ROSA, Salvatore
– Nacque a Napoli il 21 luglio 1615 (Conte, 2010, p. 183), e fu battezzato nella chiesa di S. Maria del Soccorso all’Arenella (Passeri, ante 1679, 1934, p. 385). Suo padre, Vito Antonio De Rosa (questa la forma del cognome attestata nelle carte che riguardano la famiglia e la giovinezza dell’artista), è ricordato dalle fonti come architetto (ibid.) o agrimensore (De Dominici, 1743, 2008, p. 409). Sua madre, Giulia Greco, apparteneva a una famiglia di pittori: suo padre Vito e suo fratello Domenico Antonio avevano una bottega alla Carità (L. Salazar, Salvator Rosa ed i Fracanzani. Nuovi documenti, in Napoli nobilissima, XII (1903), pp. 119-123).
Rimasto orfano del padre nel 1621, Salvatore crebbe affidato al nonno materno, formandosi poi presso le Scuole pie appena fondate a Napoli da Giuseppe Calasanzio. Il pittore entrò nel noviziato dell’Ordine il primo agosto del 1630, con il nome di Salvatore di S. Pietro (Epistolario di S. Giuseppe Calasanzio, a cura di L. Picanyol, IV, 1952, p. 255), ma al contrario del fratello Giuseppe (rimastovi, e divenuto poi sacerdote con il nome di Domenico) ne uscì meno di un anno dopo, il 20 marzo 1631.
Il 7 settembre 1632, diciassettenne, si definiva pittore, e diceva di abitare presso lo Spirito Santo, testimoniando al processetto matrimoniale della sorella Giovanna, la quale si sposava con il pittore Francesco Fracanzano (Salazar, 1903, cit.). È questa l’unica traccia documentaria che permetta di legare la formazione del giovane Rosa a un pittore (appena) più maturo. Seppur in modi leggermente diversi, le antiche biografie (Passeri ante 1679; Baldinucci, 1728; Pascoli, 1736; De Dominici, 1743) identificano in Fracanzano il primo vero maestro di Rosa, e quindi il tramite verso la bottega di Ribera, dove avrebbe conosciuto Aniello Falcone. Mentre è indubbio che entrambi questi artisti abbiano avuto un influsso diretto e cruciale sulla sua formazione, non esiste alcuna evidenza documentaria (e nessuna stretta necessità stilistica) che obblighi a credere a un formale rapporto di discepolato presso Ribera, e di condiscepolato con Falcone. È comunque, questo della formazione, il nodo principale tra quelli tuttora insoluti dagli studi rosiani.
De Dominici, per dar conto del carattere innovativo della sua prima produzione pittorica, racconta che Rosa, ancor prima di diventare cognato di Fracanzano, «andava sopra una barchetta, in compagnia di un giovanetto di circa 16 anni, chiamato Marzio Masturzo, scolaro di Paolo [Greco, altro fratello di sua madre Giulia], per disegnar massimamente le vedute della bella riviera di Posillipo e quelle verso Pozzuoli, quasi tanti esemplari prodotti dalla natura. Sicché disegnando con le vedute anche coloro che per via passavano o che andassero sulle barche, o che stassero fermati nel lido, venivano a formare un disegno nel suo genere compiuto, e benché Salvatore non avesse ancora l’intelligenza necessaria a ben disegnare, dava però a quelle figurine un certo spirito, accompagnato da tanta grazia (ch’era in lui naturale) che innamoravano chiunque le vedeva» (1743, 2008, III, 1, p. 410).
La critica ha connesso alla fase aurorale della sua produzione pittorica un nucleo di Marine (Volpi, 2014, p. 9 nota 31) che, pur ricordando lo stile di alcuni importanti interlocutori contemporanei (su tutti Filippo Napoletano), presentano nondimeno una nuova e originale inclinazione, che impone a paesaggi e a figure un carattere insieme monumentale e astratto, rinunciando a ogni dimensione aneddotica.
De Dominici (1743, 2008, III, 1, pp. 426-428) vede nella asserita frequentazione della bottega di Falcone la radice del dissenso di Rosa verso la società, inventando, o almeno caricando in sommo grado, una sorta di cruenta resistenza antispagnola capeggiata da Falcone e animata dai suoi molti allievi (la leggendaria Compagnia della Morte). Che, d’altro canto, Falcone lasciasse un’impronta decisiva sul Rosa degli anni Trenta, lo dimostra un primo gruppo di dipinti di battaglie (Volpi, 2014, p. 23). È proprio di Rosa – si consideri, per esempio, il quadro con Armigeri a riposo del Musée des beaux-arts di Bordeaux – estremizzare il tipo falconiano della ‘battaglia senza eroi’, arrivando a lasciare la mischia fuori dal quadro, e innalzando momenti e uomini del tutto antieroici contro cieli lampeggianti. Secondo Passeri (ante 1679, 1934, p. 386), Rosa «portava questi suoi quadri alli bottegari rivenditori delle altrui pitture, e glieli dava per quel prezzo che poteva, purché ne avesse cavato le spese delle tele, delli colori e per lo suo vitto». È in quest’ambiente che Giovanni Lanfranco avrebbe notato, e dunque accreditato, le primizie rosiane, inducendo il giovane a divenire «desideroso di Roma» (ibid.). In una lettera del 1666 (Lettere, a cura di G.G. Borrelli, 2003, n. 330), Rosa afferma di mancare dalla patria da «ormai 31 anno... », e in effetti Passeri lo dice «venutosene a Roma nel 1635, dentro una feluca sottile» (ante 1679, 1934, p. 386).
Per un’attestazione documentaria bisogna però aspettare due anni: Salvatore è inequivocabilmente registrato negli Stati delle anime della parrocchia romana di S. Maria in Via solo nella Pasqua 1637 (Bartoni, 2010, p. 410). Nonostante che, nella stessa lettera del 1666, egli scriva: «io da quel tempo in qua non vi son mai più tornato», un pagamento trasmesso da Roma a Napoli nel settembre 1637 sembra indicare che avesse fatto ritorno, almeno temporaneamente, in patria. A pagarlo era Niccolò Simonelli, guardarobiere del cardinale napoletano Francesco Maria Brancacci, al cui servizio Rosa era subito entrato, probabilmente grazie alla mediazione del sacerdote napoletano Girolamo Mercuri, dilettante e intendente di pittura legato a Brancacci, suo amico dal 1633 (Lettere, cit., n. 222). È possibile che quel pagamento vada connesso al Tizio tormentato dall’avvoltoio che secondo Passeri (ante 1679, 1934, p. 388) Rosa mandò a Simonelli da Napoli. Il quadro – oggi noto solo attraverso un’incisione di metà Settecento – venne esposto da Simonelli al Pantheon nel marzo del 1638 (Farina, 2010, p. 21), e accompagnato da un’intensa campagna promozionale tesa a far dimenticare il «Salvatoriello» che evidentemente aveva vissuto nella tipica bohème dei giovani artisti stranieri a Roma, e a imporre invece un «Demostene della pittura» (questo il titolo di un foglio volante a stampa, che non ci è pervenuto).
La campagna di Simonelli ebbe pieno successo: da qui decolla la fama dell’artista. Nell’ottobre di quel 1638 questi è documentato ancora a Napoli (ibid., pp. 31 s.), ma subito dopo raggiunge a Viterbo il cardinal Brancacci, nominatone vescovo. Qui conobbe il poeta Antonio Abati, e qui eseguì, tra l’altro, una pala d’altare: la non felicissima Incredulità di s. Tomaso per S. Maria dell’Orazione e Morte (oggi al Museo civico). Sempre alla mediazione di Brancacci si deve probabilmente la commissione di altre due pale d’altare, per la cattedrale di Fabriano (ancora in loco). Ma il suo successo è soprattutto nella pittura di paesaggio: al 1639 deve risalire la magnifica Veduta del golfo di Salerno eseguita per Filippo IV di Spagna (oggi al Museo del Prado), la cui commissione fu forse ancora mediata dalla bottega di Falcone, attivissima per la Corona iberica. Al 1640 data un’altra commissione di un sovrano: fu Francesco I d’Este a ottenere tre paesaggi per la reggia di Sassuolo (due in loco, uno a Cleveland, Museum of art). Nel frattempo – nell’inverno e nella primavera del 1640 – Rosa si era dedicato al teatro, dove si era frontalmente scontrato con Gian Lorenzo Bernini e con il poeta e impresario Ottaviano Castelli (Passeri, ante 1679, 1934, pp. 389 s.; Dickerson, 2012).
Deve risalire al massimo all’autunno del 1640 la svolta biografica decisiva, ovvero l’ingresso in una corte principesca: quella di Giovan Carlo de’ Medici, fratello del granduca di Toscana Ferdinando II e, dal 1644, cardinale. La cronologia del trasferimento a Firenze è resa stringente dal fatto che, intorno al 18 giugno 1641, Rosa ebbe un figlio, Rosalvo, dalla fiorentina Lucrezia Paolini (1620 circa-1697).
Quella con l’amatissima «Signora Lucrezia» (come Salvatore la chiama sempre nelle sue lettere) fu la relazione della vita, resa difficile dal fatto che ella era già sposata. Per sfuggire ai conseguenti rigori del S. Uffizio e per le continue difficoltà economiche, i due fecero la sofferta scelta di esporre alla ruota degli innocenti i quattro figli successivi (nati nel 1649, 1651, 1653, 1655: cfr. Lettere, cit., nn. 31, 112, 171, 189).
Non conosciamo le circostanze oggettive (non abbiamo un carteggio che attesti le modalità dell’invito mediceo) e soggettive del trasferimento a Firenze: difficile, dunque, confermare o escludere che Rosa volesse soprattutto sottrarsi alle conseguenze delle sue inimicizie romane. In ogni caso, il fatto che egli scrivesse la sua prima satira – la Musica, tutta concepita come una feroce critica della politica culturale della corte papale – proprio tra 1640 e 1641 (Satire, a cura di D. Romei, 1995, p. 28) induce a credere che fosse spinto dalla delusione e dal disgusto provocati dall’esperienza romana. D’altra parte, è accertato che fino al 1648 Giovan Carlo gli versò uno stipendio di otto scudi mensili, paragonabile a quello di un aiutante di camera, oltre a pagargli il fitto di una casa fiorentina (alla Croce al Trebbio) e a compensarlo per ogni quadro (Fumagalli, 2007, p. 40).
Per i Medici Salvatore monumentalizzò i suoi quadri di genere. Dipinse per il salone principale del casino in via della Scala di Giovan Carlo la Marina del faro e la Marina del porto (1641), le sue opere di maggiori dimensioni oggi note, e per l’appartamento del granduca a palazzo Pitti l’enorme Battaglia tra turchi e cristiani (1642). In queste opere, le esplicite allusioni ai principi committenti aiutano a comprendere come Rosa cercasse di adeguare alla retorica di corte generi nati per il mercato: con un risultato particolarmente felice, anche nella condotta scioltissima. Tra le varie pitture medicee va segnalata almeno la rarissima decorazione ad affresco che nel 1645 egli realizzò, insieme a Pietro da Cortona, nel mezzanino della Muletta, quartiere di Pitti abitato da Giovan Carlo: un vertice di straordinaria freschezza.
Ma a Firenze Rosa non lavorò solo per la corte. Altre opere poi confluite nelle raccolte medicee (come le Tentazioni di s. Antonio e la celebre Menzogna, entrambe da datare tra il 1645 e il 1648) sembrano legate alla fitta rete di relazioni con pittori, letterati, uomini di teatro, intendenti ed eruditi fiorentini e toscani.
Scrive il testimone oculare Filippo Baldinucci che «la casa, che egli aveva presa a pigione dal canto de’ Cini presso la Croce al Trebbio, [...] era in brevi giorni divenuta un’accademia delle più belle facultadi, l’abitazione della giocondità e ’l mercato dell’allegrezza. Quivi ragunavansi per ordinario a virtuose conferenze di materie amenissime il dottore Evangelista Torricelli, insigne matematico, il letteratissimo Carlo Dati, Giovambattista Ricciardi, Valerio Chimentelli professore celebre di umanità nello Studio di Pisa, il molto erudito Andrea Cavalcanti, il dottor Berni, Paolo Vendramini, [...] Giovan Filippo Apolloni, aretino, insigne poeta drammatico per musica, Volunnio Bandinelli, poi cardinale, Piero Salvetti, rinomato per la vivezza di suo ingegno, e letteratura, [...] il dottor Paolo Minucci, [...] Francesco Rovai, celebre per le sue rime, Francesco Cordini, giovanetto allora di gentilissime maniere, amico delle buone arti, e ben parlante [...]; tantoché, in breve tempo radicatasi in quel luogo la bella conversazione, fu deliberato di darle forma di accademia, sotto nome de’ Percossi. Avvenne poi, che desiderando gli accademici di far godere anche al pubblico qualche reflesso de’ loro privati trattenimenti, deliberarono di fare in certi mesi dell’anno alcune bellissime e bizzarrissime commedie all’improvviso, per entro il palazzo, abitazione del serenissimo principe cardinale di Toscana, detto il casino da S. Marco» (Baldinucci, 1681-1728, 1847, pp. 451 s.; sui Percossi cfr. Conte, 2010).
La sociabilità culturale e accademica in cui Rosa si trovò inserito (e che comprendeva esponenti di famiglie aristocratiche come i Niccolini, o i Gerini) aiuta a spiegare il carattere di alcuni dipinti del periodo fiorentino: come i ritratti allegorici (la coppia formata dal Ritratto di filosofo alla National Gallery di Londra e dalla Poesia del Wadsworth Atheneum di Hartford; la Poesia e la Musica di palazzo Barberini); gli autoritratti letterari e teatrali (quello in armi e di profilo nella collezione del Monte dei Paschi di Siena; quello come Pascariello in collezione privata londinese) o filosofici (quello in atto di scrivere su un teschio, presso il Metropolitan di New York); e anche le celebri e discusse pitture di stregonerie (che iniziano con la strepitosa serie dei quattro tondi Niccolini, ora a Cleveland, Museum of art), il cui senso deve essere cercato all’interno di un orizzonte condiviso tra artista e committenti. Non si deve, tuttavia, immaginare che Rosa frenasse quello spirito critico che già l’aveva messo in difficoltà a Roma alla fine degli anni Trenta. La seconda satira, quella sulla Poesia, fa esplodere il dissenso («Tacer dunque io non vo ... / No, che tacer non vo...», Satire, cit., p. 72, vv. 37, 49) verso l’aspetto deteriore della vita delle accademie e dell’encomio letterario verso i principi.
Dal gennaio 1641 decorre il suo epistolario sopravvissuto (392 lettere indirizzate agli intimi amici toscani Giulio Maffei e Giovan Battista Ricciardi: raccolte in Lettere, cit.), un patrimonio assai raro per un artista del Seicento, preziosissimo non solo per conoscerne gli eventi biografici esterni, ma anche, e forse soprattutto, entrare nella sua vita interiore. Quel che ne esce è l’immagine di «un ingegno e di un’indole fuori dall’ordinario», per usare le parole che Benedetto Croce accostava alle Satire di Rosa (Salvator Rosa, in Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, 1924, p. 357). Proprio il tono di alcune lettere della primavera del 1646 induce a credere che il rapporto con i principi medicei fosse entrato in crisi, per ragioni che ignoriamo. Di fatto i libri di conti della corte non registrano pagamenti dopo il 1645, e sappiamo che «per lo spatio di tre anni» il pittore visse tra la Volterra dei suoi Maffei e varie ville private, lontano da Firenze (Fumagalli, 2007, p. 62). È in questo periodo di ritiratezza che scrisse probabilmente la satira sulla Guerra, in cui «denuncia la brutale violenza del potere ed esalta la figura di Masaniello, “un vile, un scalzo, un pescatore, un verme”» (Satire, cit., pp. 28 s.), e l’ode La strega (1646).
Era il 21 febbraio del 1649 quando Rosa poté scrivere di esser tornato a Roma, da dove sostanzialmente non si mosse più, abitando fino al 1667 in via Felice, nella parrocchia di S. Andrea delle Fratte.
Rammentando la riuscitissima operazione orchestrata da Simonelli dodici anni prima, anche ora Salvatore organizzò un rientro in grande stile sulla scena pubblica romana: l’esposizione al Pantheon, nel marzo del 1651, del Democrito in meditazione (oggi allo Statens museum for kunst di Copenaghen), un dipinto grande come una pala d’altare, ma contenente solo la figura di un filosofo immerso in un paesaggio lugubre, sopra una non meno lugubre natura morta di ossa. È una lettera del prezioso carteggio tra due amici di Rosa (Cosimo Brunetti e Ricciardi: Volpi - Paliaga, 2012, pp. 98 s.) a svelare il successo dell’operazione: «Pietro da Cortona era incantato [...] nessuno sapeva staccarsi dal guardo di quello, e pure, fra il numero di dugento quadri e più, ve n’erano almeno cinquanta di persone di grido [...]. Con quanto gusto vi sareste preso lo spasso che ho avuto io di sentire l’interpretazione di questo e di quello [...]. Chi diceva essere stata l’intenzione del pittore di dimostrare le calamità umane, chi d’insegnare l’operazioni della vita stoica, chi affermava che il pittore aveva preso per oggetto le parole di Ezechiele Ossa arida audite verbum Domini...» (25 marzo 1651).
Attraverso la puntuale presenza alle esposizioni Rosa cercò e rese saldo un rapporto con l’opinione pubblica – alimentato anche attraverso la poesia (la centrale satira sulla Pittura fu scritta probabilmente a partire dal 1650) e la partecipazione alle accademie – che appare uno dei suoi contributi più profondi e duraturi alla costruzione della figura dell’artista moderno. Questo corto circuito risulta esplicito in un passo della quinta satira in cui Rosa parla in prima persona, rivolgendosi alla personificazione del vizio che dà il titolo al componimento (l’Invidia, composta tra il 1652 e il 1654 anche se aggiornata fino al 1657: Satire, cit., p. 297): «Dipingo ciò ch’a l’onestà conviene, / ché con opere sordide non merca / a sé stesso gli applausi un uom da bene; / chi per via del bordello onor ricerca / s’incamina a l’infamia: io vo’ più tosto / che l’aura popolar mi sia noverca. / Ma per tornare a te, giammai discosto / non mi sei stata a la Rotonda un passo / quando vi fu qualche mio quadro esposto; ond’io che al tuo latrar mi piglio spasso, / acciò che dentro tu vi spezzi i denti / quest’anno non vi ho messo altro ch’un sasso» (vv. 532-543). Molto si è discusso sulla storicità dell’ultima affermazione, dal sapore quasi avanguardistico: davvero Rosa espose «un sasso» (un paesaggio roccioso, o il vero ‘ritratto’ di un sasso), oppure il totale silenzio di ogni altra fonte deve far pensare a un’iperbole letteraria (come inclina a credere Xavier F. Salomon, 2010, p. 85)?
Se il successo di Rosa pittore filosofo lo portò a una ricca produzione di parabole (sacre o tratte dalla storia classica: tra le quali il magnifico Belisario cieco e mendico per il letterato genovese Girolamo Panesio, e ora in collezione Sitwell a Renishaw Hall, Inghilterra: Volpi, 2014, n. 171), lo condusse anche ad accettare più tradizionali pale d’altare (per esempio l’Assunta per il cardinale Luigi Alessandro Omodei, già a Milano in S. Maria della Vittoria, e, in seguito alle requisizioni napoleoniche, ora in S. Thomas Aquinas a Parigi). Non per questo egli abbandonò i generi che l’avevano reso celebre in giovinezza: del 1652 è la grande Battaglia dell’Eurimedonte commissionatagli dal nunzio in Francia Neri Corsini per Luigi XIV e oggi al Louvre. All’ottobre del 1656 (Lettere, cit., n. 203) risale la notizia del primo nucleo delle Figurine, la serie con cui tornò a praticare l’incisione cui doveva essersi accostato nella giovinezza a Napoli, guardando al magistero di Ribera.
Al riconoscimento artistico fece da contrappunto, alla metà degli anni Cinquanta, una grave crisi della vita privata. Alla fine del 1655 l’attenzione del S. Uffizio verso il suo pubblico concubinaggio con Lucrezia lo spinse a cercare di ottenere l’annullamento del matrimonio di quest’ultima (Lettere, cit., nn. 192, 193), e, non essendoci riuscito, a far trasferire la compagna e il figlio Rosalvo a Napoli. L’amor familiare, la depressione e la rabbia ispirano una lettera a Ricciardi del febbraio 1656, che si deve considerare un contributo memorabile (il più alto di un artista del Seicento) alla storia della libertà di coscienza: «Se voi vedeste Rosalvo, che bell’indole l’ha mandata fuori, giubilareste, massime ne’ motivi della generosità e nel buon genio della pittura. [...] e la cordial compagnia di donne come la signora Lucrezia (se come la signora Lucrezia se ne hanno per il mondo, la qual cosa non credo). [...] E tutto questo nasce per timore di non incorrere in qualche disgrazia di carcere, in qualche becco fottuto di spia di Santo Offizio, che sia maledetto per mille volte l’anima di quello che l’inventò [...]. Vi prego dunque [...] a compatirmi, e credere che in tutto il corso di mia vita non mi son trovato mai in maggior laberinto e necessità di sollievo e consiglio, e se questa volta non mi fo certosino non è che un miracolo della misericordia del Cielo, che non mi voglia più coglione di quello che mi confesso d’essere. Oh signora Lucrezia, oh Rosalvo, o pace, quiete, o comodo, dove sete andati! Cazzo, almeno sapessi che veramente fusse così come me la contano questi quattro sbirri borricelli delle nostre coscienze, che facendo loro quello che più l’aggrada, vogliono che noi non facciamo quello che più ci piace» (n. 194). La vicenda conobbe una svolta tragica, quando pochi mesi dopo, nell’agosto del 1656, il quindicenne Rosalvo morì di peste, insieme al fratello di Salvatore che lo ospitava (Lettere, cit., n. 199). Due tra i risvolti figurativi di questa drammatica congiuntura figurano tra i vertici della produzione di Rosa: il Ritratto di Lucrezia (Roma, palazzo Barberini), tanto intenso da presupporre una profonda meditazione sulla pittura di Diego Velázquez, e la celebre Humana fragilitas (già Chigi, ora Cambridge Fitzwilliam Museum), delicata e toccante elegia che documenta un fitto dialogo sia con Nicolas Poussin sia con Bernini.
Il 18 maggio 1657 Rosa e Lucrezia decisero di tenere con loro l’ennesimo figlio, che venne battezzato con il nome di Augusto, in S. Marcello a Roma. Il padrino fu Girolamo Mercuri (Bartoni, 2012, p. 510).
Nel 1659 Rosa tornò a suscitare clamore attraverso le mostre del Pantheon: quell’anno espose la Fortuna (Los Angeles, Getty Museum), una trasparente satira della Curia, e in particolare del nepotismo dei Chigi: ma fu proprio Mario Chigi, il fratello del papa, a difendere l’artista dalle montanti accuse e polemiche (Haskell, 2000, p. 168). È a questo periodo che risale la Babilonia, amarissima satira sulla Corte pontificia.
Tra il 1661 e il 1662 circa eseguì una serie di cinque dipinti sacri per la cappella dell’amico Carlo de’ Rossi in S. Maria in Montesanto a Roma (oggi a Chantilly, Musée Condé): forse i più felici della sua intera produzione chiesastica. Al 1663 risale la Congiura di Catilina (Firenze, Museo di Casa Martelli), apice classico della sua pittura di storia; e alla stessa fase vanno ascritti alcuni dei suoi più importanti fogli incisi, tra i quali si possono citare l’audace Genio di Salvator Rosa e quello, evidentemente correlato, dell’Alessandro visita lo studio di Apelle, sorta di duplice manifesto circa l’indipendenza dell’artista di fronte al potere.
L’ultimo decennio della produzione pittorica di Rosa allinea soprattutto alcuni importanti paesaggi, progressivamente inclinati verso una visione romantica, contrastata e tendente al sublime: particolarmente impressionanti il Paesaggio con eremita (Épinal, Musée départemental d’art ancien et contemporain), quello con S. Antonio abate e s. Paolo primo eremita a Edimburgo (National Gallery of Scotland) o ancora quello con Tobia e l’angelo (Strasburgo, Musée des beaux-arts), e il visionario e tardo Empedocle si getta nella voragine (Hampshire, Lord Somer’s Collection).
Una celebre esplicitazione verbale di questo nuovo sentimento del paesaggio si trova nella lettera in cui Rosa racconta le sue impressioni durante una gita alle cascate del Velino, presso Terni: «il viaggio è stato assai più curioso e pittoresco di cotesto di Fiorenza, senza comparatione, attesoché è d’un misto così stravagante d’orrido e di domestico, di piano e di scosceso che non si può desiderar di vantaggio per lo compiacimento dell’occhio. Vi posso giurare che sono assai più belle le tinte d’una di quelle montagne che quanto ho veduto in tutto cotesto cielo di Toscana. La vostra Verucola (qual io stimavo di qualche orridezza) per l’avenire la chiamerò giardino, in comparazione d’una delle trascorse alpi. Oh Dio, e quante volte v’ho desiderato, quante volte chiamato alla vista d’alcuni solitarissimi romitorii veduti per strada, i quali se m’han fatto gola lo sa la fortuna. [...] Vidi a Terni (cioè quattro miglia for di strada) la famosa cascata del Velino, fiume di Rieti, cosa da far spiritare ogni incontentabile cervello per la sua orrida bellezza: per vedere un fiume che precipita da un monte di mezzo miglio di precipizio e inalza la sua schiuma altretanto» (Lettere, cit., n. 265).
Nel 1664 la persecuzione dell’Inquisizione tornò a farsi sentire, e Salvatore dovette nuovamente separarsi da Lucrezia, e da Augusto, per otto mesi (ottobre 1664 - maggio 1665: Bartoni, 2012, p. 510).
Le ultime lettere sono altrettante testimonianze intime di una salute declinante (ibid., nn. 373-392), così come la revisione dell’ultima satira (il Tirreno, compiuta tra il 1657 e il 1658, ma ripresa e ultimata dieci anni dopo: Satire, cit., p. 344) rivela il tono cupo che avvolge la precoce vecchiaia di Rosa.
Il 4 marzo 1673, in punto di morte, egli poté finalmente sposare Lucrezia, rimasta vedova (l’atto di matrimonio in Poesie e lettere edite e inedite..., 1892, II, p. 137).
Morì il 15 marzo, dopo aver ricevuto i sacramenti. L’atto di morte (ibid.) lo identifica come «Salvator Rosa a Neapoli, pictor egregius». Venne sepolto a S. Maria degli Angeli, in una tomba commissionata a Bernardo Fioriti dal figlio Augusto. Lì Lucrezia lo raggiunse il 15 gennaio 1697.
Opere. Le Satire: la prima edizione è Satire di Salvator Rosa dedicate a Settano, Amsterdam [ma Roma] 1694; oggi si leggono in Satire, a cura di D. Romei, commento di J. Manna, Milano 1995 (con rassegna delle edizioni precedenti).
L’epistolario è riunito in Lettere, raccolte da L. Festa, a cura di G.G. Borrelli, Bologna 2003, dove è accessibile la ramificata bibliografia delle prime edizioni di ogni missiva. Una sorta di ‘carteggio indiretto’ è in C. Volpi - F. Paliaga, «Io vel’avviso perché so che n’haverete gusto». Salvator Rosa e Giovan Battista Ricciardi attraverso documenti inediti, Roma 2012.
Fonti e Bibl.: La letteratura su Rosa è vastissima. Di seguito una selezione ragionata.
Bibliografie: U. Limentani, Bibliografia della vita e delle opere di Salvator Rosa, Firenze 1955, aggiornata in Id., Salvator Rosa: supplemento alla bibliografia, in Forum Italicum, VII (1973), 2, pp. 268-279. Sillogi di testi e documenti: Poesie e lettere edite e inedite di Salvator Rosa pubblicate criticamente e precedute dalla vita dell’autore rifatta su nuovi documenti, I-II, a cura di G.A. Cesareo, Napoli 1892; L. Ozzola, Vita e opere di Salvator Rosa, pittore, poeta, incisore, con poesie e documenti inediti, Strasbourg 1908. Le biografie antiche: G.B. Passeri, Vita di Salvator Rosa pittore e poeta (ante 1679), in Id., Die Künstlerbiographien, a cura di J. Hess, Leipzig-Wien 1934, pp. 385-400; F. Baldinucci, Notizie di Salvator Rosa pittore napoletano, in Id., Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua (1681-1728), a cura di F. Ranalli, V, Firenze 1847, pp. 437-503; L. Pascoli, Di Salvator Rosa, in Vite de’ pittori, scultori ed architetti moderni (1730-1736), a cura di A. Marabottini, Perugia 1992, pp. 134-148; B. De Dominici, Vita di Salvator Rosa pittore e poeta e de’ suoi discepoli, in Id., Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani (1743), a cura di F. Sricchia Santoro - A. Zezza, III, 1, Napoli 2008, pp. 405-474. Per comprendere la grande fortuna romantica di Rosa: S.O. Morgan, The life and times of Salvator Rosa, London 1824. Studi generali: W.W. Roworth, Pictor Succensor. A study of Salvator Rosa as satirist, cynic and painter, New York 1978; J. Scott, Salvator Rosa. His life and times, New Haven-London 1995; H. Langdon, A theatre of marvels. The poetics of Salvator Rosa, in Konsthistorisk Tidskrift, LXXIII (2004), 3, pp. 179-192; Salvator Rosa tra mito e magia (catal.), Napoli 2008; H. Langdon, The art and life of Salvator Rosa, in H. Langdon - X.F. Salomon - C. Volpi, Salvator Rosa, London 2010, pp. 10-49; Salvator Rosa e il suo tempo 1615-1673, a cura di S. Ebert-Schifferer - H. Langdon - C. Volpi, Roma 2010; F. Conte, Tra Napoli e Milano. Viaggi di artisti nell’Italia del Seicento, II, Salvator Rosa, Firenze 2014. Sulla giovinezza: U. Prota Giurleo, La famiglia e la giovinezza di Salvator Rosa, Napoli 1929; A. Delfino, Documenti inediti per alcuni pittori napoletani del Seicento e l’inventario dei beni lasciati da Lanfranco Massa, in Ricerche sul ’600 napoletano, Napoli 1985, pp. 89-105; M. Chiarini, Filippo Napoletano e Salvator Rosa: una relazione accertata, in Scritti di storia dell’arte in onore di Sylvie Béguin, Napoli 2001, pp. 465-468; V. Farina, Il giovane Salvator Rosa, 1635-1640 circa, Napoli 2010; Il giovane Salvator Rosa (catal. Sorrento), a cura di V. Farina, Monghidoro 2015. Sul periodo fiorentino: E. Fumagalli, Napoli a Firenze nel Seicento, in ‘Filosofico umore’ e ‘maravigliosa speditezza’. Pittura napoletana del Seicento dalle collezioni medicee (catal.), Firenze 2007, pp. 27-135. Sulle abitazioni romane: L. Bartoni, «Nella Trinità de’ Monti, che vuol dire nella meglior aria di Roma»: iI quartiere di Salvator Rosa e i suoi abitanti. Precisazioni e qualche novità, in Salvator Rosa e il suo tempo 1615-1673, a cura di S. Ebert-Schifferer - H. Langdon - C. Volpi, Roma 2010, pp. 409-418; Ead., Le vie degli artisti. Residenze e botteghe nella Roma barocca dai registri di Sant’Andrea delle Fratte (1650-1699), Roma 2012, pp. 509 s. Su Rosa pittore: O.G. Boetzkes, Salvator Rosa, New York 1960; L. Salerno, Salvator Rosa, Milano 1963; G. Briganti - L. Trezzani - L. Laureati, I bamboccianti, Roma 1983, passim; C. Volpi, Salvator Rosa (1615-1673) ‘pittore famoso’, Roma 2014. Rosa disegnatore: M. Mahoney, The drawings of Salvator Rosa, New York-London 1977; Salvator Rosa. Genie der Zeichnungen (catal.), a cura di H. Guratzsch, Leipzig 1999. Su Rosa incisore: R.W. 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Salvator Rosa e Antonio Cesti nella Firenze di metà Seicento, in Firenze Milleseicentoquaranta, cit., pp. 151-172. Sul rapporto con i mecenati: F. Haskell, Mecenati e pittori (1963), Torino 2000, passim. Sul rapporto con le accademie: F. Conte, Salvator Rosa: negli scritti encomiastici degli accademici Percossi, in Firenze Milleseicentoquaranta, cit., pp. 173-196; C. Volpi, The grand theatre of the world. Salvator Rosa and the academies, in H. Langdon - X.F. Salomon - C. Volpi, Salvator Rosa, London 2010, pp. 50-73. Sulle esposizioni: X.F. Salomon, «Ho fatto spiritar Roma». Salvator Rosa and Seventeenth-century exhibitions, ibid., pp. 74-99. Sul figlio Augusto: I. Miarelli Mariani, Lettere di Augusto Rosa a Giovan Battista Ricciardi (1673-1686), in Studi secenteschi, XLIX (2003), pp. 281-313. Sulla fortuna europea: J. Sunderland, The legend and influence of Salvator Rosa in England in the Eighteenth century, in The Burlington Magazine, 1973, vol. 115, n. 849, pp. 785-789; J.S. Patty, Salvator Rosa in French literature: from the bizarre to the sublime, Lexington (Ky.) 2005; Salvator Rosa in Deutschland. Studien zu Seiner Rezeption in Kunst, Literatur und Musik, a cura di A. Aurnhammer - G. Schnitzler - M. Zanucchi, Freiburg 2008.