SAMPERI, Salvatore
SAMPERI, Salvatore. – Nacque a Padova il 26 luglio 1943, figlio di Ignazio e di Camilla Pippa.
Crebbe in un ambiente agiato e maturò molto giovane la passione per il cinema accanto a quella politica. Anziché proseguire negli studi universitari nella sua città natale, prima in legge, come avrebbe preferito il padre, poi in lettere e filosofia, a diciannove anni lasciò Padova e si trasferì a Roma, vincendo il concorso al Centro sperimentale di cinematografia dove restò per un anno e mezzo. Contestualmente, grazie all’interessamento dell’avvocato e giurista Giorgio Moscon, anch’egli padovano e molto attivo anche in ambito cinematografico, fu assistente volontario di Marco Ferreri, «l’unica persona dei ‘vecchi’ del cinema – secondo Samperi – che mi ha dato una mano» (L’avventurosa storia del cinema italiano..., 1981, p. 422), in tre film, tra cui Marcia nuziale (1966), il solo in cui si vide accreditare il nome nei titoli di coda come segretario di edizione. L’esperienza anche nel campo dei documentari industriali contribuì a completare il suo iter formativo prima di esordire a soli venticinque anni nel lungometraggio di finzione con il folgorante Grazie, zia (1968).
L’opera prima di Samperi si collocava dichiaratamente nel solco dell’ormai paradigmatico I pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio, a livello recitativo, tematico, stilistico e produttivo, malgrado le differenze che i due enfants prodiges avrebbero evidenziato nel corso delle rispettive carriere. I pugni in tasca e Grazie, zia condividevano innanzitutto il protagonista, Lou Castel, nonché lo stesso produttore Enzo Doria, lo stesso montatore Silvano Agosti (accreditato in entrambi i casi con uno pseudonimo: in quello di Samperi come Alessandro Giselli), lo stesso musicista Ennio Morricone. A riprova di questa immediata somiglianza Stefano Incerti nella colonna sonora del suo documentario su Bellocchio Stessa rabbia, stessa primavera (2003) inserì Guerra e pace, pollo e brace, il brano musicale portante del primo lungometraggio di Samperi. L’altro brano del film che ne accentuava il sostanziale impegno contro la guerra e l’indifferenza collettiva verso la tragica disuguaglianza sociale nel mondo era l’indignata Filastrocca vietnamita cantata da Sergio Endrigo. L’impressionante esito commerciale del film, a fronte del modesto budget, all’incirca di trentacinque milioni, nasceva però più che dalla forte intransigenza sul piano conflittuale e politico, da una carica erotica concentrata voyeuristicamente sul corpo e sul temperamento sfrontato dell’interprete femminile Lisa Gastoni, che contribuì addirittura con qualche milione per l’acquisto della pellicola pur di aiutare un regista di talento alle prime armi.
Da subito, dunque, pur richiamandosi a Luis Buñuel, Joseph Losey, Ken Russell o, in Italia, ad Alberto Lattuada e al quasi coetaneo Bellocchio, contrapponeva alla tenuta del nucleo domestico borghese, ma anche alla sostenibilità per lo spettatore di un modello di cinema politico e militante convenzionale o di facciata, una propensione alla fruizione come compiacimento morboso, insita nel dispositivo cinematografico. Lo si comprende tra le righe dalla programmatica sequenza inaugurale dell’ancora più crudele e, a prima vista, più politicizzato Cuore di mamma (1969) con Carla Gravina. Film di cui firmò la sceneggiatura assieme a Dacia Maraini, come nel successivo Uccidete il vitello grasso e arrostitelo (1970), il cui impianto giallo faceva da contraltare alla satira verso il bersaglio prediletto: l’improbabile, sciagurata compagine familiare borghese. In anticipo sulle parabole marcatamente erotiche degli anni Settanta e Ottanta, dal principio, in misura variabile ma sistematica, ebbe cura di reiterare l’atto immaturo e ossessivo del guardare, spiare, desiderare, assecondando una prospettiva prettamente maschile.
Dopo la tiepida accoglienza riservata dal pubblico ai suoi due film oscillanti tra il grottesco e il comico interpretati dall’attore veneziano Lino Toffolo, Un’anguilla da 300 milioni (1971) e Beati i ricchi (1972), importante anche per la presenza di Paolo Villaggio, giunsero i titoli più noti e fortunati al botteghino: primo tra tutti Malizia, uscito nello stesso anno in cui sposò a Roma Francesca Bardella, il 1973, cui seguirono nel 1974 e nel 1981 i consimili Peccato veniale e Casta e pura. Gli incassi impressionanti specialmente di Malizia, vincitore nel 1974 di tre Nastri d’argento (a Laura Antonelli come migliore attrice protagonista, a Turi Ferro come migliore attore non protagonista e a Piero Tosi per i costumi), e di Peccato veniale innescarono un nutrito filone ‘alla Samperi’, che annovera, sin dal titolo, Grazie... nonna (1975) di Marino Girolami. Sebbene Antonelli fosse intanto assurta a icona sensuale assoluta del cinema italiano di quegli anni, il sodalizio tra i due si interruppe con il flop del sequel forzato Malizia 2000 del 1991. Fu anche l’ultimo film dell’attrice, segnata sul piano fisico da gravissimi e irrimediabili risvolti di interventi di chirurgia estetica, al centro di una complicata, lunga e dolorosa vicenda processuale in cui fu coinvolto anche il regista patavino.
La linea di demarcazione che spesso si volle cogliere nella sua filmografia tra un ‘prima’ e un ‘dopo’ Malizia venne subito sconfessata dal diretto interessato: «Sono sempre stato incoerente. E confuso. Anche come autore di film. Comunque non credo di essere stato un autore che lavorava sul linguaggio, che sentiva delle speciali esigenze di rinnovamento linguistico e tecnico. Semmai, al contrario, ho sempre tentato di adattare il linguaggio alle mie storie. Mi sento più un narratore che non un innovatore di tecniche. Tutto sommato, perciò, il mio modo di fare cinema è sempre stato piuttosto tradizionale. Di conseguenza la mia carriera, da Malizia in poi, non mi fa pensare a un brusco mutamento di rotta, né a un ritorno indietro. Di diverso, probabilmente, c’è soltanto l’ottica sotto cui adesso affronto i film. Prima di Malizia ho realizzato dei film solo per me e per gli ‘addetti ai lavori’, senza ottenere nessuna attenzione, o quasi, da parte del pubblico. Da Malizia in poi mi ci son messo d’impegno per raggiungere un pubblico più vasto. E questo anche perché, realizzando film di costo più elevato, sentivo il dovere di allargare il pubblico cui destinarli» (Rondi, 1975, pp. 155 s.).
Fondamentale fu nell’insieme l’apporto di attrici emblematiche dei gusti di generazioni diverse e contigue di pubblico, a prescindere dal contesto scelto o dal genere praticato: da Gastoni, che tornò a dirigere al fianco di Franco Nero in Scandalo (1976), alla prevalente Antonelli, incluse negli anni Gravina, Barbara Bouchet (Liquirizia, 1979), Sylvia Kristel (Un amore in prima classe, 1980), Lara Wendel (Vai alla grande, 1983), Monica Guerritore (quasi debuttante nel 1973 in Peccato veniale, protagonista in Fotografando Patrizia, 1984) e Florence Guérin (La bonne, 1986).
Circondandole di un nugolo assortito di maschi patetici, tragicomici, giovanissimi o anziani, senza grandi differenze in fatto di erotomania, Samperi ribadiva come alla maturità fisica, parentale e spesso anagrafica della donna guardata corrispondesse per il principio della proporzionalità inversa l’immaturità del soggetto sedicente virile, inguaribile guardone.
Nella seconda metà degli anni Settanta l’autore attinse anche alla letteratura. In Nené (1977) ed Ernesto (1979), tratti rispettivamente dai romanzi omonimi di Cesare Lanza e Umberto Saba, si riconciliò occasionalmente con critici, studiosi e storici, i quali non gli avevano peraltro mai negato un talento fuori dal comune, semmai rimproverato l’uso che ne faceva. Per Ernesto, nonostante l’insuccesso, il protagonista Michele Placido vinse a Berlino l’Orso d’argento per la migliore interpretazione maschile. Poi, con una mossa a sorpresa, Samperi compì un’operazione abbastanza inedita cercando ispirazione nel repertorio fumettistico. Nacquero così Sturmtruppen (1976), che al regista causò ventiquattro denunce per vilipendio, e il tardivo sequel Sturmtruppen 2 – Tutti al fronte (1982) che trasferivano al cinema, mediante l’appropriato uso di sequenze lunghe, la forma della caustiche strisce antimilitaristiche di Franco Bonvicini (in arte Bonvi), anche protagonista del primo dei due titoli.
Superato un periodo di quasi inattività, tra la seconda metà degli anni Ottanta e tutto il decennio seguente, si dedicò esclusivamente alla televisione, quando ancora non era propriamente un titolo di merito per un regista di cinema. Dirigendo la prima stagione della miniserie L’onore e il rispetto (2006) seppe invece ancora collaudare un oggetto del desiderio, questa volta maschile, e su misura per il piccolo schermo, Gabriel Garko, che diresse ancora in un’altra serie di successo, Il sangue e la rosa (2008), infine nella seconda stagione di L’onore e il rispetto trasmessa a settembre del 2009, postuma.
Morì a Viterbo il 5 marzo 2009.
Fonti e Bibl.: D. Maraini - S. Samperi, Cuore di mamma, Milano 1969; D. Luce, Grazie Malizia, intervista a S. Samperi, in L’Europeo, 12 aprile 1973; L. Micciché, Il cinema italiano degli anni ’60, Venezia 1975, pp. 272-275; G.L. Rondi, 7 domande a 49 registi, Torino 1975, pp. 155-159; L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, a cura di F. Faldini - G. Fofi, Milano 1981, pp. 422 s., 431, 442, 454; Il cinema italiano d’oggi raccontato dai suoi protagonisti 1970-1984, a cura di F. Faldini - G. Fofi, Milano 1984, pp. 215 s., 322, 332 s.; le voci di S. Masi, in Cinema & Film, a cura di T. Chiaretti - L. Lucignani, VII, Roma 1988, p. 1992; di L. Pellizzari, in G.P. Brunetta, Dizionario del registi del cinema mondiale, III, Torino 2006, pp. 261 s.; G.P. Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da “La dolce vita” a “Centochiodi”, Roma-Bari 2007, pp. 291 s.