SALVI, Giovanni Battista, detto il Sassoferrato
SALVI, Giovanni Battista, detto il Sassoferrato. – Nacque il 25 agosto 1609 a Sassoferrato, nell’entroterra di Ancona, quarto di cinque fratelli, da Tarquinio Salvi e da Vittoria di Lutio Loli, unitisi in matrimonio il 5 maggio 1601 nella parrocchia di S. Facondino (Cecchetelli Ippoliti, 1896).
Furono pittori sia il padre, probabilmente il suo primo maestro, di cui restano rovinatissime Storie di s. Francesco affrescate nelle lunette del chiostro della chiesa di S. Maria della Pace a Sassoferrato, sia il nonno Francesco, lo zio Silvestro e il figlio di costui, Francesco (Vitaletti, 1911). Tarquinio possedeva, inoltre, una fabbrica di maioliche nel quartiere detto ancora oggi la Vasaria presso la chiesa di S. Maria del Piano, e la giovanile familiarità con quest’arte potrebbe aver determinato in seguito le particolari qualità tattili e il colore brillante e smaltato di Salvi, le cui immagini dipinte sembrano forgiate in una materia concreta e plasmabile. Ugualmente determinanti per la sua formazione furono i modelli del naturalismo seicentesco, soprattutto Orazio Gentileschi e Giovanni Francesco Guerrieri, che Sassoferrato poté studiare nella sua città natale e nella vicina Fabriano. Contemporaneamente Salvi si dava allo studio delle stampe italiane, soprattutto di ambito raffaellesco e classicista, e nordiche, dalle quali derivò molte delle sue composizioni.
Le caratteristiche fondamentali del suo stile appaiono già definite nell’Annunciazione del monastero di S. Chiara a Sassoferrato, da considerarsi la sua prima opera nota, databile intorno alla metà del terzo decennio del Seicento, e saggio giovanile dell’attitudine di Salvi a far propri modelli più antichi rendendoli moderni attraverso modifiche più o meno percettibili; si tratta infatti di una derivazione, preparata da un disegno nella Royal Library di Windsor Castle, da un affresco di Giovanni Antonio da Pesaro ancora presente nello stesso monastero, ancorché ridotto a frammento.
La presenza di Salvi a Roma è documentata per la prima volta nel 1629, quando egli abitava con Antonio Barbalonga in casa del Domenichino nella parrocchia dei Ss. Vincenzo e Anastasio, nel rione Trevi (Roma, Archivio storico del Vicariato, Ss. Vincenzo e Anastasio, Stati delle anime, 1629, f. 137r), dove già nella primavera del 1630 non risulta più presente (Cavazzini, 2010, p. 56); il breve alunnato presso il Domenichino, già supposto da Luigi Lanzi (1809, 1968, I, p. 369), poté rafforzare, attraverso l’esempio della Madonna con Bambino in trono e i ss. Petronio e Giovanni Evangelista (Roma, Galleria nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini) ultimata da Domenico Zampieri proprio nel 1629, la già spiccata tendenza arcaizzante di Salvi e l’uso di superfici levigate di colore compatto, avviandolo al contempo all’esercizio del disegno dal vero. Il soggiorno romano, iniziato probabilmente già l’anno precedente, potrebbe essere stato favorito da Torquato Perotti, membro di una nobile famiglia di Sassoferrato e cameriere segreto di Urbano VIII, ipotesi sostenibile anche sulla base di un’annotazione di Pierfrancesco Ferretti, erudito sassoferratese della prima metà dell’Ottocento, a una lettera di Girolamo Ricci del 1623 ai priori di Sassoferrato, pubblicata da Guido Vitaletti (1911, 1990, p. 38): «1623, si fa conoscere che il sig. Torquato Perotti era intimo familiare di Urbano VIII, presso cui si recò Giambattista Salvi, nell’anno 1628».
Nel decennio successivo Salvi tornò nelle Marche, o più probabilmente viaggiò di frequente tra le Marche e Roma, incrociando Perugia nel suo percorso. La Civica raccolta d’arte di Sassoferrato conserva una monumentale pala d’altare con la Madonna col Bambino e i ss. Antonio abate e Filippo Neri proveniente dalla chiesa dell’Ospedale di S. Antonio abate, riconoscibile nella descrizione di Ferretti in una lettera ad Amico Ricci del 2 febbraio 1829 (Macerata, Biblioteca comunale Mozzi Borgetti, ms. 1067 (II), c. 580/11).
La pala, pur non perfettamente risolta in alcune parti, forse di altra mano, dimostra come Salvi avesse già assorbito la lezione del classicismo del primo Seicento, da Annibale Carracci a Domenichino a Guido Reni, e come già in questo momento precoce egli avesse maturato una particolare sensibilità luministica nella resa dei dettagli e delle superfici, nonché un profondo interesse per la rappresentazione del paesaggio, spesso presente anche in seguito negli sfondi dei suoi dipinti e definitosi attraverso lo studio costante di modelli fiamminghi e di Claude Lorrain. Il gruppo sacro nella parte superiore della tela è ripreso letteralmente da un’invenzione raffaellesca nota attraverso una redazione di scuola di Giulio Romano, già in S. Francesco a Sassoferrato (Milano, Pinacoteca di Brera), molto venerata e copiata dai pittori locali, un prototipo che Salvi replicò in varie occasioni sia singolarmente, come nelle versioni di Burghley House a Stamford, collezione privata del marchese di Exeter, e del Museo nazionale [Rijksmuseum] di Amsterdam, sia in contesti più complessi, come nello sfondo del più tardo Ritratto del cardinale Angelo Francesco Rapaccioli (Sarasota, Florida, The John and Mable Ringling museum of art).
Allo stesso momento, circoscrivibile all’inizio del quarto decennio, appartiene la Crocifissione con la Vergine e s. Giovanni Evangelista, di ispirazione raffaellesco-reniana, in deposito presso la Civica raccolta d’arte dalla chiesetta rurale di S. Ermete a Castagna presso Sassoferrato, dipinta probabilmente nel 1633 «per affetto e per ricordo a una sorella che si era sposata con uno del luogo» (Anselmi, 1892, p. 96), cioè per il matrimonio della sorella maggiore Aleandra con il sassoferratese Clemente Galli; resta tuttavia aperta l’ipotesi che l’opera sia stata eseguita per un’altra delle sorelle di Giovanni Battista, Livia o Virginia, di cui però non si conoscono le date delle nozze né la provenienza dei mariti. Salvi trattò il tema del Cristo crocifisso in pochi altri casi, come nella singolare invenzione del Cristo crocifisso tra un angelo e s. Giovanni evangelista (Urbino, Galleria nazionale delle Marche), o nella Maddalena ai piedi della croce in una collezione privata russa, ma lavorò intensamente sul tema, come dimostrano quattro disegni della Royal Library di Windsor e l’Angelo adorante della Fondazione di studi di storia dell’arte Roberto Longhi, probabile frammento da una composizione più grande. Per gli aspetti di arcaismo ispirato a modelli della pittura marchigiana cinquecentesca, a questa fase potrebbe appartenere anche uno dei capolavori di Salvi, l’Adorazione dei pastori (Napoli, Museo di Capodimonte), opera di grande impegno e di religiosità profonda e accostante, paragonabile, anche per il rustico e immediato realismo, all’arte del contemporaneo Francesco Cozza.
Il carattere retrospettivo della pittura di Salvi e la sua attenzione per i modelli raffaelleschi e perugineschi – attestata, ad esempio, dal Compianto sul Cristo morto (Berlino, Staatliche Museen), tratto dal disegno di Raffaello (Louvre, Département des arts graphiques) con una prima soluzione statica, poi scartata, e ispirata al Perugino per il Trasporto di Cristo della Galleria Borghese, o dalle repliche pittoriche e grafiche tratte dalla Sacra Famiglia Canigiani – favorirono il suo inserimento a Perugia, dove, a quel tempo, vi erano ancora vari dipinti dei due maestri da poter studiare e copiare. Il gruppo di opere più cospicuo si trova tuttora nell’abbazia di S. Pietro, dalla quale fu requisita dai francesi solo la reniana Immacolata Concezione (Parigi, Museo del Louvre) e dove Salvi dovette lavorare a più riprese nel quarto decennio: tra il 1632 e il 1637, al tempo del suo primo mandato come abate del monastero benedettino, Leone Pavoni gli commissionò varie copie della Madonna del Giglio, un’immagine ad affresco molto venerata attribuita allo Spagna, una delle quali ancora in chiesa, e nel 1639 il pittore firmò la copia del Trasporto di Cristo di Raffaello, di cui riprese anche due dei tre scomparti della predella con la Fede e la Carità. I dipinti perugini sono citati per la prima volta da Giovan Francesco Morelli nel 1683 (p. 52), quando Salvi era anziano ma ancora in vita.
Le altre tele del gruppo derivano da vari modelli: quattro dei santi a mezzobusto – Mauro, Placido, Scolastica, Giustina – sono tratti dalla predella del grandioso polittico realizzato da Perugino per la zona absidale, in seguito smontato, Apollonia è una copia da Timoteo Viti, Maria Maddalena da Tintoretto e Agnese da una stampa di Ventura Salimbeni (Macé de Lépinay, 1976). Altri tre santi, il bellissimo Benedetto, Barbara e Caterina, pur rispecchiando genericamente modelli di Reni e Domenichino, sembrano essere invenzioni personali del pittore, come la Giuditta con la testa di Oloferne, preceduta da un grande disegno preparatorio a matita nera su carta cerulea della Royal Library di Windsor Castle. Nella chiesa perugina si trova anche un interessante esempio di originale rielaborazione da un modello raffaellesco: nell’Annunciazione Salvi riprende fedelmente l’angelo e la Vergine dallo scomparto sinistro della predella della pala Oddi, allora in S. Francesco al Prato, costruendo autonomamente l’interno spoglio che ospita le figure, aperto su un arioso paesaggio visibile da una finestra centrale.
La ricomparsa di Salvi a Roma è segnata nel 1641 dall’esecuzione della tela nota come Madonna appare a s. Francesco di Paola per il soffitto della sacrestia della chiesa dedicata al santo, di impostazione fortemente antibarocca, che nella versione autografa del Národní Muzeum di Praga presenta un magnifico inserto di paesaggio ispirato a Lorrain; l’opera fu pagata 60 scudi in tre rate (Pollak, 1928, p. 129) e fu poi menzionata da Filippo Titi (1674, p. 266) con l’attribuzione a un certo «Gioseppino», condannando l’autore a un precoce oblìo. La chiesa e il convento furono eretti a spese di Olimpia Pamphili principessa di Rossano (ibid.), che, in sostituzione di una Sacra Famiglia attribuita a Raffaello e donata nel 1636 al cardinale Antonio Barberini seniore (Vitaletti, 1911, 1990, p. 50), commissionò a Salvi una delle sue opere più famose, la Madonna del Rosario con s. Domenico e s. Caterina da Siena, per la chiesa domenicana di S. Sabina, pagata 40 scudi nel 1643 (Roma, Archivio Doria Pamphilj, 86/54, f. 26r), e altri dipinti tra cui una Sacra Famiglia e una Madonna orante nella Galleria Doria Pamphilj, già presenti nel 1650 nella «guardarobba» di Camillo Pamphili suo marito (De Marchi, 2016, pp. 338 s.).
Il tema della Sacra Famiglia, in semplici composizioni a tre figure, fu tra i prediletti dal pittore, che ne studiò diverse varianti tutte di sua invenzione, tra le quali si possono menzionare le versioni del Castello di Sanssouci a Potsdam, del Musée Condé di Chantilly, del Museo di Ponce a Portorico e del Fitzwilliam Museum di Cambridge, che si distingue dalle altre per essere collocata all’aperto, sullo sfondo di un cielo al tramonto.
Gli anni Quaranta furono sicuramente i più intensi e fortunati della carriera dell’artista, in cui nacquero alcuni capolavori: il Matrimonio mistico di s. Caterina (Londra, Wallace Collection), commissionato dal duca Giuliano Cesarini per la chiesa di S. Maria della Cima a Genzano, eseguito verso la fine del decennio e studiato in un disegno nella Royal Library di Windsor Castle (Prosperi Valenti Rodinò, 2010, p. 31), che riecheggia nella composizione la Vergine col Bambino e s. Francesca Romana di Orazio Gentileschi (Urbino, Galleria nazionale delle Marche) e l’Annunciazione della parrocchiale di Casperia presso Rieti, forse databile al 1649, mirabile esempio di ‘arte senza tempo’ che riproduce, con sostanziali modifiche, la veneratissima immagine della fine del Trecento della chiesa della Ss. Annunziata a Firenze. Tra le opere di grandi dimensioni recentemente rese note è anche un’Ultima cena in formato orizzontale (Woburn Abbey) tratta da un disegno di Raffaello della Royal Library di Windsor Castle con la mediazione di una stampa di Marcantonio Raimondi.
In quegli anni Salvi abitava con la moglie, la bolognese Angela Mizzina, a Roma presso l’Arco dei Pantani, nel rione Monti (Ricci, 1834, p. 258), non lontano da Villa Aldobrandini a Monte Magnanapoli, di cui era proprietaria Olimpia Pamphili, nella parrocchia dei Ss. Quirico e Giulitta, dove fu battezzato il figlio primogenito Francesco, nato nel 1649; in seguito, dal 1658 al 1673, i coniugi sono documentati nella parrocchia di S. Salvatore ai Monti in via Baccina, nella stessa zona, e poi nella vicina via dei Serpenti, nella parrocchia di S. Francesco di Paola (Cavazzini, 2010). Salvi ebbe altri sei figli, Margherita Vittoria, Agata (morta poco dopo la nascita), Agnese, Alessio, Stefano e Agata; è probabile che alcuni di essi, in particolare Stefano, fossero a loro volta pittori e collaborassero con il padre.
Salvi fu anche eccellente ritrattista; coltivò questo talento sia nel disegno, come mostrano i quindici ritratti a matita nera e pastelli colorati della Royal Library di Windsor Castle, non destinati a una traduzione pittorica, sia nei grandi ritratti di ecclesiastici che in qualche caso furono anche acquirenti dei suoi quadri sacri: oltre al già citato Ritratto del cardinale Angelo Francesco Rapaccioli, personaggio legato alla cerchia barberiniana e noto collezionista che ottenne la berretta cardinalizia nel 1643, eseguì l’imponente Ritratto di monsignor Ottaviano Prati, vicario del cardinale Ippolito Aldobrandini, unico suo dipinto firmato, databile verso la fine degli anni Quaranta (Galleria nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini), e quello del cardinale Pietro Ottoboni, divenuto papa nel 1689 con il nome di Alessandro VIII, di stupefacente virtuosismo nella resa dell’impalpabile cotta bianca pieghettata e della seta scarlatta della mozzetta, sotto l’effetto della luce (Padova, Musei civici). L’autoritratto di Salvi, nella Galleria degli Uffizi, in cui dimostra circa quarant’anni, fu donato dal cardinale Flavio Chigi a Cosimo III de’ Medici nel 1683, quando il pittore era ancora vivente.
Con la stessa fedeltà con cui aveva replicato i modelli di Perugino, Raffaello o Andrea del Sarto, intorno alla metà degli anni Cinquanta Salvi imitò le Madonne di Pierre Mignard, un pittore classicista francese trasferitosi a Roma dal 1635 al 1656, servendosi delle stampe di François de Poilly (Boyer - Macé de Lépinay, 1981).
I numerosi disegni preparatori, eseguiti anche per dipinti a una sola figura, molto spesso quadrettati, sono prova del metodo meticoloso con cui Salvi elaborava le proprie opere, escludendo a quanto sembra la fase libera e ideativa degli schizzi.
Benché l’attività di Salvi a Roma sia stata intensissima, destando l’interesse di committenti prestigiosi, nessuna fonte coeva ne ha tracciato la biografia, con l’unica eccezione di un autore poco noto, Pietro de’ Sebastiani, che nel 1677 dette alle stampe un libretto tascabile con un compendio della guida di Roma del Titi, trasmettendo la notizia che Salvi vestiva l’abito di terziario francescano e che le sue opere erano «già in mano de molti principi grandi, più per la devozione che per l’arte» (pp. 72 s.).
In effetti la cospicua produzione di dipinti sacri di piccolo e medio formato destinati alla devozione privata e rappresentanti per lo più Madonne in moltissime varianti, tra le quali si deve almeno citare la Vergine col Bambino dormiente della Pinacoteca Estense di Modena, ha caratterizzato molta parte dell’attività di Salvi e della sua bottega e ha autorizzato il paragone istituito da Lanzi (1809, 1968, I, pp. 178, 368) con il fiorentino Carlo Dolci. Pur rispondendo alle richieste del mercato seicentesco, questa specialità di Salvi e della sua bottega romana era anche dovuta alle origini provinciali del pittore e alla sua profonda fede religiosa, che la moderna riscoperta sottace a favore della dimensione internazionale della sua fortuna, iniziata tuttavia solo a partire dal Settecento. Per la maggior parte di queste immagini sacre, spesso di qualità notevole, è quasi impossibile ipotizzare una scansione cronologica, tanto che Hermann Voss (1924) ne propose una classificazione su base iconografica, sostanzialmente valida ancora oggi.
Morì a Roma il 1° agosto 1685 e fu sepolto in S. Francesco di Paola.
Fece testamento il 29 luglio lasciando agli eredi la somma non irrilevante di 1500 scudi, ma l’inventario dei suoi beni (Cavazzini, 2010) fa presumere una modesta condotta di vita, forse in linea con le sue convinzioni religiose; i dipinti rimasti nella bottega subirono complicate vicende ereditarie, e attraverso l’ultima erede, Agnese Salvi Veronici giunsero in parte a Sassoferrato, dove li vide Lanzi nel 1783, e furono in seguito dispersi.
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