la possibilità di un urto, aveva insistito sull'autorità di ciascun vescovo (quando habeat in ecclesiae administratione voluntatis suae arbitrium unusquisque praepositus: Ep. 72,3 a papa Stefano; cfr. 71,3 e 73,26). Anche Roma, nel fervore della polemica, non misurò le parole; a sua volta C. rispose o fece rispondere con fermezza. Egli componeva intanto il De bono patientiae e sottometteva la questione a un nuovo sinodo (settembre 256) in cui 87 vescovi (due votarono per procura) gli diedero pienamente ragione: se ne conserva il processo verbale (Sententiae LXXXVII episcoporum). Cercava inoltre l'appoggio dell'episcopato orientale che, per bocca di Firmiliano di Cesarea, rispondeva usando parole molto forti contro Stefano (Epp. 74 e 75). E C. scriveva un significativo opuscolo, il De zelo et livore.
La polemica veniva troncata dalla ripresa della persecuzione. ordinata da Valeriano. Il 2 agosto del 257 Stefano subiva il martirio; il 30 agosto C. era interrogato dal proconsole Paterno e mandato in esilio, donde scriveva lettere ai martiri (Epp. 76-79) e l'Ad Fortunatum de exhortatione martyrii; il nuovo proconsole, Galerio Massimo, lo convocava l'anno dopo ad Utica. Ma C. (e il fatto illumina bene la sua concezione dell'autorità e dei doveri del vescovo) voleva subire il martirio nella sua sede (Epp. 80-81). Tornato Massimo a Cartagine, il 13 settembre veniva arrestato, e processato il giorno seguente. C. rispose appena alle domande (in re tam iusta nulla est consultatio), accolse con un Deo gratias la condanna, si bendò gli occhi da sé.
La sua memoria rimase viva nella chiesa africana, che fece oggetto di venerazione il suo sepolcro, gli dedicò più d'una chiesa commemorativa (Memoria), conservò fedelmente la sua Passio. E anche nella chiesa universale C. fu venerato per il suo martirio, come attestano tra gli altri Prudenzio (Peristeph., XIII) e, tra gli abbellimenti leggendarî, S. Gregorio Nazianzeno (Or., XXIV). La festa si celebra il 16 settembre.
Fonti ed edizioni: Per la vita, in primo luogo la corrispondenza e la Passio (in O. von Gebhardt, Acta martyrum selecta, Ausgewählte Märtyreracten, Berlino 1902, p. 124 segg.) indi la biografia del diacono Ponzio (v. bibl.) e notizie fornite da altri scrittori, come S. Agostino, specie nelle opere antidonatiste e S. Girolamo (De vir. inl., 67; Ep. ad Magnum, 5). Sono riunite nell'edizione delle opere curata dal Hartel (S. Caec. Th. Cypr. opera omnia, in Corpus scriptor. ecclís. latin., III,1-3, Vienna 1868-1871, voll. 3), difettosa per i Testimonia (attenersi all'apparato, specie alle lezioni del cod. L; per le lettere, seguiamo la numerazione di questa ed., in base all'ordine cronologico). Per le lettere, ora: Bayard, S. Cyprien: Correspondance, Parigi 1925, voll. 2; per il De eccl. unit., ed. E. H. Blakeney (Texts for students, 43), Londra 1928; per il De lapsis, ed. J. Martin (Florilegium patristicum, 21), Bonn 1930 (cfr. H. Koch, in Theol. Literaturzeit., 1930, col. 439 segg.). Il terzo volume dell'ed. Hartel contiene una serie di scritti (la cosiddetta Appendix Cypriani) di dubbia autenticità e di data e origine molto discusse. P. Monceaux ha cercato di ricondurre all'Africa e al terzo secolo ("scuola di Cipriano"): l'Ad Novatianum, il De Pascha romputus, il De laude martyrii, il De spectaculis, il De bono pudicitiae, il De aleatoribus (o Adv. aleatores); il De rebaptismate, contro C., sarebbe pure d'un vescovo africano. Secondo altri, la prima sarebbe opera del sec. IV; il De spect. e il De bono pud. apparterrebbero a Novaziano, cui taluno attribuisce il De laude mart. (sec. III); l'Ad Novatianum fu dato anche a Reticio d'Autun (sec. IV) e a papa Sisto II (257-8). Per l'Adv. aleat., il cui autore conosce i Testimonia e si dichiara vescovo di Roma, si è pensato a un papa (Vittore; Callisto; Milziade), a un vescovo novazianista, a Ippolito; traduzione di un'omelia di quest'ultimo sarebbe l'Adv. Judaeos (secondo altri, di Novaziano); il De montibus Sina et Sion è dal Corssen ritenuto africano e della fine del sec. II. Pure a Novaziano (o al donatista romano Macrobio) si è pensato per il De singularitate clericorum; l'Ad Virgilium episcopum è la dedica, inviata ad un Vigilio (non Vigilio di Tapso) del dialogo di Aristone di Pella. Quattro lettere sono una falsificazione donatista (cfr. G. Mercati, in Rend. Ist. Lombardo, XXXII, s. 2ª, 1899, p. 986). I poemetti (Genesis; Sodoma; De Jona; Ad senatorem; De Pascha; Ad Flavium Felicem) sono molto posteriori. All'Irlanda e alla seconda metà del sec. IV va probabilmente assegnato il trattatello De XII abusivis saeculi. Il De duplici martyrio ad Fortunatum è una falsificazione di E1asmo. Il Quod idola dii non sint, ritenuto finora il primo scritto di Cipriano, è attribuito a Ponzio da A. D'Alès (in Rech. de sc. relig., ottobre 1918). Non sono compresi nell'ed. Hartel l'Exhortatio de paenitentia (o Ad paen., Cracovia 1893) attribuita dal Monceaux alla "scuola di Cipriano", da altri al sec. IV-V; la Caena Cypriani (in Mon. Germ. Histor., Poetae lat., IV, 2,1, Berlino 1914, p. 892) attribuita alla Gallia meridionale o all'Italia settentrionale (il prete Cipriano dell'ep. 140 di S. Girolamo?); il De centesima, sexagesima, tricesima, non antico (come vorrebbe il Reitzenstein, in Zehsch. f. neutest. Wiss., 1914, p. 60) ma tardivo e forse irlandese (cfr. E. Buonaiuti, Un trattato pseudociprianeo, ecc., Roma 1918).
Bibl.: P. Monceaux, Hist. littér. de l'Afr. chrétienne, II, Parigi 1902; O. Bardenhewer, Geschichte der altkirchlichen Literatur, II, 2ª ed., Friburgo in B. 1914; M. Schanz (C. Hosius e G. Krüger), Gesch. d. röm. Litteratur, III, Monaco 1922, pp. 333-392; H. von Soden, Die cyprianische Briefsammlung, Lipsia 1904 (Texte und Untersuchungen, n. s., X, 3); L. Bayard, Le latin de S. Cyprien, Parigi 1902; A. v. Harnack, Das Leben Cyprians von Pontius, Lipsia 1913 (Texte und Untersuchungen, XXXIX, 3); id., Cyprian als Enthusiast, in Zeitschrift für die Neutestamentl. Wissensch., 1902, p. 177 segg.; G. Mercati, Di alcuni nuovi sussidi per la critica del testo di S. C., Roma 1897; A. d'Alès, La théologie de S. CYprien, Parigi 1922; E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tubinga 1930, pp. 72-83; H. Koch, Cyprian und der römische Primat, Lipsia 1910 (cfr. J. Chapman, in Revue bénédictine, XXVII [1910], p. 447 segg.); id., Cyprianische Untersuchungen, Bonn 1926; id., in Zeitschr. f. Kirchengesch., XLV, n. s., viii, 1926, p. 1 segg.; id., in Ricerche religiose, V (1929), pp. 137-163 e VI (1930), pp. 304-316 e 402-501 (cont.); id., Cathedra Petri, Giessen 1930; per il De Eccl. unit. (cfr. E. Buonaiuti, in Ric. rel., 1930, . 526 segg.); E. Buonaiuti, Il cristianesimo nell'Africa romana, Bari 1928, pp. 225-267; C. H. Turner, Prolegomena to the Testimonia and Ad Fortun. of St. C., in Journ. of theol. st., XXXXI (apr. 1930), p. 225.