SAMNIUM et SABINA
SABINA. Samnium. - Con il nome di S. si indicava, nell'ambito della Regio IV, un territorio limitato a pochi municipi tutti ubicati a Ν del Matese. In epoca precedente alla guerra sociale appartenevano invece all'area sannitica gruppi etnici difficilmente riconducibili entro precisi confini geografici, ma politicamente ben definiti già a partire dal IV sec. a.C.: Vestini, Mar si, Peligni, Frentani, Marrucini, Carricini, Sanniti, Pentri, Irpini e Caudini. Intorno alla metà del IV sec., all'apice della sua espansione, lo stato sannitico si estendeva non solo in Campania, nella fascia pedemontana meridionale del Mátese, ma anche nel Lazio, su una parte del territorio dei Volsci, delimitata a S e a O dal corso del Liri con caposaldo ad Arpinum, né mancavano incursioni a E del fiume stesso (Fregellae è occupata nel 320 a.C.).
Per il periodo arcaico lo studio dei testi paleosabellici ha posto in luce come la distinzione tra Sabina e Sannio appartenga solo alla lingua latina, probabilmente dovuta ai differenti rapporti intercorsi tra le varie etnie e i Romani, giacché tutti i popoli dell'area in esame definiscono se stessi Safini e il nome del Sannio è Safinim, come attestato da un'iscrizione di Pietrabbondante ancora nel II sec. a.C. (Vetter, 1953, 149).
Anteriormente al IV sec. è documentato un ordinamento monarchico, come testimonia il re (raki) Nevio Pompulledio raffigurato nella statua di Capestrano (v. vol. II, p. 320, s.v. Capestrano, Guerriero di) o il rex Aequeicolus Ferter Resius. Dal IV sec. sono attestate forme costituzionali di tipo repubblicano: il termine tonto, che ricorre in numerose epigrafi a indicare lo stato delle diverse popolazioni, equivale a res publica (cfr. toutai Maroucai nella legge sacra marrucina di Rapino, Vetter, 1953, 218).
Dal III sec. in poi lo studio dell'abbondante documentazione epigrafica ha consentito di conoscere, da un lato, l'assetto costituzionale della touto: al grado più elevato, con carica elettiva annuale, il meddíss túvtíks, magistrato eponimo, detentore dell’imperium, con elevati poteri pubblici e giurisdizionali oltre che militari; i censori (keenstur, Vetter, 1953, 149) e gli edili (aidilis, Vetter, 1953, 143); dall'altro, ha permesso di individuare i nomi delle principali famiglie gentilizie, spesso ricollegandole a precisi ambiti territoriali, e, a volte, ricostruendone le genealogie.
La storia del Sannio dal IV sec. in poi è legata allo scontro con Roma, dalle guerre sannitiche alla guerra sociale, vicende che hanno le loro fonti principali in Livio e Plinio, anche se, in particolare per la toponomastica, sono utili anche Diodoro Siculo, Tolemeo, Appiano, Polibio, Dionigi di Alicarnasso, oltre alle sporadiche citazioni, tra l'altro, di Tacito, Silio Italico, Virgilio, Zonara.
L'accresciuta conoscenza archeologica del territorio sannitico e una attenta revisione delle fonti hanno portato non solo a una migliore definizione degli episodi storici, ma anche all'identificazione di numerosi siti citati dagli antichi, fra cui, importante, quella di Aquilonia con Monte Vairano, di Herculaneum con Campochiaro, di Cluviae con località Piano Laroma presso Casoli (Chieti), di Callifae con Roccavecchia di Pratella e, con buona probabilità, di Cominium con Pietrabbondante e di Duronia con S. Biagio Saracinisco.
La lettura critica e la catalogazione della documentazione epigrafica hanno maggiormente delineato anche gli aspetti religiosi dell'area sannitica, ponendo in luce i sincretismi fra influenza greca e mondo italico (p.es. l'associazione fra orfismo e i culti italici agricoli, identificazione mistica del ciclo vita-morte e del ciclo annuale del grano, nella Tavola di Agnone); hanno meglio definito personalità e attributi delle singole divinità e, soprattutto, hanno consentito di cogliere fin da epoca assai antica nel sostrato unificante della cultura sud-picena testimonianze di prescrizioni rituali del tipo lex arae, che già attestano l'esistenza di una componente «politica» a mezzo fra i sacra pubblici e quelli privati, nonché la presenza del genius del defunto (tito-) e di un'ideologia eroica e guerriera all'insegna della gens. Una disposizione nei confronti del divino che troverà riscontro nel predominio della funzione pubblica e politica su quella religiosa dei grandi santuari (v. pietrabbondante).
Quanto alle forme di occupazione del territorio, le indagini archeologiche hanno sostanzialmente confermato il carattere vicano degli insediamenti sannitici presupposto dalle fonti antiche. Verso la fine del V sec. a.C. appare già consolidata la proprietà privata dei suoli agricoli e pertanto la forma più diffusa di insediamento è, con termine latino, il pagus, entità territoriale appartenente a una comunità, dotato di strutture diverse a seconda delle necessità: i villaggi (vici), i mercati (fora) posti lungo gli assi viari (di cui i principali ricalcati poi dalle vie consolari romane e fino a oggi dai tratturi), i santuari (tempia), i centri fortificati (oppida, castella), le fattorie rurali. Fra queste strutture esiste in genere uno stretto nesso: nei pressi degli abitati e dei mercati più importanti, che si sviluppano per lo più in siti pianeggianti o su leggeri declivi (p.es. Bovianum, Venafrum, Saepinum), sorgono
i santuari e, soprattutto a partire dalle guerre sannitiche, si erigono sulle vette delle alture circonvicine cinte fortificate di difesa, a volte di grandi dimensioni e dunque atte a ospitare la popolazione (p.es. Frosolone, Cercemaggiore, Pescolanciano), a volte piccole con funzione esclusivamente militare (p.es. Montefalcone, Rionero Sannitico, Tre Torrette di Campochiaro). Queste cinte in opera poligonale sono l'elemento più caratteristico del panorama del Sannio. Esse si incontrano in tutto l'antico territorio sud-piceno (da Colle del Vento nel Teramano alle aree marsa, peligna, superequana), ma sono particolarmente numerose in Molise, nel Sannio pentro che fu il cuore della resistenza ai Romani.
La tecnica costruttiva delle opere di fortificazione è molto semplice e fa pensare alla presenza di maestranze non specializzate, probabilmente soldati e prigionieri guidati da capi militari: grossi blocchi, in genere poco lavorati, sono sovrapposti a secco.
Le mura sono a paramento unico; raramente si incontra un doppio paramento con riempimento a sacco (Amplero, località La Giostra) e aggere interno (Monte Vairano). Alle Tre Torrette di Campochiaro la cinta muraria è dotata di torri a pianta quadrata. Le porte d'accesso, presenti in vario numero, hanno in più casi un ingresso con corridoio obliquo (Amplero, Monte Vairano, Castelromano, Cercemaggiore).
Le cinte fortificate sannitiche si datano per la maggior parte nel tardo IV sec. a.C.; tuttavia, la presenza nelle iscrizioni paleosabelliche del termine okreí, che si intende come «altura fortificata» (v. penna s. andrea, terza iscrizione), ne testimonia l'esistenza almeno dal secolo precedente.
I centri fortificati minori svolgono spesso la funzione di arx nei confronti del vicus a quota più bassa. P.es., nella Marsica, in località La Giostra di Amplerò (m 1030 s.l.m.) la cinta fortificata racchiude una cisterna in opera poligonale evoluta con adiacente piccolo edificio di due vani comunicanti e pavimento in cocciopesto; un deposito votivo contenente materiali fittili che vanno dal VI al II sec. a.C.; un santuario (m 10,35 x I7)°9)) databile tra la fine del II e l'inizio del I sec. a.C., con vestibolo porticato e tre ambienti dei quali quello di mezzo, pavimentato in signino con tappeto centrale di scaglie bianche e pareti dipinte di II stile, ha restituito non solo la base in muratura destinata alla statua di culto, ma la statua stessa, fittile, priva di testa, da identificare con Diana. Il vicus per il quale questa fortificazione svolge funzione di arx, è posto in località S. Castro su più dolci pendici terrazzate con mura poligonali. Qui i rinvenimenti ceramici si datano dal III sec. a.C. alla seconda metà del III d.C., ma, a testimoniare l'antichità della frequentazione del sito, sono le c.d. Gambe del Diavolo (Chieti, Museo Archeologico) ivi rinvenute, parte di una stele antropomorfa sud-picena databile al VI sec. a.C. Un frammento di torso femminile in pietra del medesimo stile e periodo proviene dalla zona della necropoli, posta a E del vicus sui versanti della valletta del Cantone, lungo il tracciato che collega Amplero alla valle del Fucino, con tombe su doppia fila a fossa rivestite di lastroni (alcuni di chiusura a finta porta) con epigrafi, oppure a camera (delle quali tre dipinte con decorazioni architettoniche in rosso). La tomba 14 conteneva elementi in osso di un letto funerario di tipo ellenistico.
Lo stesso rapporto fra altura fortificata e vicus si ritrova a Saepinum (v. sepino) con arx sull'altura di Terravecchia e a Bovianum, all'origine, come traspare dal toponimo, un mercato di buoi lungo il tracciato viario ricalcato dal tratturo Pescasseroli-Candela. Bovianum (v. vol. ii, p. 122, s.v. Botano) dopo la caduta di Aquilonia nel 293 a.C. divenne il principale centro del Sannio. L'arx, collocata sull'altura della Civita, difendeva il sottostante vicus organizzato in isolati di forma quadrata di c.a m 60 di lato, come a Venafro (v.), al quale si sovrappose in seguito l'insediamento romano. Sull'altura della Civita esistono scarni resti della cinta in opera poligonale. Oltre al tratto già da tempo noto in Largetto Gentile, ne sono stati posti in luce altri a sinistra e a destra di esso e, soprattutto, nel cortile del Vecchio Episcopio si è rinvenuto un muro ortogonale ai primi che fa pensare a una situazione simile a quella esistente ad Angitia, dove da una cinta rettilinea pedemontana si staccano due tratti ortogonali che risalgono i fianchi della montagna. Le mura poligonali nei giardini di Palazzo Perrella sono invece terrazzamenti.
Nell'area della Civita vi sono tracce di edifici e da essa provengono numerosi frammenti di ceramica a vernice nera, laterizi con bolli del meddíss in carica e, presumibilmente, anche la statua frammentaria di centauro in pietra locale (Chieti, Museo Archeologico).
Oltre che dall'ara della Civita, Bovianum era difesa da tre fortezze, a quanto narra Appiano (Bell, civ., 1, 51). Di almeno una di esse si sono ravvisate le tracce sulla vetta del Monte Crocella (m 1.040 s.l.m.) dove sono i resti di una cinta fortificata (perimetro m 900; diametro m 110) con porta a corridoio obliquo e una cisterna al suo interno.
La medesima funzione di arx dovevano esercitare le alture fortificate di Chiauci, di Duronia e altre ancora. Anche sul Monte Cavuto (m 660 s.l.m.) a SO di Pratella, sulle pendici sud-orientali del Matese nella Campania sannita, fortificazioni in opera poligonale a blocchi ben lavorati racchiudono un 'arx terrazzata con i resti di edifici sacri e di un teatro ricavato nella roccia viva. Il sito è stato identificato con l'antica Callifae.
Alcuni insediamenti sorti in zone naturalmente protette da alture circostanti si dotano essi stessi di cinte di fortificazione verso la fine del IV secolo. Così è ad Alfedena (v.), Longano, Frosolone, Carovilli e a Monte Vairano dove sono i resti del più grande centro dei Samnites Pentri (c.a 50 ha), con fondati argomenti identificato con la Aquilonia ricordata da Livio (x, 36-48) negli eventi bellici del 293 a.C., e indicata come Akudunniad nell'unica emissione monetale dei Pentri databile a questo medesimo torno di tempo, quando fu espugnata da Scipione Barbato che penetrò nella città dalla porta orientale (ancora oggi indicata con il significativo toponimo di Porta Vittoria). L'altura di Monte Vairano si articola in tre cime (m 953, 968, 997 s.l.m.) e presenta nel mezzo un'ampia area resa pianeggiante da mura di terrazzamento. La cinta in opera poligonale (perimetro m 3.000 circa) è a doppio paramento con aggere interno e, a tratti, anche a paramento semplice con un riempimento di piccole pietre all'interno. Vi si aprono tre porte (a S, E, O) che conservano le tracce dei cardini dei due battenti lignei. A lato della porta orientale è una fornace circolare sovrapposta all'aggere e al paramento interno delle mura, che produce ceramica a vernice nera databile dalla prima metà del II sec. a.C. Altre due fornaci sono all'esterno della cinta.
Dell'abitato sono stati posti in luce una cisterna e resti di edifici. Un'abitazione, che risulta in uso dal II sec. alla metà del I a.C., quando è distrutta da un incendio, è stata scavata presso la porta meridionale. Ha pavimenti in cocciopesto e pareti a intonaco rosso e zoccolo nero. Ha restituito frammenti ceramici in cui ricorre il graffito ln, numerosa suppellettile da cucina e da mensa, doli con tracce di farro e legumi, un mortaio, tre lucerne, una chiave in ferro, un telaio con trentanove pesi di varia foggia, un'antefissa con Ercole e il leone nemeo. Antefisse con il medesimo soggetto provengono inoltre da un altro edificio, di incerta destinazione (basamento di portico o di un grande altare come a Rossano di Vaglio, oppure scena per spettacoli all'aperto), costruito in opera poligonale e diviso in due ambienti rettangolari. Nell'area della città erano stati da tempo recuperati anche un frammento di dolio con protome scimmiesca, una statuetta mutila di Ercole e due bronzetti sempre raffiguranti l'eroe (III-II sec. a.C.), una statuetta muliebre acefala, suppellettili varie, bolli d'anfore rodie e puniche.
Durante il conflitto con Roma anche il santuario di Campochiaro, identificato con l’Herculaneum liviano (X, 45, 9), viene protetto con fortificazioni in opera poligonale. Il complesso è posto a 800 m s.l.m. sull'altura in località La Civitella nei pressi di Boiano, in posizione strategica giacché vi fa capo il piccolo tratturo che raccorda i tre tratturi maggiori della zona: il Celano-Foggia, il Castel di Sangro-Lucera, il Pescasseroli-Candela. Vi si registra continuità di vita dalla metà del IV sec. a.C. in poi. A quest'epoca risale infatti la più antica fase edilizia del santuario. All'interno della cinta fortificata che delimita uno spazio grosso modo triangolare (m 150 X 125 circa) con il vertice verso valle, l'area è terrazzata. Sulla terrazza principale è il luogo di culto, delimitato a O da un lungo porticato con elevato ligneo del quale sopravvive un frammento di sima fittile con palmetta e testa leonina. Si tratta all'inizio probabilmente solo di uno húrz, un recinto sacro con uno o più altari, come lo húrz Kerríis della Fonte del Romito tra Capracotta e Agnone, dal quale proviene la ben nota tavola bronzea relativa ai culti che vi si svolgevano. Nell'area a SO del portico sono strutture in opera poligonale e basi di colonne troncoconiche che appartengono forse a un porticato posto a fianco di un ingresso monumentale all'area sacra.
Tra la fine del III e il II sec. a.C. la terrazza principale viene ampliata e sostenuta da una lunga costruzione con prospetto scenografico sulla spianata sottostante (forse un portico poi tamponato per problemi di statica). Sulla terrazza sorge il nuovo tempio, prostilo, tetrastilo, in antis, con podio liscio e puteal strigliato al centro del pronao. I bolli delle tegole portano il nome del meddíss del 130 a.C., Sn. Staiis Mit. Κ. Della decorazione fittile restano: antepagmenta con palmette e spirali, antefisse con Pòtnia theròn e figure maschili, una lastra a traforo.
Presso il lato settentrionale del tempio sono stati rinvenuti due depositi che hanno restituito materiali votivi e edilizio, tra i quali è da notare una testina fittile di cavallo, forse attribuibile a un fregio architettonico del frontone del tempio.
Tra le testimonianze artistiche del Sánnio i luoghi di culto rappresentano l'elemento più cospicuo. I più importanti sono i santuari di Pietrabbondante e di Ercole a Campochiaro, ma degni di attenzione sono anche quelli di Schiavi d'Abruzzo, S. Giovanni in Galdo, Vastogirardi, Quadri, Gildone, Colle S. Giorgio. Di norma tutti sono dotati di uno o, più raramente, due templi posti su alto podio con gradinata frontale incassata, eleganti modanature a gola rovescia e blocchi accuratamente lavorati che denotano l'impiego di maestranze specializzate, probabilmente campane, e di ispirazione ellenistica.
Spesso gli edifici sacri si elevano su terrazze sostenute da muraglioni come a Campochiaro (Schiavi d'Abruzzo, S. Giovanni in Galdo); a volte dei complessi monumentali fa parte anche un teatro (Pietrabbondante, Callifae). A S. Giovanni in Galdo l'area sacra è recintata da un portico colonnato. Nei templi di epoca più recente (II-I sec. a.C.) si incontra un pavimento in signino rosso a tessere bianche di tipo campano-laziale (S. Giovanni in Galdo, Schiavi d'Abruzzo, dove un'iscrizione conserva anche il nome del costruttore: G. Paapii[s]). Le decorazioni architettoniche rinvenute in questi luoghi di culto sono per lo più fittili (e naturalmente all'origine policrome), prodotti di media qualità nell'ambito della koinè ellenistica magnogreca. Nel repertorio dei motivi si incontrano bucranî e rosette nelle metope (Schiavi d'Abruzzo); teste di leone o di satiro per i doccioni di gronda (Macchiavalfortore), Ercole, la Pòtnia theròn o semplicemente teste femminili nelle antefisse (Gildone, Teate). Negli antepagmenta i motivi vegetali si accoppiano fantasiosamente a più teste femminili o a una figura femminile (Rankengöttin) (Schiavi d'Abruzzo, Gildone); palmette e volute fanno da cornice ad amorini montati su pantere (Colle S. Giorgio); spesso le lastre, soprattutto quelle di coronamento del frontone, sono decorate con eleganti motivi a traforo. Frammenti di statue frontonali provengono soltanto da Pietrabbondante e Teate.
Accanto ai luoghi di culto maggiori vanno ricordati i sacelli rurali (come quello esplorato in località Morgia della Chiusa presso Gildone) e i piccoli edifici sacri posti nei pressi dei sepolcreti (Cercemaggiore). Le necropoli sono state di recente oggetto di accurate indagini e di studio, soprattutto nell'area molisana sia interna (Pozzilli
presso Venafro, S. Massimo, S. Polo, Campochiaro, Macchiagodena, Sepino, Capracotta, Agnone, ecc.) sia costiera (Termoli, Larino, Guglionesi). Numerose anche le fattorie rurali esplorate: in località Pesco-Morelli di Cercemaggiore si è posta in luce una casa sannitica (m 19 X 17) con ambienti abitativi e altri destinati alla lavorazione dei prodotti agricoli, distribuiti attorno a un atrio rettangolare. La casa è costruita in opera poligonale; i pavimenti sono in cocciopesto oppure in semplice battuto di terra o grossolanamente lastricati. Nella pars rustica sono una vasca e alcuni dolia. L'edificio è in uso fino al II sec. a.C. circa.
Interessata nel periodo arcaico da una cultura in grado di produrre, da un lato, la grande statuaria del torsetto e del Guerriero di Capestrano, riecheggiata nelle statue frammentarie di Atessa e di Rapino e nelle stele di Guardiagrele e di Collelongo, dall'altro le fantasiose decorazioni dei kardiophỳlakes aufidenati, l'area delle popolazioni di stirpe sannitica non ha restituito nei secoli successivi, segnati dal conflitto con i Romani, opere d'arte al livello dell'eleganza delle sue architetture, fatta salva la monumentalità un po' rigida della Minerva di Roccaspromonte (Vienna, Kunsthistorisches Museum,) e la straordinaria testa bronzea da S. Giovanni Lipioni (Parigi, Bibliothèque Nationale), così vicina per le caratteristiche tecniche e di stile a quella del Bruto Capitolino, e, con grande probabilità, unico ritratto pervenutoci di un glorioso meddíss delle genti sannite.
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(L. Franchi dell’Orto)
Sabina. - Il rinnovato interesse nei. confronti dei Sabini e il maggiore impulso dato agli studi si deve in gran parte alle recenti scoperte archeologiche della necropoli di Colle del Forno, nella Sabina tiberina, e dell'abitato di Cures.
L'appartenenza della Sabina all'area delle popolazioni italiche di lingua osco-umbra, che con le più recenti scoperte epigrafiche e archeologiche è un fatto acquisito, era messa in evidenza anche dalle fonti storiche che collegavano i Sabini con gli Umbri, i Picentes, gli Ernici, i Sanniti, nonché dallo stesso ordinamento augusteo, cui si deve la creazione della IV Regio Sabini et Samnium. Lo spartiacque dei Monti Sabini suddivideva il territorio in due parti distinte sotto il profilo culturale: a SO quella tiberina, gravitante sul bacino del Tevere e a NE quella interna con al centro il bacino del Velino. Nel primo erano Eretum, Cures, Trebula Mutuesca e Forum Novum, nel secondo Nursia, Reate e Amiternum, vicino a Testruna, la culla dei Sabini, secondo Catone. La parte tiberina costituiva la base di un sistema di comunicazione fra area etrusca, falisco-capenate, umbro-picena e medio-adriatica, che permise alle popolazioni della zona di entrare molto presto in contatto con Roma. I primi rapporti intercorsi fra Romani e Sabini attestati dalle fonti avvennero in occasione del ratto delle Sabine; in questo episodio i Sabini appaiono differenziati dagli abitanti di Caenina, Antenna e Crustumerium, che per la loro vicinanza avevano maggiori motivi di contatto con Roma. Sulla «sabinità» o meno di queste popolazioni, la critica archeologica tende a considerare le tre città alleate dei Sabini, ma non facenti parte del loro èthnos. Alcuni pongono la frontiera con i Latini sul fiume Allia, a Í di Crustumerium; altri la spostano, invece, verso Nomentum, basandosi sull'interpretazione di un passo di Strabone, lasciando comunque la zona immediatamente a Í di Roma fuori dalla Sabina. In ogni caso, nel V sec. a.C., in coincidenza con l'avanzata romana, il confine con i Sabini è attestato fra Crustumerium ed Eretum.
Lo stato sociale dei Sabini era contrassegnato dal possesso di oro e di beni di prestigio, come attestano le fonti (episodio di Tarpeia e guerra romano-sabina sotto Tulio Ostilio) e l'evidenza archeologica costituita dal corredo della tomba principesca di Colle del Forno (VII sec. a.C.), da attribuire al centro di Eretum, ove il defunto era stato sepolto con pettorale in lamina d'oro, armi, un carro rituale a due ruote con rivestimento di bronzo e una bardatura di cavallo, indicando chiaramente la posizione eminente che il personaggio doveva ricoprire nell'ambito della comunità di appartenenza. Le necropoli di Poggio Sommavilla furono esplorate in gran parte nel secolo scorso; i corredi tombali furono smembrati e venduti a musei italiani e stranieri. Come a Colle del Forno, le sepolture tiberine sono costituite nella maggioranza dei casi da tombe a camera con dròmos, a pianta quadrangolare, con loculi nelle pareti e porta d'accesso a blocchi parallelepipedi squadrati. Esse sono la testimonianza di una civiltà di tipo urbano che si è affermata nella Sabina tiberina, durante il periodo orientalizzante; siamo molto lontani dal panorama culturale dei sepolcreti di tombe a fossa ricoperti da tumuli di pietra della Sabina interna, documento di una civiltà più arretrata di tipo paganico.
Nell'ambito della Sabina tiberina, è innegabile che le fonti assegnino una posizione di maggior risalto a Cures, la cui fondazione era dovuta a coloni provenienti da Reate. Si può asserire infatti che il termine Sabinus fosse sinonimo di Curensis, come si evince anche dall'essere la città designata spesso Cures Sabini, i suoi abitanti Curenses Sabini e il territorio della città, per il periodo dopo la conquista, ager sabinus. L'importanza di Cures, posta dagli autori sullo stesso piano delle maggiori città latine, è oggi confermata dai risultati delle ultime campagne di scavo, che hanno riportato in luce un abitato di capanne che raggiunse la fase protourbana fra l'VIII e il VII sec. a.C.
Anche se le fonti antiche consideravano sabine solo le popolazioni tiberine con cui Roma aveva contatti, esisteva una coscienza di una comune origine con gli abitanti della regione interna, che furono poi sottomessi e chiamati Sabini, dopo la conquista di Mn. Curio Dentato (290 a.C.); essa era viva ancora all'epoca della guerra sociale, quando fu coniata la moneta con la dicitura safinim, da parte degli insorti ribelli a Roma. Sotto il profilo linguistico, da una base o radice sabh(h)o, derivano sia i Sabini della storia, sia i Safini delle epigrafi, nonché i Samnites e i Sabelli. L'identità culturale e linguistica, messa in evidenza da epigrafi arcaiche, chiamate sud-picene perché provenienti dal territorio dei Praetuttii e dei Vestini, e dalla scoperta del cippo di Cures, è ulteriormente confermata dall'indicazione dell'etnico Safin, che compare in un altro gruppo di iscrizioni rinvenute nel Teramano a Penna di S. Andrea (valle del Vomano) e S. Omero. L'iscrizione di Cures, nel mostrare una totale corrispondenza grafica, morfologica e lessicale, con le iscrizioni c.d. sud-picene, è stata vista come la migliore dimostrazione della sabinità di tali testi.
Due zone della Sabina tiberina, non menzionate nelle fonti per il periodo preromano e situate in posizioni defilate, sono tuttavia da ricordare: Magliano Sabina, ove è stato individuato un centro arcaico con relativa necropoli, e Trebula Mutuesca, posta a ridosso delle valli del Salto e del Turano, che ha restituito la stipe votiva del Santuario di Feronia. Le teste fittili offrono una testimonianza atipica nell'ambito dei depositi dell'Italia centrale, mentre da un quadro di insieme si deduce l'esistenza di rapporti commerciali con il santuario di Lucus Feroniae e con l'altra sponda del Tevere, in un arco cronologico compreso fra il V e il III sec. a.C.
Con il decadere della civiltà dei Sabini pastori-guerrieri, l'utilizzo del territorio delle due Sabine fu differenziato; nella valle del Tevere si sviluppò una fiorente economia agricola, che si avvaleva dei trasporti sul fiume, mentre la Sabina interna, montagnosa, rimase prevalentemente dedita alla pastorizia transumante.
Le ville romane più notevoli sono a Collesecco di Cottanello e a Fianello Sabino, mentre limitata fu la diffusione di grandi residenze aristocratiche, con l'eccezione di quella dei Bruttii Praesentes di Monte Calvo (Poggio Molano) da cui provengono il ciclo statuario di Anacreonte e le Muse e Y Hera Borghese. Nella Sabina interna, vicino a Cittaducale, sono state riportate parzialmente in luce le strutture dell'impianto termale di Cotilia, presso il vicus Aquae Cutiliae e nelle adiacenze di Torrita di Amatrice è stato scoperto un vicus, forse la Phalacrinae ove nacque Vespasiano.
Tivoli e la valle dell'Aniene. - Due fra i centri più importanti del Latium vetus, Tibur e Praeneste erano situati ai margini orientali della pianura laziale, in prossimità di punti di passaggio fra le aree interne abitate dalle tribù sabelliche e la pianura laziale. Il carattere di città di frontiera rivestito da Tivoli (v.), centro latino sul confine fra Sabini, Equi e Latini, risulta dalla necropoli del II e III periodo laziale di Rocca Pia, che con le sue tombe a circolo secondo l'uso oscosabellico, richiama le sepolture di Terni, Tolentino e Campovalano nel Piceno, Teramo nei Praetuttii, Introdacqua nei Peligni, Pescina nei Marsi, Alfedena nel Sannio. I corredi sono caratterizzati da armi e oggetti d'ornamento (anelli, orecchini, fibule, collane di pasta vitrea e di ambra). Divinità peculiare del mondo pastorale è Ercole nel suo aspetto legato alla pastorizia, che compare nel periodo arcaico con una connotazione oracolare e terapeutica. Questo Ercole, venerato in tutta l'Italia centrale, nel Piceno e nella Cisalpina, e in stretta relazione con le rotte della transumanza, a Tivoli aveva un santuario che fu ristrutturato in età repubblicana e che era ubicato presso la valle dell'Aniene.
Recenti indagini a Civitella di Riofreddo e a Corvaro di Borgorose, nel territorio degli Equi, hanno contribuito a delinearne il profilo culturale.
Gli Equi, che appartengono al gruppo linguistico oscoumbro, abitavano la valle dell'Aniene, ove le prime avanguardie devono essersi stabilite già nell'Età del Ferro nel tentativo di aprirsi una via verso la pianura laziale e il mare; lo stesso tipo di tombe a circolo della necropoli di Rocca Pia a Tivoli equivale a una testimonianza del loro influsso culturale. L'esistenza di contatti avvenuti in un età molto antica fra Romani ed Equi si deduce anche dalla leggenda che attribuiva a Fertor Resius, un sovrano equo, l'introduzione a Roma dello ius fetiale. Annientati dai Romani nel corso di lotte feroci sostenute nei secoli V e IV a.C. (ne resta la testimonianza di Livio), praticamente scomparvero dopo la seconda guerra sannitica, quando i Romani in cinquanta giorni distrussero trentuno oppida e dedussero sul loro territorio le colonie di Alba Fucens, nel 303 a.C., e di Carseoli, nel 298 a.C. La ricognizione topografica condotta nell'alta e media valle dell'Aniene ha permesso di localizzare alcune cinte murarie in opera poligonale che possono essere attribuite a oppida utilizzati dagli Equi nel periodo in cui si svolsero le ultime lotte contro Roma. Queste cinte individuate a Ciciliano, Roviano, Bellegra, Canterano, Olevano Romano, Trevi nel Lazio, analogamente alle altre delle zone più interne del Sannio, sono tipiche degli insediamenti paganici di comunità non ancora urbanizzate. Un residuo del territorio equo, presumibilmente scampato al massacro, è da riconoscersi nell'air aequiculanus, corrispondente alla valle del Salto che collegava la valle dell'Aniene con la Via Salaria, ove gli Equi sopravvissero fino all'età romana, con il nome di Equicoli. Una significativa testimonianza
della Cultura equa è offerta dalla necropoli di Casal Civitella di Riofreddo, situata in una sella montuosa nell'alta valle dell'Aniene e databile ai secoli VI e V a.C. Le tombe rinvenute sono di due tipi, a cassone in calcare spugnoso e a fossa rivestita di calcare; hanno restituito corredi formati quasi esclusivamente da armi e da ornamenti in bronzo e ambra, che trovano significativi confronti nelle necropoli del Piceno, della Sabina tiberina e nel territorio ernico. Nel Cicolano (come è denominato il territorio più occidentale degli Equi o Equicoli) è iniziato lo scavo di un grande tumulo, denominato localmente Montariolo, nella pianura di Corvaro di Borgorose (Rieti) alle pendici dei Monti della Duchessa, che con un diametro di m 50 per un'altezza di m 3,70, è il maggiore di una vasta necropoli. Sviluppatosi attorno alla sepoltura di un personaggio di rilievo vissuto nella prima Età del Ferro e utilizzato fino alla tarda età repubblicana, ha restituito finora un gran numero di armi e materiali rientrati nelle tipologie diffuse in area centroitalica. Uno dei principali santuari degli Equicoli, dopo la conquista romana, è stato riconosciuto in un podio situato nella pianura di S. Erasmo di Corvaro (Borgorose), nelle cui adiacenze era un vicus.
Sono stati di recente indagati imponenti resti di una villa imperiale sugli altipiani di Arcinazzo. La residenza, di notevoli dimensioni, si data fra la fine del I e gli inizi del II sec. d.C., con una consistente fase flavia, come indicano i bolli laterizi, cui ê seguita la ristrutturazione traianea.
Nel complesso archeologico di Villa Adriana si è rinvenuto, nella zona compresa fra il Pretorio e le Grandi Terme, il modello in marmo di uno stadio. Il suo eccezionale interesse è dovuto alla rarità di modelli eseguiti per la costruzione di edifici e al fatto di essere stato realizzato per uno stadio non ancora identificato da collocare all'interno di Villa Adriana. Nel modellino, lo stadio è racchiuso in una lastra rettangolare ed è composto da cinque gradinate suddivise in nove ordini, con al centro di ogni settore i vomitoria. Rilevante è stata anche la scoperta di una testa-ritratto in marmo bianco a grana fine di grandezza naturale, rinvenuta a Piazza d'Oro; rappresenta un volto femminile giovanile pertinente a una statua panneggiata identificato in un primo tempo come ritratto di Sabina, mentre ora viene interpretato come quello di una privata appartenente alla cerchia della casa imperiale. Nell'ambito degli studi della decorazione architettonica e scultorea di Villa Adriana, è stata presentata una nuova ricostruzione del ciclo statuario egittizzante proveniente dal Serapeo del Canopo, con la quale viene messa in dubbio la sua interpretazione come coenatio estiva con triclinio galleggiante, secondo una tipologia architettonica nota per le residenze di lusso. La pianta del monumento viene invece vista come una allegoria geografica del corso del Nilo e del Mediterraneo.
Dall'agro tiburtino proviene uno dei ritrovamenti più clamorosi degli ultimi anni: il gruppo scultoreo con raffigurazione della Triade Capitolina, rinvenuto a Guidonia, databile alla fine del II sec. d.C.
L'area prenestina. - La città latina di Praeneste (v. palestrina) ebbe una importanza particolare grazie alla sua felice ubicazione a controllo della valle del Sacco-Liri. La città, fino a quando non entrò nell'orbita romana, poté sorvegliare una vasta porzione di territorio sino a Tivoli e Gabi ed era collegata al porto di Anzio: il corso incuneato fra i Colli Albani e i Monti Lepini costituì un motivo di scambi culturali e cultuali con Satricum e Anzio. Ad Anzio e Praeneste, p.es., il carattere bivalente della Fortuna veniva reso dall'accoppiamento di una figura matronale, legata alla fecondità e vicina alla Mater Matuta satricana, con una verginale con aspetti guerrieri. L'accostamento del culto di Mater Matuta e di Fortuna si ritrova anche a Roma ove Servio Tullio dedicò alle dee due templi gemelli. L'importanza strategica di Praeneste rende comprensibile come sin dal VII sec. a.C., la città latina abbia potuto possedere una ricchezza straordinaria e fosse un polo culturale e commerciale molto attivo, con contatti non solo con l'Etruria e la Campania, ma anche con il mondo ellenico e fenicio-punico, nonché con i centri italici dell'interno. Dal momento che nessuna fonte antica connette Praeneste con gli Etruschi, il problema della loro influenza può essere ricondotto a quello più generale dei rapporti con il Lazio; tuttavia, i rinvenimenti delle celebri tombe orientalizzanti hanno permesso l'ipotesi di un dominio o comunque di un'influenza degli Etruschi di Caere. Quanto ai testi epigrafici del periodo, dopo che è stata messa in dubbio l'autenticità della fibula, nota come prenestina, si discute se considerare etrusca o latina l'iscrizione Vetusia di una delle coppe d'argento della tomba Bernardini. La gens Vetusia è nominata nei Fasti Consolari romani per il V sec. a.C., nello stesso periodo in cui Praeneste si affaccia per la prima volta nella storia di Roma. Le necropoli si estendevano in una zona posta a S della città sillana, nelle contrade S. Rocco e Colombella. Quella medio-repubblicana era organizzata secondo un disegno urbanistico che aveva come punti di riferimento le vie di accesso e di attraversamento. I limiti non sono facilmente identificabili, in quanto a Í le sepolture sono state obliterate dalla città sillana; a S invece, un termine è visto nella villa attribuita ad Adriano, che attualmente ospita il cimitero di Palestrina. La zona sepolcrale della Colombella ha restituito segnacoli funerari a forma di pigna su sostegno a capitello corinzio in più di trecento esemplari, dispersi in vari musei e collezioni (Museo Nazionale Prenestino, Museo Nazionale Romano, Musei Vaticani, Accademia Americana, Istituto Archeologico Germanico). La loro importanza documentaria è ragguardevole soprattutto per le iscrizioni, che hanno permesso di identificare più di un centinaio di famiglie prenestine per un periodo compreso fra il IV e il V sec. a.C. Dalla stessa necropoli provengono altri cippi più antichi che al posto del capitello corinzio ne presentano uno tuscanico con sopra un bulbo sferico schiacciato e appuntito in cima (c.d. a cipolla); si tratta di esemplari derivati dai cippi arcaici etruschi della zona di Chiusi e Orvieto, databili ancora nel pieno IV sec. a.C. I busti funerari cui veniva attribuito lo stesso significato di segnacolo che si diceva per i cippi, sono quasi tutti femminili e raffigurano personaggi velati, con la mano destra portata al petto, in quell'atteggiamento che è derivato dal tipo statuario di Pudicitia; il busto veniva incassato in una base parallelepipeda su cui era inciso il nome. Recenti indagini in località Selciata hanno restituito un lembo di necropoli medio-repubblicana, composta da una decina di sepolture, appartenente a un nucleo distinto da quello della necropoli maggiore. Come nella Colombella, le deposizioni sono all'interno di cassoni rettangolari monolitici alti e stretti in pietra gabina, utilizzati per un'unica deposizione eccetto nel caso di infanti; non sono stati ritrovati invece, i c.d. pilozzi, le casse più piccole entro le quali avrebbero dovuto trovarsi le ciste o altri elementi del corredo. I corredi, più sobri rispetto a quelli della Colombella, sono composti dai soliti oggetti da toletta: ciste, specchi, vasi a gabbia e strigili, attribuiti questi ultimi indifferentemente a sepolture maschili e femminili, vasetti in alabastro e in pasta vitrea. Nel grande quadrilatero sottostante Via degli Arcioni, ai piedi di Palestrina, è stato possibile riconoscere la colonia fondata da Siila dopo l’82 a.C., mentre all'estremità SO di questa, in un'area extraurbana, si trovano le sostruzioni in opera incerta di un edificio facente parte del complesso del Santuario di Ercole, che ha restituito una stipe votiva attestante l'esistenza di un culto molto sentito fra l'età arcaica e il II sec. a.C., e nel periodo imperiale. Allo stato attuale della ricerca, si ritiene che il santuario fosse privo di un edificio templare vero e proprio, ma che comprendesse portici e muri di terrazzamento in opera incerta. La ricchezza culturale della città di Palestrina, che continua nel periodo imperiale romano, viene esemplificata da alcune sculture conservate al Museo Archeologico Nazionale Prenestino, quali il rilievo marmoreo della serie Grimani con una cinghialessa che allatta sei piccoli, tornato in luce nel 1966 negli scavi della città bassa con l'altare del divo Augusto. Il rilievo doveva decorare un monumento eretto forse in onore del poeta prenestino Verrio Fiacco, databile nella piena età augustea e inquadrabile in quelle espressioni artistiche programmatiche in cui veniva manifestato il consenso verso la politica del princeps. Dalla località Bocce di Rodi proviene il rilievo con la rappresentazione del trionfo postumo di Traiano celebrato a Selinunte in Cilicia nel 117 d.C., dedicato dal locale collegio degli Augustali e posto su un monumento onorario del culto imperiale o sulla porta della città.
Da una villa dell'agro prenestino (Mezza Selva), proviene, invece, un busto con ritratto di dama che si fa notare per l'alto livello qualitativo e per l'elaborata acconciatura di età traianea.
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(A. M. Reggiani)