SAMBUCUCCIO di Alando
SAMBUCUCCIO di Alando. – Nacque in data imprecisata, probabilmente nel primo quarto del Trecento, ad Alando, nella pieve di Bozio, nella Corsica centro-orientale (15 km da Corte).
Della fase iniziale della sua vita si ignora tutto, sino agli eventi della rivolta antinobiliare della fine del 1357, diffusa in tutta l’isola, senza che si possa sapere, al riguardo, se egli abbia preso parte personalmente alle trattative con le autorità genovesi che la precedettero e prepararono. Com’è noto, fu inviato nell’isola l’ambasciatore Gabriele Zurlo «pro negociis Comunis», e vi furono contatti con gli ambienti aristocratici corsi allo scopo di spezzarne la compattezza filoaragonese, mediante l’invio a Guglielmo della Rocca e a Guglielmo Cortinchi di due ambasciatori da parte del podestà di Bonifacio.
Si ignora in particolare se Sambucuccio abbia fatto parte dell’ambasciata di «uomini di Corsica» giunti a Genova nel maggio del 1357, evidentemente per trattare con l’entourage del doge; nell’occasione, un drappiere ricevette dal governo 22 lire per il pagamento dei loro abiti di rappresentanza.
Nei mesi successivi la rivolta si allargò a onde concentriche, a partire dal Nord-Est della Corsica (Casinca e Castagniccia centrale, il cuore delle «contrade Cortinche»); la pieve di Bozio si inserì in questo movimento sotto l’impulso di Sambucuccio, ma non ne fu il punto di partenza come successivamente si è pensato (per l’attrazione legata al suo nome carismatico).
Questo passaggio cruciale, dalla scintilla originaria all’insieme della Corsica nordorientale, sembra piuttosto essere evocato dall’espressione «Cinque pievi», allusivamente riferita dal vescovo Agostino Giustiniani (inizi Cinquecento) al blocco delle pievi di Vallerustie, Orezza, Ampugnani, Rostino e Tavagna (o, in alternativa a quest’ultima, Casacconi).
È certo però che nella seconda metà del 1357 si riunì un’ampia assemblea popolare («parlamento e consiglio», secondo Giovanni della Grossa, denominata anche «veduta» o «consulta» nella storiografia corsa dei secoli successivi) che dichiarò abolita la feudalità e proclamò la distruzione di tutti i castelli. L’assemblea diede a Sambucuccio il ruolo di capo militare dell’insurrezione, affidandogli il proprio comune destino politico («populus Corsus surrexit, armaque induit, libertatem clamavit et, habito conventu ad Marusaglam, Sambucucium Alandum Corsicae gubernatorem creavit», secondo Pietro Cirneo).
Il luogo di questa tumultuosa assemblea aveva, per i corsi della fine del Medioevo, un valore simbolico unificante per la memoria leggendaria della vittoria definitiva dei cristiani contro i Mori nell’Alto Medioevo; secondo la cronaca di Giovanni della Grossa, questo luogo mitico di riunione popolare fu utilizzato più volte, negli ultimi due secoli del Medioevo, come ‘cornice politica’ portatrice di un messaggio di libertà comunitaria e di lotta contro ogni forma di oppressione (proveniente dall’interno o dall’esterno dell’isola). Del resto, le acquisizioni dell’archeologia medievale sembrano confermare che effettivamente, alla metà del Trecento, i castelli signorili furono distrutti, a prova del successo della rivolta contadina e come cautela al fine di evitare eventuali successive reazioni dell’aristocrazia.
Il doge Simone Boccanegra, preso atto della vittoria militare di Sambucuccio e dei suoi sostenitori, inviò nell’isola agli alleati il proprio consigliere Leonardo Montaldo, con obiettivi coperti da segreto diplomatico («pro negociis Comunis Ianue»). Grazie a una trattativa con gli insorti, Montaldo ottenne che una delegazione corsa si recasse a Genova per fare formale atto di dedizione, ciò che avvenne nell’ottobre del 1358. Questa dedizione «dei popoli» di Corsica trova un modello nella dedizione a Genova di Sassari (aprile 1347) formalizzata dai fuorusciti sardi nelle mani del doge e degli anziani, che si impegnarono a trattarli «come gli altri cittadini di Genova e distretto».
Di questo soggiorno esiste documentazione archivistica: gli ambasciatori (quattro, secondo della Grossa) si recarono a Genova per l’omaggio e la sottomissione, e alla fine del viaggio furono pagate lire 25, soldi 18 da parte del Comune all’albergatore Leonardo di Botticella per le spese degli inviati «populi corsicani tunc in Ianua [...] pro ordinandis negociis insule Corsice cum communi Ianue». Come garanzia dell’accordo, il castello di Cinarca, dall’immenso valore simbolico, era stato consegnato dai corsi ai genovesi il 31 maggio 1358. Le richieste dei corsi concernevano il riconoscimento degli statuti, la determinazione di una taglia forfettaria annuale di 20 soldi per fuoco, l’invio di un governatore assistito da un vicario di giustizia e un Consiglio di sei corsi. Primo governatore fu Giovanni Boccanegra, fratello del doge, che rimase nell’isola sino alla fine del 1362 (o all’inizio del 1363).
Sambucuccio, come confermano i documenti genovesi del 1360 (che attestano anche la presenza di un vicario), fece parte del Consiglio dei sei insieme con Franceschino di Evisa (secondo le fonti, il compagno d’armi più vicino a Sambucuccio e suo alter ego anche nella vita pubblica; era originario di Evisa nella pieve di Vallerustie, nella Corsica nordorientale e non del villaggio di Evisa nel Pumonte, a Nord-Ovest).
La partenza di Giovanni Boccanegra e la morte di Simone (1363) modificarono la situazione. I signori passarono all’offensiva, obbligando Sambucuccio e Franceschino di Evisa a tornare a Genova per richiedere con urgenza un nuovo governatore. Si trattava di Triadano della Torre da Portovenere, che giunse nell’isola diversi mesi più tardi. Organizzò l’azione antisignorile dei popolari corsi, e riprese la distruzione dei castelli, ma in un clima di violenti contrasti (lotta di fazioni tra Ristignacci e Caggionacci) che portò diversi anni più tardi al suo assassinio (fine 1372 o inizio 1373). La sua morte ridiede fiato alle speranze degli aristocratici, ma provocò anche una nuova sollevazione popolare nei luoghi culla della rivolta. I rivoltosi si misero agli ordini di Sambucuccio e di Franceschino di Evisa, e intrapresero un’offensiva verso il Sud dell’isola. In questo frangente, Sambucuccio tornò ancora una volta a Genova per reclamare l’invio di un nuovo governatore; la sua presenza è attestata da un atto notarile (30 agosto 1373). Il nuovo doge acconsentì e inviò Giovanni Magnerri, che non riuscì peraltro, in una situazione estremamente tesa, a pacificare l’isola. Questa del 1373 è l’ultima notizia disponibile sulla vita di Sambucuccio di Alando.
La scarsità documentaria – per non dire l’opacità – che caratterizzarono la vita e l’attività politica di Sambucuccio hanno favorito il consolidarsi, nella memoria collettiva corsa, di una sorta di mitologia storiografica. Forse per il frequente uso retrospettivo della locuzione «vivere a popolo e comune», che il cronista Giovanni della Grossa riferisce all’XI secolo verosimilmente come proiezione mitica regressiva degli eventi del 1357-58, lo storico corso tardosettecentesco Giovanni Paolo Limperani ha avallato il più grave anacronismo che ha caratterizzato l’Ottocento storiografico corso: l’anticipazione al 1000 circa dell’attività di Sambucuccio e del movimento popolare del quale egli fu, secondo la tradizione, il capo carismatico. A causa di Giovanni Villani, poi, un altro storico corso – questa volta di inizi Novecento –, Raoul Colonna de Cesari Rocca, ha inoltre spostato al 1347 gli eventi del 1357-58, errore evidentemente di minor gravità.
Inoltre, per un più subdolo fenomeno di costruzione ideologica, Sambucuccio è diventato, nella cultura popolare corsa, l’incarnazione stessa di una sorta di regime comunitario ancestrale, a causa dello scivolamento semantico del concetto di Terra del comune, la paternità del quale fu attribuita solo a lui, visto come l’eroe di una libertà corsa fuori del tempo e di un comunismo insulare idealizzato. Ma all’opposto, il robusto legame politico tra Genova e Sambucuccio ha fatto sì che la sua azione fosse oggetto di una vera e propria damnatio memoriae nel Settecento, al tempo della guerra dei Quarant’anni, quando era egemone l’interpretazione apologetica contenuta nella Giustificazione della rivoluzione di Corsica, pubblicata nel 1758 a Napoli da Gregorio Salvini.
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