salvezza
Nel senso teologico s. significa la liberazione dal peccato e il conseguimento del bene ultimo nell'al di là, per opera della grazia. La soteriologia, problema fondamentale nel cristianesimo, nasce dalla concezione biblica della natura umana decaduta per il peccato originale e incapace di redimersi con le proprie forze. S. significa perciò un'infusione di grazia, condizionata da una preparazione dell'uomo, il cui atto primo è la fede, radice della giustificazione.
Con il battesimo l'anima, incorporata nel Cristo, riceve i frutti della redenzione, fa parte della Chiesa ed è chiamata ad attuare l'opera della propria salvezza. Fonte della giustificazione e della s., cioè la causa efficiente principale, è Dio; la causa meritoria è il Cristo redentore; il battesimo è la causa strumentale; la grazia santificante, che viene da Dio e ci rende giusti, è la causa formale. Dio ha promesso all'uomo di salvarlo: nel Vecchio Testamento Mosè e i profeti, per uscire dal peccato, raccomandano l'osservanza della legge (Deut. 4, 1; 6, 4; Lev. 18, 5; Ezech. 18, 5), la fede in Dio e nel Messia, la circoncisione quale segno introduttivo nello stato di giustizia. Tutto il Vangelo è un annunzio della s.: il Cristo è venuto per i peccatori (Matt. 9, 13; Marc. 2, 17), egli è il salvatore (Matt. 1, 21; Luc. 2, 25). La dottrina della s. è esemplificata nelle parabole del buon pastore (Ioann. 10, 1), della pecorella smarrita (Luc. 15, 3), della dracma ritrovata (15, 8), del figliuol prodigo (15, 11), e nei personaggi chiamati alla grazia: dalla Maddalena (Luc. 8), alla Samaritana (Ioann. 4), a Zaccheo (Luc. 19), al buon ladrone (Luc. 23).
I padri latini svilupparono l'aspetto giuridico della s., seguendo i testi paolini e chiarendo i concetti di colpa e di pena, di espiazione e di merito, mentre i padri greci posero in luce gli aspetti mistici della s., con richiami ai passi di s. Giovanni e preferendo valutare in sé stessa l'efficacia dell'incarnazione, da cui deriva in noi e la liberazione della colpa e la nostra salvezza.
La scolastica, considerata la natura umana incapace di risorgere da sé dopo il peccato, meditò sull'azione redentrice del Cristo, secondo s. Paolo: " Unus enim Deus, unus et mediator Dei et hominum homo Christus Iesus " (I Tim. 2, 5). S. Anselmo (v.) nel Cur Deus homo? accoglie l'indirizzo giuridico ed esamina come il peccato abbia turbato l'ordine divino. La giustizia non poteva essere riparata che attraverso queste vie: quella della pena proporzionata alla colpa, quella della soddisfazione o riparazione, quella del condono per atto di misericordia. Non essendo possibile un'eguaglianza tra Dio e l'uomo non ci poteva essere un accostamento eguale tra peccato e soddisfazione. Dio interviene: riconduce l'uomo nella grazia con la giustizia e con la misericordia, per mezzo dell'incarnazione e della passione di Cristo.
Questo è ‛ il magnifico processo ' che D. celebra nel canto VII del Paradiso: la storia umana è la storia della s.; si ristabilisce l'ordine violato per la colpa di Adamo mediante la presenza e l'opera del Verbo, che unisce a sé tutti gli uomini nel corpo mistico (I Corinth. 12, 12; Ephes. 1, 22; 2, 15; 4, 15). Per questo D. ritorna di continuo sul rapporto dell'ordine naturale con l'ordine soprannaturale, della natura con la grazia, ponendosi il problema della s. in tutto l'arco della storia, ante e post Christum natum. Il mistero della passione e del Cristo e della s. appare in If IV 53-54, quando nel Limbo dei santi padri discende un possente / con segno di vittoria coronato, quando D. immagina che lì sia visibile il documento della morte di Cristo per lo sconvolgimento della struttura infernale e la frana di un ponte, in conformità al passo di s. Matteo (27, 51-52), " et petrae scissae sunt ". Così il mistero della passione si prolunga nella sesta bolgia, gl'ipocriti calpestano i responsabili della morte di Cristo, Giuda è maciullato nella bocca di Lucifero. Rivive la vita del Cristo nelle singole cornici del Purgatorio con le brevi rievocazioni della natività, dello smarrimento al tempio, delle nozze di Cana; Cristo è invocato dagl'iracondi con l'Agnus Dei e dai superbi con il Pater Noster. Forese dice a D. che la pena si trasforma in gioia perché quelli che espiano pensano alla passione: io dico pena, e dovria dir sollazzo, / ché quella voglia a li alberi ci mena / che menò Cristo lieto a dire ‛ Elì ', / quando ne liberò con la sua vena (Pg XXIII 72-75). E nella processione mistica del Paradiso terrestre il carro è tratto dal grifone alato che rappresenta il Cristo nelle due nature umana e divina, nell'unica persona del Verbo (c. XXIX).
Nel Paradiso D. esalta, nel discorso di Giustiniano, l'Impero di Roma che entrò nell'ordine provvidenziale e divenne strumento nella redenzione (VI 82-90); glorifica l'incarnazione, e l'umanità redenta (c. VII), le piaghe della passione, cioè il sigillo impresso dal Cristo nelle membra di s. Francesco. Il volto di Cristo traspare in un balenio di luce nell'emblema della croce che attraversa il cielo di Marte, in mezzo ai martiri che formano insieme l'unico corpo del grande martirio (XIV 97-108); riappare poi nel grande trionfo del cielo Stellato (c. XXIII); rivive come memoria nel ricordo del Volto Santo, veduto nella basilica di s. Pietro (XXXI 103-108); appare infine nel simbolo dei tre cerchi al termine della visione: il poeta guarda più a lungo il cerchio secondo, dove ne traspare l'immagine (XXXII 127-132).
Nella Commedia, che è il poema della s. dell'uomo D. e dell'umanità, la dottrina della giustificazione, della redenzione, della salute eterna trova frequenti riscontri nei passi scritturali, nei testi di s. Anselmo e nella sistemazione ideologica di s. Tommaso (Sum. theol. III 46-48). Questo ricapitola gli elementi della soteriologia partendo dal Cristo uomo-Dio, capo del corpo mistico, che per motivi di amore si offrì alla morte di croce, così che la redenzione umana si attuò secondo le esigenze della giustizia divina. Per l'umanità, per la libera volontà, per l'immolazione del Cristo l'uomo è stato liberato dal reato di pena e di colpa e riconciliato con Dio. Resta, tuttavia, il fatto più importante per raggiungere la s.: come poter conoscere il pensiero di Dio e chi ci dà la sicurezza di non errare. Risponde D.: Avete il novo e 'l vecchio Testamento, / e 'l pastor de la Chiesa che vi guida; / questo vi basti a vostro salvamento (Pd V 76-78). Nella Monarchia (III XVI 10) il poeta riconfermò il suo pensiero: opus fuit homini duplici directivo secundum duplicem finem: scilicet summo Pontefice, qui secundum revelata humanum genus perduceret ad vitam aeternam.
Questi sono i punti fermi dell'Alighieri, ma c'è ancora un largo spazio dove la disputa è possibile, dove gli angoli visuali sono molteplici e i teologi provenienti da varie scuole tentano di penetrare nel mistero con propositi, opinioni, idee che costituiscono le sentenze sub iudice e che non formano la dottrina della Chiesa, la quale assicura l'individuo che ci sono due certezze: il dominio di Dio sull'uomo e il libero arbitrio, non separate da un abisso, ma teologicamente congiunte dalla superiore certezza che Deus charitas est.
Il problema teologico della s. ex parte Dei, studiato nelle Scritture, sembra chiaro nell'enunciato se lo si consideri nella rivelazione; egualmente si dica se lo si esamini ex parte hominis, guardando nell'uomo la sua fede e le sue opere. Ma l'argomento diviene non più comprensibile all'intelletto, quando si affronta il problema della causalità divina, riguardo all'essere e all'operare delle creature, che non hanno né possono avere un'azione indipendente dall'influsso divino. L'ente finito non può esistere da sé stesso, se gli viene a mancare l'atto creativo e l'atto conservativo di Dio; le cause create agiscono come cause strumentali, e quindi subordinate a Dio, causa principale. Se l'uomo in ordine essendi et in ordine operandi è subordinato a Dio e alla sua decisione, che senso può avere la libertà umana? " Sicut palmes non potest ferre fructum a semetipso nisi manserit in vite, sic nec vos, nisi in me manseritis... quia sine me nihil potestis facere " (Ioann. 15, 4). E se viene a mancare il libero esercizio della volontà non ha più significato né il merito, né il demerito e, in definitiva, il premio e il castigo. Questo apparente conflitto tra quelli che i teologi chiamano iura Dei, in quanto Dio è il motore universale, e iura hominis (l'uomo è libero nelle sue scelte), costituì il grande tema della disputa alle origini del cristianesimo contro l'eresia pelagiana, una disputa divenuta più forte ed estesa nella scolastica, anche all'età di D., per la ricerca di un accordo tra la Bibbia e il mondo aristotelico-tomistico.
Com'è ovvio, le difficoltà metafisiche sulla libertà della creatura razionale sembrano in contraddizione con l'efficacia della mozione divina. Siamo in quella pienezza del mistero, in cui interviene la teologia per chiarire i termini del problema e dimostrare la non repugnanza della ragione a credere negli assiomi delle verità rivelate. La discussione o controversia giunge al suo limite, quando trattando il problema della s. avvertiamo di essere già dentro a quello della predestinazione. Effetto della predestinazione è la s., che procede da Dio come causa prima. È di fede che ciascuno è responsabile, nei limiti consentiti alla sua natura, dei propri atti, e se sarà dannato, nonostante gli aiuti sufficienti, che Dio a nessuno nega, è colpevole e inescusabile. Chi è salvo, in quanto ha ricevuto dall'alto la grazia efficace e il dono della finale perseveranza, non può insuperbire perché la s. è un dono gratuito. Dio vuole tutti salvi, ma non tutti si salvano: allora la sua volontà salvifica è inefficace? Dio distribuisce i suoi doni secondo il suo beneplacito: ma come mai una disparità e un gruppo di diseredati e una categoria di privilegiati?
La risposta di D. sul problema della s. è contenuta nella storia di tutti i personaggi della II e III cantica. Nel Purgatorio le anime espiano, ma sono destinate alla s. eterna: una chiave di più ampia larghezza nel giudicare il poeta l'affida ai lettori, presentando anche quelle che nessuno avrebbe pensato salve, in base alle loro azioni abituali e ai fatti più noti della loro vita. Intanto veniamo a conoscere che per la s. eterna è necessario essere in grazia (grazia santificante) al momento della morte. Nella vita le anime spesso sono passate dal peccato alla grazia e dalla grazia al peccato, ma al momento di ascendere alla visione di Dio si richiede che siano libere da ogni impedimento di peccato grave. Le colpe veniali o le pene per le colpe maggiori non soddisfatte in vita saranno espiate, sino alla completa purificazione, in Purgatorio. Veniamo a conoscere la validità di alcune pene canoniche, come la scomunica che ha il suo peso nell'eternità, con una permanenza nell'Antipurgatorio di trenta volte il tempo della contumacia, in cui l'anima è rimasta fuori dal seno della Chiesa, e che il pentimento, anche in extremis manifestato nel pianto, come in Manfredi (Pg III) in segno di contrizione, è sufficiente per la s.; che una lagrimetta (questo nell'ironia del demonio), cioè un pentimento e l'invocazione alla Vergine salva Bonconte (c. V); che le pene dell'aldilà sono abbreviate per le preghiere dei viventi (XI 31-33). Anche l'angelo portinaio, che custodisce la porta del Purgatorio e ha ricevuto le chiavi da s. Pietro, dice che l'Apostolo gli ha detto che è meglio sbagliare per indulgente amore che serrare la porta alle anime per esagerato rigore pur che la gente a' piedi mi s'atterri (IX 129). Il poeta apprende da Marco Lombardo che il male e la corruzione non dipendono dall'influsso delle stelle, ma dal volere umano e dalla confusione dei due poteri, spirituale e temporale (XVI 25-114). Con la topografia spirituale e l'ordinamento delle pene del Purgatorio (XVII 79-139), il poeta delucida l'argomento sulla natura dell'amore e sul valore del libero arbitrio (XVIII 1-75). Il valore dell'anima umana, creata direttamente da Dio, e il suo destino dopo la morte (XXV 61-108), la dichiarazione di Virgilio che in D., dopo la visione del secondo regno, è nato l'uomo nuovo (XXVII 139-142), sintetizzano il punto supremo del valore della libertà morale. Il poeta dovrà confessare ancora la sua colpa a Beatrice, tornata là nel Paradiso terrestre, e bere le acque purificatrici del Lete e dell'Eunoè.
Nel Paradiso il problema della s. è più complesso, in quanto la cantica, diretta a coloro che conoscono la teologia, si avvale dei testi spesso più ardui dell'indagine dei padri e degli scolastici, sulle ragioni ultime dell'operare umano e del volere divino. Il dogma della fede sull'incarnazione (Pd VII), il rapporto tra le inclinazioni naturali e i valori personali, per cui esistono le differenze tra i padri e i figli (VIII 85-148), la presenza (inattesa) di Cunizza e della meretrice di Gerico (IX 13-66, 109-126), la pace intellettuale tra avversari nelle dottrine teologiche (s. Tommaso elogia Sigieri [X 133-138], s. Bonaventura l'abate Gioacchino da Fiore [XII 139-141], gli avvertimenti del poeta a non giudicare affrettatamente sulla s. delle anime (XIII 130-142), i combattenti per la fede glorificati come martiri (XVIII 22-51), il monito ai re cristiani che mostrano di conoscere il Cristo meno degl'infedeli e i cui nomi sono già scritti nel libro dei reprobi (XIX 106-148), confermano come il poeta aveva presente, a ogni passo, la dottrina sulla salvezza. La visione della candida rosa, illustrata da s. Bernardo, nella quale il poeta vede il disegno di Dio: i santi del Nuovo Testamento, i credenti nel Cristo venturo (XXXII 1-39), i bambini che in diversi modi ricevettero la grazia divina e la s. prima e dopo la redenzione (vv. 40-84), la ricapitolazione degl'interventi della grazia nell'ultimo canto della Commedia, con l'inno alla Vergine (XXXIII 1-39), e la mistica ascesa alla contemplazione del mistero trinitario e del mistero dell'incarnazione, benché all'alta immaginazione vengano a mancare le forze, creano in D. la perfetta pace interna, in una concordia tra il desiderio e l'azione, tra l'intelletto e la volontà, come avverrà nella vita eterna. Ma nella terza cantica, in cui gli spiriti sono stati salvati, D. vuol portare a termine quel problema a cui si è accennato, parlando del disegno di Dio e del libero arbitrio e sviluppando il più grande argomento che aveva sollecitato in lui, fin dall'inizio del poema, una risposta: la s. dei pagani.
Salvezza dei pagani. - L'argomento pone in questione il giudizio di Dio, per cui sembra che ci siano, ante praevisa merita, i respinti e i predestinati, in base al principio del battesimo e della fede. La questione ha una sua logica, una volta annunciato il Vangelo e avvenuta la promulgazione della legge di Cristo; ma tale logica, almeno in apparenza, sembra in contrasto con sé stessa, se il medesimo criterio di giudizio per la s. viene applicato a tutte le età della storia, prima dell'incarnazione. Per il mondo ebraico, in quanto c'era stata l'attesa del Messia, il discorso aveva una sua validità in ordine alla s., ma per il mondo greco-romano e per i popoli fuori della romanità non c'era un possibile avvio di speranza da prendere in considerazione?
Uno schema orientativo sulla questione, secondo D., è che per i pagani vissuti rettamente, secondo l'osservanza della legge naturale, vi è il Limbo (v.); per gl'infedeli che non conobbero la legge evangelica né osservarono la legge naturale, vi è la condanna nell'Inferno. Per i pargoli innocenti ebrei vi è la s. in virtù della fede dei loro genitori, per gl'infanti morti senza il battesimo esiste il Limbo. Il poeta ammette il Limbo e conosce la tesi di s. Tommaso in proposito. Distingue l'esistenza del Limbo dei padri, di cui fecero parte gli ebrei giusti prima della resurrezione di Cristo, dal Limbo degl'infanti destinato per coloro che muoiono senza battesimo. Il Limbo è " quasi contiguus " all'Inferno, il luogo è meno tenebroso, poiché la colpa degl'infanti è minore. Il Limbo dei padri ebbe, tuttavia, la speranza della vita beata. D. immagina un Limbo, simile a quello degl'infanti, per gli adulti giusti che osservarono la legge, ma non ebbero il battesimo. Mentre per s. Tommaso, teoricamente, vi era una possibilità di s., per vie misteriose, anche per gl'infedeli negativi, D. interpretò la Bibbia ad litteram, secondo la sentenza di gran parte degli esegeti. I passi scritturali non ammettono eccezione: " Qui crediderit et baptizatus fuerit salvus erit " (Marc. 16, 15); " Nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non potest introire in Regnum Dei " (Ioann. 3, 5).
La parola Limbo, entrata nell'uso della teologia dopo Pietro Lombardo, veniva a togliere gli equivoci sorti con l'uso dell'ebraico šě'ôl, del greco Ἄζης, del latino infernus, designando un luogo ben preciso all'orlo del mondo infernale per le due categorie di persone sopra accennate. Il Cristo aveva portato con sé alla vita beata, dopo la resurrezione, le anime del Limbo dei padri. La sua discesa agl'Inferi era stata reale e non metaforica, come aveva scritto Abelardo, condannato per tale proposizione nel 1215 dal IV Concilio Lateranense. Le notizie teologiche sul Limbo sono molto concise e non affrontano estesamente l'argomento della s. dei pagani. Nelle quaestiones disputatae i teologi proponevano una propria sentenza, che restava nell'ambito personale dell'indagine, non essendovi nulla di esplicito nelle Scritture e nella tradizione. La sentenza dantesca rimane entro questi confini; essa parte da un dato sicuro, l'esistenza del Limbo custodito, forse, da un Messo celeste (v.), poi sceglie una sua strada, come avveniva in tante altre questioni - per esempio sui problemi della colpa e dell'espiazione - confortando l'ipotesi, assolutamente ortodossa, con le parole della Bibbia. La sentenza tuttavia rimane opinabile, come si è detto, nello sviluppo e nelle conseguenze da essa derivate.
Pietro Lombardo, s. Alberto Magno, s. Tommaso, s. Bonaventura erano i grandi maestri citati anche come auctoritates; le tesi contrarie, in materia opinabile, non erano considerate condannabili, né tanto meno eretiche.
D. ebbe una libertà nel creare sistematicamente e poeticamente il Limbo, non minore di quella che ebbero i pittori e i mosaicisti nelle chiese, in ambienti liturgici, con le loro interpretazioni visive delle scene del Limbo come nei mosaici di Torcello, di Monreale, di Dafnì, o nell'affresco della chiesa inferiore di San Clemente a Roma. Il poeta non conobbe, quasi certamente, né il Pastore di Erma, che aveva ammesso che i giusti del Vecchio Testamento sarebbero stati battezzati nel Limbo per essere accolti nel regno dei cieli, né gli Stromata (VI 6) di Clemente Alessandrino secondo cui nel Limbo, al momento della discesa di Gesù, vi erano dei giusti pagani, persone illuminate viventi in grazia, credenti nel redentore futuro. D. tuttavia doveva risolvere il problema della tradizione romana e della missione provvidenziale di Roma, e perciò gli era difficile concedere che coloro che avevano salvato il mondo (Pd XXVII 61-62) non erano stati salvati. Già nel Convivio aveva parlato di due popoli privilegiati, l'ebraico e il romano; il primo preparò l'avvento della Chiesa, il secondo l'Impero. Ai profeti ebrei corrisposero, in qualche modo, le sibille, ai martiri per la fede gli eroi caduti per la fondazione di Roma, la città che ebbe per volere divino spezial nascimento, e... processo (IV IV 14), divenuta poi lo loco santo (If II 23). A questo è collegata la venerazione che il poeta ebbe dei più grandi personaggi della storia romana; alla celebrazione che ne fa nel Convivio (IV V) fa riscontro quella del VI del Paradiso, in cui la presenza di Dio in loro è visibile com'è visibile nel movimento dell'aquila che svolge un disegno voluto dall'alto. Accettata la tesi rigorista, D. istituisce e crea su di un terreno aperto alla visualizzazione poetica, con immagini trasferite in controllato linguaggio simbolico, un posto ideale per i suoi personaggi con l'edificazione fantastica di un ambiente tutto racchiuso e a sé stante, formato da un castello, da un fiume, da un prato, modellati e coloriti come una preziosa miniatura. C'è come un esplicito diritto di queste anime a non essere confuse con le altre, in virtù della loro magnanimità, cioè di un insieme di opere virtuose, che valevano a collocarle già in una posizione distinta per egregie imprese e per la coscienza del proprio valore. Ciò si dovrà dire anche di coloro che esercitarono al massimo le virtù cardinali: gli spiriti magni, i megalopsicoi dell'Etica Nicomachea, poeti e filosofi che coltivarono la sapienza e raggiunsero una grande fama; essi provenivano dal mondo antico, dal regno delle scienze e dalla tradizione degli Arabi e dei maomettani, come Avicenna, Averroè, Saladino. Costoro devono essere onorati e nel vederli D. si esalta (If IV 120). Questa posizione di privilegio è l'unica conveniente alla rinomanza da loro guadagnata in terra, con proprio merito.
D. sentì di non poter disperdere, senza fare un torto alla stessa giustizia divina, questo patrimonio di dottrina e di meriti umani, acquisiti sul piano naturale, con le virtù dell'intelletto e con l'azione. Ma queste anime non poté incontrarle sulla strada della s., né riuscì a collocarle in una prospettiva di grazia soprannaturale; benché mite, nella loro pena permangono le conseguenze della loro condizione di limbicoli, separati dalla via che porta alla beatitudine. Fedele alla sua tesi, D. non salva neppure Virgilio, benché sembra che nella Commedia lo vada via via portando verso il limite di una possibile salvezza. Virgilio per volere di Dio - forse perché anima naturaliter christiana e perché presaga dell'età nuova della fede - era stato inviato a soccorrere D., ricevendo in dono l'intelligenza delle realtà cristiana tanto da restare come guida anche nel Purgatorio, dove il più profondo dei discorsi cristiani - il discorso della montagna - gli si era aperto avanti agli occhi, ma non più sufficiente a mutare il suo destino, ormai fisso a quello stabilito nel momento della sua morte. Con la sua opera Virgilio aveva fatto di Stazio un poeta cristiano, e quanto avesse giovato a D. uomo e poeta lo testimonia l'intero poema. Virgilio per aver solo il peccato originale non cancellato dal battesimo, e per non aver adorato Dio debitamente (secondo il culto cristiano dovuto alla divinità) rimase estraneo alla lex credendi in quanto non conoscente e ignaro (If IV 37-39, Pg VII 25).
Il peccato originale, formalmente, è la privazione della grazia santificante, materialmente, è la ribellione dei sensi alla ragione. L'atto del peccato fu di Adamo (peccato personale), ma a quell'atto rimane connesso lo stato di peccato (peccato di natura) che perdura in lui e nella natura umana. Il peccato originale non è punito, come gli altri peccati, nell'Inferno perché nei posteri non è volontario di volontà individuale (Tomm. Sum. theol. I II 82; De Malo 4). Il peccato originale, secondo Pietro Lombardo, comporta la privazione dei doni soprannaturali e la vulnerazione delle facoltà naturali (il libero arbitrio). L'uomo è stato vulnerato nella sua integrità con quattro ferite: nella ragione, nella volontà, nell'appetito irascibile, nell'appetito concupiscibile. Potrà Dio risollevare un'umanità così destituita dei suoi doni; potrà, per un " libero gratuito e misericordioso intervento ", come afferma nel suo preciso studio il Pasquazi, " preparare una salvezza degli spiriti magni con l'irrompere di un amore che ha preparato le sue strade lungo tutta la storia dell'umanità, aprendo all'uomo questa soprannaturale speranza? ". Una tale s. per le anime pagane del Limbo non è affermata e neppure esclusa. Tutte le anime rimangono sospese.
Si viene così creando nel poema il più grande dramma dell'uomo, il dramma del mondo antico in attesa della giustizia finale. I personaggi della latinità e le figure del mondo greco nella loro sorte problematica acquistano un fascino di alta moralità e poesia. Comunque, la sicurezza di una porta che è stata già aperta, anzi varcata misteriosamente per volere divino, esiste e D. pone tra le persone salve due personaggi pagani; l'uno glielo suggerisce Virgilio: Rifeo (v.) troiano, l'altro la tradizione ecclesiastica: Traiano (v.).
D. non discute né la tesi della fede esplicita o implicita, né la tesi dei pagani credenti de bona fide alle false divinità, né quanto si poteva ricavare dalla tradizione e che si esprimerà, più tardi, nella distinzione tra l'anima e il corpo della Chiesa, per cui i pagani che agirono rettamente verranno inclusi nell'anima della Chiesa, considerando la Chiesa nella sua estensione invisibile, anche al di là dei suoi confini visibili. Con la sua concezione del Limbo D. accentuò il carattere di soprannaturalità della visio Dei non concessa come debito alla natura, ma epilogo del rapporto fra l'uomo cristiano con il suo fine ultimo.
I due personaggi presentati da D., l'uno vissuto prima, l'altro dopo l'era cristiana, appartengono allo stesso dramma della salvezza. Furono pagani, ma uscirono di vita cristiani ed entrambi per la fede nel mistero della redenzione, quel d'i passuri e quel d'i passi piedi (Pd XX 105). Virgilio, che vive in desio e sanza speme, aveva reclinato la fronte davanti al mistero dei limiti della ragione (Pg III 37-45). L'aquila che riferisce il senso dei testi di s. Paolo sulla giustificazione, apre questa speranza (Pd XIX). Per la s. di Traiano, perché personaggio vissuto nella pienezza della storia, D. doveva preparare il lettore al singolare e miracoloso intervento. Perciò i superbi contemplano nel bassorilievo del Purgatorio (Pg X 73-96) l'episodio della vedovella e la clemenza di Traiano, come un exemplum già entrato a far parte del mondo cristiano.
La leggenda, nata un secolo dopo s. Gregorio Magno, si trova in un'omelia attribuita a s. Giovanni Damasceno. Venne poi inserita nella vita di s. Gregorio da Paolo Diacono e riportata nel 1159 da Giovanni di Salisbury nel suo Policraticus, ripresa dalla cronaca di Helinand, quindi nello Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, e, infine, nel Fiore de' filosofi e molti savi e nel Novellino. Circa il concetto della s. è importante l'impostazione che ne dà s. Tommaso (Sum. theol. Suppl. 71 5 ad 5). Egli pone il quesito " Utrum suffragia prosint existentibus in inferno ". Riconosce il testo del Damasceno, noto in tutto l'Oriente e l'Occidente, e risolve la difficoltà riferendo due ipotesi intorno all'episodio di Traiano: " quod precibus beati Gregorii ad vitam fuerit revocatus, et ita gratiam consecutus sit, per quam remissionem peccatorum habuit, et per consequens immunitatem a poena; sicut etiam apparet in omnibus illis qui fuerunt miraculose a mortuis suscitati, quorum plures constat idololatras et damnatos fuisse. De omnibus enim similiter dici oportet quod non erant in inferno finaliter deputati, sed secundum praesentem iustitiam propriorum meritorum. Secundum autem superiores causas, quibus praevidebantur ad vitam revocandi, erat aliter de eis disponendum.
Vel dicendum, secundum quosdam, quod anima Traiani non fuit simpliciter a reatu poenae aeternae absoluta, sed eius poena fuit suspensa ad tempus, scilicet usque ad diem iudicii. Nec tamen oportet quod hoc fiat communiter per suffragia: quia alia sunt quae lege communi accidunt, et alia quae singulariter ex privilegio aliquibus conceduntur; sicut alii sunt humanarum limites rerum, olia divinarum signa virtutum, ut Augustinus dicit, in libro de Cura pro mortuis agenda ".
Per D., nell'episodio della clemenza e nella glorificazione dell'imperatore nell'occhio dell'aquila, non si salva solo Traiano ma si giustifica il fatto religioso dell'arcanum dell'Impero (di cui aveva parlato anche Tacito) e della pietas, virtù propria della massima istituzione romana: Romanum imperium de fonte nascitur pietatis (Mn II V 5). Le anime formanti l'aquila esaltano sia il segno imperiale e le due note caratteristiche, la giustizia e la pietà. Con la s. di Traiano Dio concede a un rappresentante dell'Impero la pietas, nel senso soprannaturale, e la grazia, più che per la sua missione di giustizia osservata, per l'efficacia della preghiera di papa Gregorio (Pg X 75). La preghiera ottiene l'evento miracoloso, il ritorno in vita di Traiano, perché questi possa conseguire la grazia e credere. Il miracolo è ammesso, ma s. Tommaso avverte la difficoltà di un'interpretazione: " hoc modo potest probabiliter aestimare ". Egli cerca di far rientrare il caso di Traiano nella legge o regola generale, per cui non è possibile salvarsi senza il battesimo. Sicché D., anche con la s. di Traiano, è coerente alla sua tesi rigorista, lasciando tuttavia aperta l'efficacia dell'intercessione e della speranza cristiana. Egli riporta tutto l'argomento (anche la sorte ultima di Catone [v.]) a quella condizione di attesa e di parziale conoscenza che si risolverà soltanto alla fine dei tempi, e questo per conservare all'imprescrutabile mistero della s., portato in un così ampio disegno di verità e di poesia, il suo giustificato clima di mistero. Ma bisognerà non forzare troppo l'argomento, quasi che l'indagine dantesca sia esclusivamente teologica: " la figurazione rispecchia il poetico mito degli affetti della esperienza intellettuale... poiché la forma è per Dante il riflesso storico come la sociale consacrazione dell'attività eroica dell'intelligenza, e in quanto tale ha qualcosa di religioso e di provvidenziale " (G. Getto).
Il poeta sentiva una sua ansietà umana e cristiana, stretta tra l'urgenza di una soluzione, e la consapevolezza che una risposta non poteva esistere altro che rifugiandosi nel concetto di un Dio giusto, in cui la giustizia non può essere in contraddizione con sé stessa, e in un Dio misericordioso, nella cui misericordia non può non esserci la soluzione del problema. D. si trovò come a un bivio tra la civiltà terrena dell'età greco-romana e gli acquisti e le certezze soprannaturali del cristianesimo. Proprio con il tema del Limbo, partendo da una rappresentazione poetica, come ben vide il Montanari, degli antichi pagani e dei valori conquistati dai sapienti, egli non rinnegò le affermazioni del Convivio, ma riprese il discorso nel quadro di una visione d'arte, in un clima senza dubbio più alto in cui i limiti della natura umana possono coesistere nel nobile castello con la luce di una gloria, dovuta umanisticamente alla cultura, mentre si acuisce, teologicamente, nei confronti degli antichi pagani, il dramma dell'ordine soprannaturale, il mistero della s. e della grazia.
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