Pufendorf, Samuel
Giurista e filosofo del diritto (Chemnitz, Sassonia, 1632 - Berlino 1694).
Studiò teologia protestante e diritto a Lipsia e nel 1657 filosofia a Jena, dove, sotto la guida del matematico e cartesiano Erhard Weigel, si convinse della necessità di applicare il metodo geometrico alle scienze morali. Nel 1658, ottenuto il posto di precettore presso il barone Coyet, ambasciatore svedese in Danimarca, si trasferì a Copenhagen, dove però, a causa della guerra scoppiata fra i due paesi, scontò otto mesi di prigionia, nel corso dei quali, partendo da una riflessione sulle opere di Grozio, Hobbes e Cumberland, stese con perfetto metodo geometrico gli Elementa jurisprudentiae universalis (pubblicati nel 1660). L’Elettore Palatino, cui erano dedicati, lo chiamò nel 1661 a Heidelberg, dove per lui fu istituita la prima cattedra di diritto naturale e delle genti; lì P. acquisì grandissima notorietà per le affollatissime lezioni e per il De statu Imperii Germanici (pubblicato nel 1667 con lo pseudonimo di Severino Monzambano da Verona), nel quale descriveva l’Impero come «un corpo irregolare e mostruoso» (cioè non un vero e proprio Stato, ma una confederazione le cui parti sono vincolate da un «foedus inaequale») e rivolgeva aspre critiche alla politica dei principi tedeschi. L’opera suscitò moltissime polemiche e P. preferì accettare un invito di Carlo XI di Svezia e andare a insegnare diritto naturale e delle genti nell’univ. di Lund. Due anni dopo pubblicava, in otto libri, la sua opera principale, il De iure naturae et gentium (1672), più volte ristampato, tradotto in tedesco, in inglese, in francese (da Barbeyrac) e in italiano, e riassunto dallo stesso P. nel De officio hominis et civis iuxta legem naturalem (1673), anch’esso più volte ristampato e tradotto. Il De iure ebbe enorme ripercussione, dando luogo ad aspri attacchi, soprattutto da parte di teologi protestanti, ai quali P. rispose con una serie di opuscoli, tra cui De statu hominum naturali (1675) e la raccolta Eris Scandica (1686). Nel frattempo, veniva invitato, quale consigliere di Stato e storiografo regio, a Stoccolma, dove compose varie opere storiche, tra le quali i Commentaria de rebus Suecicis ab expeditione Gustavi Adolphi usque ad abdicationem Christinae (1686). Fu poi chiamato nel 1686 come storiografo di corte a Berlino presso Federico Guglielmo di Hohenzollern. Pubblicò quindi il De habitu religionis christianae ad vitam civilem (1687), dove dimostrava che la religione cristiana è da ritenersi la più adatta a vivificare le attività dello Stato; la morte gli impedì di veder terminata la stampa di altre opere sulla storia dei principi elettori del Brandeburgo e del regno di Svezia. Notevole, fra le altre opere postume, lo Ius feciale divinum, sive de consensu et dissensu Protestantium (1695).
P. dovette la sua fortuna alla scrupolosa sistematicità con cui sviluppò le tesi giusnaturalistiche (➔ giusnaturalismo), interpretando la nuova coscienza laica e razionalista e divulgando la dottrina del diritto naturale in tutta l’Europa colta. P. intende svolgere la scienza del diritto come scienza rigorosamente deduttiva, fondata sulla recta ratio e non su procedimenti induttivi: lo ius naturae non può essere identificato attraverso un’analisi comparativa dei diversi diritti positivi, che condurrebbe a relativizzare credenze e comportamenti, e non a fissare valori universali. La legge naturale si ricava soltanto dal dettato della retta ragione: è una norma chiara, disponibile all’uomo dall’origine, che ha come fine la conservazione di una pacifica socialità, condizione necessaria perché ciascun individuo possa godere di qualsiasi bene e migliorare le proprie condizioni di vita. Nello svolgimento delle dottrine di P. assume particolare rilievo la tesi dell’autonomia del diritto naturale rispetto alla religione: esso infatti determina «la regola delle azioni e dei rapporti fra tutti gli uomini non in quanto cristiani, ma in quanto uomini». Il diritto naturale si distingue dalla teologia morale per la diversa fonte (la retta ragione nel primo, la rivelazione nella seconda), per il differente fine (rendere l’uomo socievole con norme applicabili al solo ambito della vita terrena, nel primo caso; la salvezza eterna nel secondo, con norme di cui dobbiamo rendere conto a Dio) e per l’oggetto (disciplinare le azioni esterne oppure quelle interne). Con eguale precisione è anche circoscritta la sfera del diritto dalla morale: nella prima è elemento essenziale la coattività connessa con la sanzione in rapporto alla non osservanza della norma giuridica; nella morale invece non vi è coazione, e il rispetto della norma è rimesso alla coscienza.
Sviluppando il parallelismo tra scienze naturali e scienze morali, P. spiega che, come gli oggetti delle prime sono gli «entia physica», così gli oggetti delle seconde sono gli «entia moralia», che nessuno ha però finora descritto. Tali enti sono i valori, le norme che regolano la vita degli uomini; P. mette in risalto l’opposizione tra l’uniformità del mondo fisico (sottoposto alle rigide leggi della causalità, e cioè a leggi stabili e uniformi) e la multiformità del mondo morale, nel quale l’azione morale può indirizzarsi in varie direzioni in base alla libera scelta dell’individuo. Lo stato precedente l’istituzione della società civile (➔ natura, stato di) viene descritto da P. come la condizione dell’indipendenza reciproca (nessuno è soggetto ad altri, né ha un altro sotto di sé) e della massima libertà; vi era una sorta di comunanza negativa di tutte le cose, un regime di proprietà indivisa, in cui la terra era a disposizione di tutti. Dalla comunità indivisa si era passati poi a una graduale spartizione, in base alla necessità, grazie alla stipulazione di patti, accordandosi che ciò di cui ciascuno si era impossessato fosse sottratto all’uso comune. La proprietà è quindi un diritto naturale, ma la sua origine non sta nel diritto del primo occupante bensì nel patto. Senza patti e senza le successive istituzioni umane, i diritti e le leggi naturali non potrebbe trovare piena applicazione, e infatti la pace nello stato naturale, dove è garantita solo dalla ragione, «è vacillante e infida». Il passaggio alla società politica, e cioè l’istituzione di un summum imperium al quale tutti sono sottoposti e che deve garantire ordine interno e difesa esterna, avviene attraverso un duplice contratto (➔ contrattualismo). Gli uomini dapprima stipulano all’unanimità un patto di associazione (pactum societatis), che trasforma una moltitudine (cioè un coacervo di individui, ciascuno portatore di una volontà particolare) in un popolo dotato di un’unica volontà (quella della maggioranza). A questo, segue un patto di sottomissione (pactum subiectionis) tra popolo e sovrano che dà origine al potere politico. In mezzo cade una delibera costituzionale, con la quale viene scelta la forma di governo, se cioè il potere sovrano sarà esercitato da un monarca, da un’oligarchia o dall’assemblea di tutti i cittadini; la soluzione auspicata da P. è quella di un assolutismo moderato. Utilizzando la teoria contrattualistica, P. giunge a definire una concezione dello Stato razionalistica (la società civile o politica appare come un corpo artificiale, costruito dall’uomo, e anche il potere in essa esercitato non ha una base naturale, ma convenzionale) e individualistica, perché i diritti della comunità vengono dedotti dai diritti dell’individuo liberamente ceduti e messi assieme.
Nel De habitu religionis christianae ad vitam civilem, P. affronta i rapporti tra Stato e Chiesa, potere civile e potere religioso. La sua proposta è quella di una moderata supremazia del potere temporale che garantisca il principio della tolleranza religiosa, circoscrivendo il campo d’azione della Chiesa al foro dell’interiorità e quindi all’insegnamento di principi morali e religiosi.
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