SALIMBENI
– Quando nel maggio 1277 una commissione di sapientes redasse a Siena per la prima volta un elenco dei 53 casati cui, da quel momento, era formalmente vietato l’accesso alla suprema magistratura popolare dei Trentasei, il casamentum de Salembenis figurava tra i lignaggi del terzo di Camollia dove la famiglia era insediata fin dalla prima metà del secolo (nel popolo di San Donato).
Risalire alle origini della loro ascesa è difficoltoso, tuttavia è possibile collocare proprio ai decenni centrali del Duecento l’emergere di un loro protagonismo nella scena politico-sociale. Ne è testimonianza l’accesso al cavalierato cittadino – uno degli elementi che concorsero ad alimentare il processo di promozione e grandigia sociale di questo e di altri lignaggi – che risulta attestato per dominus Benuccio di Salimbene nel 1265; dopo di lui, nel corso dei tre decenni successivi, oltre una dozzina di membri del casato fu onorato del cingulum militie.
Alle origini della loro fortuna, come altri lignaggi senesi, fu la banca: i Salimbeni si dedicarono con successo alle attività finanziarie le cui prime attestazioni risalgono agli anni Venti del Duecento, quando era attiva una società commerciale di cui era a capo Salimbene di Giovanni e figli (Giovanni, Alessandro, Benuccio, Notto e Ciampolo) che avrebbe funzionato almeno fino al 1292.
Se è indubbio che i rapporti con la Santa sede e la frequentazione delle fiere della Champagne – corridoio di lucrosi rapporti creditizi con la nobiltà laica ed ecclesiastica internazionale – funzionarono da volano, il giro d’affari in cui la societas Salimbenorum risulta coinvolta non sembra aver assunto le proporzioni notevolissime che negli stessi anni ruotavano attorno alle compagnie dei Buonsignori, Tolomei o Gallerani. Ma la compagnia godette di una posizione di primo piano in Inghilterra: lì, muniti di speciali salvacondotti che li definivano ‘commercianti speciali del re’, risiedettero un loro rappresentante e un figlio di Salimbene, Alessandro, che vi si trasferì per qualche tempo dirigendo personalmente gli affari della società, testimoniati nell’isola fino al 1281.
Le finanze sempre in difficoltà del Comune di Siena offrirono un ulteriore terreno di investimento, e anche se nessun documento soccorre nel promuovere la storicità del gesto ‘leggendario’ di Salimbene Salimbeni che nel 1260, con i fiorentini accampati a Montaperti, avrebbe soccorso il Comune a suon di fiorini d’oro, come racconta l’Anonimo cronista senese («E veduto che ’l comuno non aveva denari [...] proferse cento miglia di fiorini al comuno e alla difesa della città [...] e li miseno sur uno charro coperto di scharlatto»; Cronaca di anonimo, a cura di A. Lisini - F. Jacometti, 1931-1939, pp. 57 s.), vero è che i libri di Biccherna registrano fin dagli anni Cinquanta mutui considerevoli da parte della famiglia. Egualmente documentato nel 1271-72 è l’esborso di 2000 once d’oro (16.000 lire) con cui i Salimbeni contribuirono al pagamento della multa comminata al Comune da Carlo d’Angiò, per il passato sostegno alla causa imperiale.
L’aneddoto di Montaperti, insomma, andrebbe letto come rivelatore delle importanti somme di denaro che la famiglia prestò a più riprese al Comune in questo torno di tempo, e soprattutto fra gli anni Settanta e Ottanta quando questo si trovò quasi sul punto di essere «nelle mani di una dinastia di banchieri» (Waley, 2003, p. 60).
Fu la valutazione dei loro interessi finanziari, tanto collegati alla Curia, a spiegare il cambio di rotta che nel 1262 i Salimbeni, al pari di altri banchieri senesi, impressero al loro orientamento politico. Di fronte all’interdetto lanciato da Urbano IV sulla città schierata con Manfredi e all’intransigenza del governo popolare dei Ventiquattro che non voleva recedere dalle sue posizioni filoimperiali, i Salimbeni si resero autori dell’omicidio di un membro dei Ventiquattro (novembre 1262), abbandonando subito dopo la città per ritirarsi, sotto protezione papale, a Radicofani, dove prese forma e cominciò a coaugularsi la pars guelforum senese.
Il ruolo svolto da alcuni uomini del casato nelle fila dell’organizzazione è ben documentato: Notto Salimbeni, che figura tra i banchieri esiliati a Radicofani ai quali nel 1263 Urbano IV concesse l’esenzione dalla scomunica, compare come capitaneus nel 1265 e lo si ritrova, nel 1267, assieme a Benuccio di Salimbene e Salimbene di Ranieri, in veste di consigliere guelfe partis senensis. Lo stesso Notto partecipò poi alla spedizione di Carlo d’Angiò contro Manfredi, che fu ricompensata con l’investitura del vicariato imperiale di San Quirico e di Orgia nel 1268.
L’anno successivo l’angioino inviò a Notto Salimbeni una missiva chiedendogli aiuto de pecunia: così, fra i mercanti banchieri toscani che trassero beneficio dall’arrivo in Italia di Carlo VI, vi furono anche i Salimbeni, raccomandati speciali affinché con i loro messi e fattori potessero procurare e svolgere i loro affari in sicurezza nel Regno di Francia (salvacondotto del 12 luglio 1273).
Dopo le sconfitte ghibelline sul campo di Benevento e Tagliacozzo (1266 e 1268), i mutamenti politici e costituzionali imposero anche a Siena, a partire dal 1271, un nuovo governo di fede guelfa e socialmente connotato (di ‘mezzana gente’) e, sul piano interno, una politica di contenimento del potere nobiliare alla cui stesura e realizzazione contribuirono i magnati più duttili e collaborativi. Il concorso attivo da parte dei Salimbeni a questo nuovo assetto è confermato dal fatto che durante tutta la prima metà del Trecento la famiglia continuò a mantenere una buona visibilità in città, anche grazie a una continuità di presenza nel consesso consiliare, nelle magistrature finanziarie (Biccherna e Gabella), nei ruoli militari e diplomatici del Comune, nelle podesterie dentro e fuori lo Stato (Massa, Chiusdino, Montalcino, Colle Valdelsa, Pistoia, Perugia).
A partire dalla fine del Duecento, dopo il ritiro dalle attività finanziarie a livello internazionale, i Salimbeni riconvertirono il loro impegno finanziario su scala locale e regionale, praticando attività feneratizia e risultando attivi nel commercio del grano e dei metalli.
Tra i prodotti trattati dai Salimbeni vi furono peraltro anche i beni di lusso. Nel 1337 Benuccio di Giovanni, camerlengo della consorteria, acquistò una colossale partita di tessuti preziosi al prezzo di 130.000 fiorini, che furono subito rivenduti in città («essendo venuto all’usato el grande merchatante di Soria al porto Ercole con quantità di merchantia di seta, tutte furo conprate per lo detto Benuccio [...] e tutte le predette mercantie furo condotte a Siena a le case Salimbeni donde il popolo di Siena come cose grandi e nuove andoro a vedere. Di poi le dette mercantie furo consegnate a’ sensari de la detta casa [...] i quali aprirono 3 fondachi a la via Renaldini [...] e li detti vendero in grosso e a minuto», Cronaca di Agnolo, a cura di A. Lisini - F. Jacometti, 1931-1939, p. 521).
Motore del ‘sistema’ economico dei Salimbeni fu la terra. La famiglia si impegnò in una serrata politica di acquisti fondiari che garantirono ingenti disponibilità di prodotti agricoli da immettere nel mercato e nella costruzione di un dominato territoriale cui subordinò una strategica tessitura di alleanze matrimoniali e una rigida coesione consortile che le consentì di svolgere un ruolo attivo nel circuito urbano e nei rapporti con il Comune per tutto il XIV secolo.
Il perno del dominato castrense era rappresentato da un gruppo di castelli in Valdorcia: nel 1270 il Comune di Siena aveva ceduto in pegno ai figli di Salimbene di Giovanni il castello di Montorsaio; nel 1274 arrivarono nelle mani della famiglia anche i castelli di Tintinnano, Montecuccari, Selva e Castiglioncello del Trinoro, venduti da Siena al prezzo di 44.000 fiorini d’oro. Si trattò di una alienazione, alla cui base premevano urgenti necessità di cassa, che andavano però a saldarsi a valutazioni di opportunità politico-militare.
Negli anni 1316-20 la fonte fiscale nota come Tavola delle Possessioni mostra che una quota importante del patrimonio familiare e del suo valore catastale complessivo (oltre 240.000 lire) – che è stato calcolato ammontare al 6,5% di tutte le ricchezze private – era costituito da diritti, strutture e terreni pertinenti a castelli (se ne registrano sedici per un valore che si aggira sulle 118.000 lire senesi), il cui nucleo più compatto era proprio situato in Valdorcia. Con un patrimonio di oltre 70.000 lire Benuccio di Benuccio e nipoti erano al secondo posto nel gruppo dei più ricchi proprietari senesi: egli risultava proprietario, oltre che di immobili urbani e possessi fondiari, dei castra di Castiglion Ghinibaldi e Strozzavolpe, Tintinnano, Bagno Vignoni, Chiarentana, la Briccola, Foscola e Geta. Il deciso interesse al possesso della terra, gestita con l’adozione di contratti a breve termine, e al radicamento castrense non impedì ai Salimbeni di essere presenti nell’ambiente urbano, dove non cessarono mai di dialogare con il gruppo dirigente.
Vero è che fu molte volte un dialogo forzoso, dal momento che i Nove non esitarono a sottomettere e punire gli eccessi di cui i Salimbeni si resero protagonisti distogliendoli da propositi inconciliabili con gli sviluppi comunali. Valga a titolo d’esempio la circostanza che, delle dodici cause intentate nel secondo semestre del 1290 dal capitano del popolo contro i Salimbeni, tutte, eccetto una, si conclusero con una sentenza di condanna (Siena, Archivio di Stato, Capitano del Popolo, 3).
Parimenti grande fu lo sforzo dei governanti senesi per riuscire a imporre al casato una pacificazione che ponesse fine alla lunga rivalità che lo aveva opposto agli odiati Tolomei, una inimicizia che segnò fortemente la vicenda dei Salimbeni nei primi decenni del Trecento. Sembra che l’antagonismo si fosse acceso nel 1309, quando, in occasione della celebrazione per la fine dei lavori di coronamento del Palazzo comunale, «i Tolomei pigliarono gelosia de’ Salinbeni, e’ Salinbeni di loro» (Cronaca di Agnolo, cit., p. 307).
Le cronache sono punteggiate di episodi rivelatori. Quando per esempio nel 1314 il Comune di Siena inviò in aiuto dei fiorentini un contingente di armati guidati da un Tolomei, i Salimbeni, non accettando di mettersi sotto il suo comando, allestirono un proprio esercito di cavalieri «per dimostrare la loro potentia e superbia» (p. 528). E l’inimicizia fra i due lignaggi mise spesso a repentaglio l’ordine costituzionale.
Nell’aprile del 1315, in seguito alle solite scaramucce fra i due lignaggi, «tutta la città si levò a romore e traevano molta gente armata, chi tenea co’ Tolomei e chi co’ Salimbeni», scrive il cronista. In quel frangente, in un crescendo di sospetti e timori per effetto del possibile coinvolgimento dei fedeli e amici delle due domus – sembrava che il vescovo Guido Tarlati, amico dei Tolomei, stesse arrivando –, il governo rispose mobilitando tremila armati e chiudendo le porte della città: misure militari consuete che costituivano risposte ordinarie a emergenze ‘ordinarie’, dall’esito tuttavia mai scontato. Infatti chiosa il cronista: «se non fusse el buono provedimento de’ Signori Nove, la città mutava istato in quello dì, tante le armi erano uscite fuore da l’una parte e da l’altra» (Cronaca di anonimo, cit., pp. 105 s.).
Per fronteggiare con successo le violenze fra i potenti casati, il governo dei Nove cercò appoggio presso gli alleati, in primo luogo Firenze, che più di una volta soccorse il governo guelfo, e poi dagli Angioini. L’autorità del Comune fiorentino e di Carlo di Calabria fece dunque da sigillo alle promesse di pace che Salimbeni e Tolomei si scambiarono nel luglio del 1326.
Tale pace arrivava dopo anni di violenze e ritorsioni. L’effimera pace che nel 1317 i fiorentini avevano cercato di imporre in seguito ai disordini dell’aprile di due anni prima era stata rotta nel 1321 dall’uccisione di Francesco di Vanni Salimbeni. La repressione dei congiunti dell’ucciso fu durissima: una sera della primavera seguente Agnolino Bottone Salimbeni, con un seguito di uomini che si dissero arrivati da Firenze, si appostò nei pressi del palazzo Tolomei e vi fece irruzione uccidendo i figlioletti di Meo di Mino Tolomei. Dopo qualche mese, alla fine di settembre, il podestà mandò a chiamare i principali delle due consorterie per tentare una riconciliazione che però fallì: un Tolomei tentò di aggredire messer Benuccio Salimbeni che stava recandosi a palazzo.
Ma la precaria tregua resse per pochi anni. Il 22 ottobre 1330, nei pressi di Torrenieri, Benuccio di Benuccio e Alessandro di Brettacone Salimbeni furono uccisi da Pietro di Mino Mellone, Tavennozzo di Meo di Cristoforo e un figlio di Francesco Tolomei, innescando una pronta risposta: fallito il tentativo di scatenare una sommossa popolare contro il lignaggio nemico, i Salimbeni organizzarono una congiura a Lucignano d’Asso dove uccisero Francesco Tolomei e suo figlio; dopo aver fatto «tagliare la testa dal corpo e fatto al corpo molti altri strazi» se ne tornarono a Tintinnano nella loro rocca.
La crudeltà e lo spregio dell’atto vendicatorio colpirono i cronisti che interpretarono l’omicidio di Lucignano d’Asso come «grande vendetta, la maggiore che mai si facesse a Siena»: una vendetta commisurata alla statura dell’assassinato Benuccio.
Benuccio di Benuccio, già definito dal cronista uno dei principali del suo casato e poi uno dei «più nomati cavalieri di Toscana» (Cronaca di Agnolo, cit., pp. 498, 505), fu nel primo Trecento una figura di primo piano del suo lignaggio e della scena politica cittadina: addobbato miles nel 1316, sedette continuamente in Consiglio generale dal 1304 alla morte, fu ambasciatore del Comune fedele sostenitore di Roberto d’Angiò (riuscì nel 1329 a farsi concedere una pensione annua di ottanta once d’oro con l’obbligo feudale di quattro militi), oltre che del reggimento guelfo senese.
Benuccio può essere assunto come simbolo del comportamento di sostanziale fedeltà dei Salimbeni al regime guelfo senese: complessivamente, durante il settantennio dei Nove, gli esponenti della famiglia seppero mantenere buone relazioni con i governanti popolari che furono pronti a sostenere e alla cui abilità politica sacrificarono perfino le loro brame signorili.
Eclatante esempio del sostegno della famiglia al regime di governo viene da un episodio del dicembre 1318 quando, dopo una rivolta contro i Nove, nel Consiglio cittadino chiamato a decidere in merito all’opportunità di procedere o meno a una revisione costituzionale, Benuccio Salimbeni si espresse decisamente a favore di una continuità di regime. E ancora, quando nel 1322, di fronte al pericolo di una carestia di grano, il governo impose ai grandi proprietari di venderne a sedici soldi lo staio, i Salimbeni, per volontà dello stesso Benuccio, non esitarono a rispondere positivamente alla richiesta vendendo le loro granaglie anche a un prezzo inferiore di quello fissato dal Comune: «E molti citadini ne miseno in Campo volontariamente a soldi 12 lo staio e mostroro esere ben contenti [...] e massime el casato Salimbeni ché m. Benuccio ne mandò in sul Campo C moggia sotto due ghonfaloni e miserno a soldi 11 lo staio» (Cronaca di anonimo, cit., p. 125). La grande disponibilità di granaglie da immettere nel mercato derivava da una accorta politica di acquisti e di gestione fondiaria. Il matrimonio, dei primi anni del Trecento, con Margherita degli Alberti aveva accresciuto il suo patrimonio: nel 1321 buona parte dei beni feudali della famiglia Alberti vennero nelle sue mani. Dopo la morte del conte Alberto, zio della moglie, ucciso il 19 agosto 1325 in un complotto, «a petizione degli Ubaldini e di messer Benuccio Salimbeni di Siena che tenea Vernia» (G. Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, 1990, II, X, CCCXIII), lo stesso Benuccio ottenne tutte le proprietà della consorteria grazie a un accordo stipulato l’anno successivo con il Comune di Firenze, che cedette alla pressione di Roberto d’Angiò («e per non recarne i Sanesi a nemici, e non potere contastare a la volontà del duca»); in quell’occasione fu stabilito che Firenze avrebbe ceduto a Benuccio e a Margherita le proprietà dei castelli appenninici di Mangona e Vernio con relative giurisdizioni, così come spettavano agli Alberti, con l’obbligo di fedeltà a Firenze («con patti che messer Benuccio ne dovesse con C fanti fare oste e cavalcate col Comune di Firenze e mandare uno palio di drappo ad oro per la festa del beato Giovanni», II, XI, LXXXIV).
L’articolato lodo di pace, ratificato e giurato da tutti i maschi adulti delle due famiglie il 5 novembre 1337, fu il risultato di un lungo lavorìo diplomatico che aveva preso avvio nel 1333 – quando fu stipulata una tregua – e che si concluse con l’intervento di Francesco da Cingoli, vescovo di Firenze, nominato arbitro dalle parti quattro anni dopo.
Il lodo della pace (cementata da una serie di matrimoni tra cui quello di Giovanna di Benuccio e Spinello di Meo Tolomei che si celebrò nel 1338) doveva porre fine all’odio tra le due casate e alla lunga sequenza di disordini e violenze che avevano insanguinato la città e messo ripetutamente in pericolo il buono stato del Comune, anche a causa della vastità di alleanze e clientele che Salimbeni e Tolomei erano in grado di mobilitare. Il possesso di vasti patrimoni fondiari e il godimento di giurisdizioni castrensi costituivano una preziosa base di arruolamento di uomini che potevano essere impiegati dai domini come milizie private e massa di manovra negli scontri di piazza, ingaggiate contro altri casati o contro lo stesso Comune cittadino. Ne costituisce prova l’elenco dei fideles dei due rissosi lignaggi nel lodo di pace del 1337, che contava oltre 150 individui: la metà di quelli dei Salimbeni proveniva dai castelli valdorciani della famiglia e buona parte degli altri da zone di possesso fondiario.
Con l’arrivo dell’imperatore Carlo IV a Siena nel 1355 («e scavalcò al palazzo de‘ Salimbeni, nel palazo grande del mezzo», Cronaca di Donato, a cura di A. Lisini - F. Jacometti, 1931-1939, p. 577), che accese la rivolta contro i Nove, emerse la figura di un altro potente membro del lignaggio, Giovanni di Agnolino di Bottone Salimbeni, uomo di fiducia (se non emissario) dell’imperatore da cui ottenne la riconferma dei feudi di Tintinnano, Ripa, Bagno Vignoni, Montenero. Artefice di un difficile e convulso decennio di politica cittadina (1355-1368), sospettato di aver fomentato una guerra civile antimagnatizia per impadronirsi del potere, Giovanni di Agnolino svolse in quegli anni anche un ruolo di primo piano nel ricondurre sotto il controllo di Siena varie comunità che si erano ribellate (Montalcino, Chiusi, Grosseto). Nel 1368, alla notizia dell’arrivo dell’imperatore in Italia, una nuova congiura contro i Dodici indebolì il governo, che fu deposto a giugno. I senesi inviarono immediatamente Giovanni di Agnolino e altri ambasciatori all’imperatore: la sua imminente venuta a Siena – ipotizzano gli studiosi – avrebbe dovuto fornire a Salimbeni i mezzi e l’occasione per la presa del potere se, il 2 agosto 1368, una caduta da cavallo non ne avesse provocato la morte.
Nell’immediato, prosecutore della sua politica e delle sue ambizioni fu il consorte Niccolò di Niccolò Salimbeni che, d’accordo con l’imperatore e il popolo, ricevette a Siena il vicario imperiale, Malatesta Ungaro dei Malatesti, e cacciati i nobili insediò al governo i Riformatori (1371-85).
Una serie di concessioni castrensi, privilegi e immunità andò a beneficiare il casato (tutti i maschi adulti entrarono di diritto in Consiglio generale e furono considerati come una specie di alto consiglio politico dei governanti), ma nel clima di fibrillazione istituzionale che connotò quegli anni furono privilegi di poco momento perché il partito popolare mostrò ferma capacità di resistere ai tentativi di strumentalizzazione e strapotere dei Salimbeni, ai quali furono tolti i privilegi concessi. Fu una limitazione che non spense le ambizioni e la bellicosità del lignaggio, anche se alle rapine e devastazioni nel contado, alle nuove congiure contro il Comune, alle spedizioni militari contro le comunità dello Stato (nel 1374 tolsero a Siena il castello di Montemassi) il governo rispose duramente mobilitando i propri alleati nella guerra contro i Salimbeni – che essi combattevano, anche con successo, dalle loro roccaforti valdorciane (Siena fu sconfitta nel tentativo di assedio di Boccheggiano). Si trattò di una guerra lunga che a un certo punto sembrò trovare un epilogo diplomatico nella pace stipulata l’11 giugno 1375, le cui clausole erano decisamente favorevoli al lignaggio.
Dopo il nuovo governo dei Priori, che segnò una involuzione politica a favore dei ceti più elevati e la breve esperienza signorile dei Visconti (1399-1404), esperienze appoggiate fattivamente dai Salimbeni, questi tentarono nuovamente, senza fortuna, la strada della rivolta, inalberando l’arme del popolo: ne fu a capo Francesco di Niccolò, che finì ucciso, e i consorti furono dichiarati ribelli e banditi. Da questi innumerevoli tentativi di insignorimento i Salimbeni uscirono sconfitti.
Niccolò di Cione di Sandro, detto Cocco, ultimo grande protagonista delle ambizioni familiari e della lotta politica a cavallo fra XIV e XV secolo, nonostante l’appoggio di influenti potentati esterni (tra cui Ladislao, re di Napoli), nulla poté contro il Comune che, forte dell’appoggio di Firenze, ebbe militarmente la meglio nell’ultimo scontro che si svolse a Tintinnano, nel 1418. La famiglia fu esiliata, disperdendosi a Firenze, Roma e altrove, e i suoi castelli integrati nel dominio di Siena.
Fonti e Bibl.: Cronaca di anonimo= Cronaca senese dei fatti [...] di autore anonimo del secolo XIV, in Cronache senesi, a cura di A. Lisini - F. Jacometti, in RIS, XV, parte VI, Bologna 1931-1939, pp. 41-171 (in partic. pp. 57 s.); Cronaca di Agnolo= Cronaca senese attribuita ad Agnolo di Tura Del Grasso detta la cronaca maggiore, in Cronache senesi, cit., pp. 255- 564. Cronaca di Donato= Cronaca senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri, in Cronache senesi, cit, pp. 569-685. G. Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, Parma 1990, t. 2, l. X, XCVI, CXLVII, CCCXIII, CCCLVI; l. XI, LXXXIV.
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