SALIMBENE DE ADAM
Il francescano di origine emiliana S., insieme al benedettino inglese Matteo Paris (v.), è uno dei due contemporanei di Federico II ad averci lasciato la quantità più ragguardevole e varia di osservazioni e giudizi sull'imperatore, che sono tuttavia ben lungi dal comporsi in un ritratto esauriente e omogeneo.
S. nacque a Parma il 9 ottobre del 1221, da una famiglia altolocata, che annoverava fra i suoi membri cavalieri cittadini legati alla giudicatura. Disattese le speranze del padre e, seguendo l'esempio di uno dei fratelli, all'età di sedici anni entrò nell'Ordine francescano, dove fu accolto il 4 febbraio del 1238 proprio da frate Elia (v. Elia da Assisi [da Cortona]), di cui dipinse un ritratto denso e polemico. Novizio, frate, poi prete e predicatore nell'Ordine, dove non esercitò alcuna funzione particolare, S. si divise fra i suoi studi e i viaggi, risiedendo in un gran numero di conventi. In un primo tempo visse nelle Marche e soprattutto in Toscana (Fano, Lucca, Siena, Pisa), nel 1247 ritornò in Emilia (si trovava a Parma quando iniziò l'assedio imperiale), soggiornò due volte in Francia, raggiunse Ferrara nel 1249, prima di abitare in diversi conventi dell'Emilia Romagna, che a quanto sembra non lasciò più salvo che per recarsi in pellegrinaggio ad Assisi; la sua ultima sede conosciuta, nel 1288, è il convento di Monfalcone, nei pressi di Reggio Emilia.
La Cronaca è la sola opera sopravvissuta di S., mutila di almeno due quinti, sia nell'avvio, in cui l'autore esponeva i suoi propositi, che nel finale, dove, a giudicare da quanto ci resta fino al 1288, dovette annotare gli avvenimenti secondo uno stile sempre più annalistico. Nello stato attuale, la Cronaca prende le mosse dal 1168, ma assume un tono autenticamente personale solo a partire dagli anni Dieci del XIII sec., quando S. può avvalersi delle relazioni più circostanziate di testimoni diretti e dei ricordi familiari, prima di attingere ai propri. Il titolo dell'opera fu scelto dall'autore stesso ed è calzante per diverse ragioni: innanzitutto, S. è intenzionato a scrivere un'opera da storico, 'mestiere' di cui conosce gli oneri e accetta le difficoltà, la necessità di citare e di vagliare le fonti, di ricostruire una cronologia serrata; inoltre, il succedersi delle annate serve da filo conduttore al discorso, sebbene sia infarcito da una quantità di incisi talora a incastro (il più delle volte è l'evocazione della morte di un personaggio a offrire il destro per inserire il suo ritratto essenziale e tracciare il bilancio di una vita: è questo il caso, per esempio, di Federico II); infine, ponendosi a metà strada fra la registrazione miope degli annali e il disegno universale delle storie, S. si ripromette di districare l'accavallarsi di eventi confusi e parte coraggiosamente alla ricerca di un loro intrinseco senso. Anche se il progetto è rimasto incompiuto e negli ultimi anni sembra essersi affossato, se ne può dar credito a S., che pare l'abbia illustrato nel prologo oggi perduto. Allo stesso modo, gli si può riconoscere un gusto sicuro per la storia e per la scrittura ‒ fa riferimento a diversi trattati e più di una volta a un'altra cronaca, più breve, perduta, dalla quale l'opera rimasta ha dovuto attingere non poco e di cui Ferdinando Bernini (1935), ma senza risultare del tutto convincente, ha creduto di ritrovare alcuni echi nell'opera di Flavio Biondo ‒ un acuto spirito d'osservazione, un palese interesse, prettamente francescano, per il mondo contemporaneo e per tutto ciò che la Creazione esibisce nel suo essere e nel suo divenire, dal più modesto al meraviglioso.
La Cronaca non è però soltanto l'opera di uno storico: vorrebbe anche figurare come una sorta di raccolta d'insegnamenti, di 'cose utili', destinate all'uso dei confratelli francescani, oggetto di una diffusione limitata che ai nostri occhi si confonde con il solo manoscritto d'autore riscoperto tardivamente, nel Settecento, e da allora assurto al rango di fonte capitale per la storia del XIII secolo. Compendio di 'cose viste' e di piccoli trattati, annotati o rimaneggiati al crepuscolo della vita, la Cronaca in sostanza si può accostare anche alla raccolta di autorità e al repertorio di storie esemplari, al martirologio e al trattato teologico-morale, alla cronaca cittadina e alla raccolta di mirabilia. Si è potuto affermare che S. ha voluto scrivere una sorta di vademecum ad uso del predicatore, perché la predicazione è stata il grande interesse della sua vita; ha redatto anche un vademecum ad uso del direttore spirituale.
La nascita a Parma, città saldamente radicata insieme a Cremona in campo filoimperiale fino al voltafaccia del 1247, l'appartenenza religiosa che, pur legandolo, nella radicalizzazione del conflitto fra papa e imperatore, alle file della pars Ecclesie, non lo privò di una certa libertà di giudizio, un entusiasmo ingenuo e poi deluso per il gioachimismo, un'ansia costante ma non sempre felice di decifrare negli eventi e nelle vite il senso morale, allegorico e anagogico più recondito: tutto questo concorre a dare peso e complessità alle annotazioni di S. su Federico II. È necessario, perciò, tentare una vera e propria operazione di scrematura, perché non è sufficiente contestualizzare e rimettere ordine nella profusione di indicazioni, sia sparse, sia raggruppate in digressioni quasi autonome, date sull'imperatore, il personaggio che compare con maggior frequenza nella Cronaca (dopo lo stesso S.): circa tre volte più di s. Francesco, a dire il vero una presenza assai discreta; tre volte più di Carlo d'Angiò, malgrado questi abbia occupato il doppio del tempo nella vita adulta di S.; circa due volte più di papa Innocenzo IV, a giudicare da un rapido calcolo delle entrate nell'indice dell'edizione curata da Giuseppe Scalia (1966), un conteggio che in più sorvola sulla lunghezza di alcuni brani dedicati specificamente allo Svevo. Che la figura dell'imperatore abbia catturato S. si evince anche dal fatto che già ne aveva trattato ‒ e sotto certi aspetti con una maggior dovizia di particolari ‒ nella sua cronaca perduta, alla quale rimanda più di una volta (per esempio "in alia cronica […] in qua XII scelera Friderici imperatori descripsi", c. 295b; Scalia1, I, p. 294; Scalia2, I, p. 309).
La matrice della Cronaca, accumulo di annotazioni di un narratore che ne estrapola, più o meno implicitamente, esempi di condotta, temi di predicazione, argomenti di meditazione, finendo per farsi avvincere dal gioco della memoria e dell'evocazione del passato, spiega d'altronde come la figura di Federico II sia trattata con tanta parzialità. Quasi ventisette anni separano la nascita dei due uomini, e il francescano ne aveva ventinove alla morte dell'imperatore. Era abbastanza per infiammarsi di fronte agli ultimi quindici drammatici anni del Regno, per prestare ascolto alle dicerie e lavorare per la causa della Chiesa, per intravedere Federico (senz'altro a Lucca nel 1239), per incontrare Innocenzo IV a Lione, alla fine del 1247, e trovarsi per un attimo al centro dell'interesse generale della Curia essendo latore di notizie fresche sull'assedio di Parma, per apprendere a Ferrara nel 1251, direttamente dalla bocca del papa, l'annuncio ufficiale della morte di Federico II. Era abbastanza anche per interrogarsi, mentre continuava ad attendere ai suoi solidi studi scritturali e patristici, sul senso di eventi mostruosi, prima ancora di scrutare i laceranti conflitti fra guelfi e ghibellini nell'Italia centrosettentrionale postfedericiana e di osservare alcuni dei loro protagonisti più efferati. Ma era troppo poco per comprendere nella sua globalità l'insieme del Regno e, di sicuro, per andare oltre i luoghi comuni sul Regno di Sicilia ‒ i grandi baroni, la corte brulicante di pettegolezzi e di assassini, i saraceni, le rivolte ‒, gli scarni accenni alla crociata imperiale e le allusioni assai schematiche alla Germania.
S. scrive di aver visto Federico II, ma probabilmente fu solo da lontano; tuttavia, al contrario di altri personaggi trattati, non può che fornire una valutazione molto generica sul fisico, la statura, la dizione o il contegno dell'imperatore ("pulcher homo et bene formatus, sed medie stature fuit", c. 355a; Scalia1, I, p. 508; Scalia2, II, pp. 533-534), mentre tutto il resto evidentemente gli è stato riferito. Il primo incontro di S. con l'imperatore, nel 1238, avviene in modo assai indiretto, tramite una lettera, allorché suo padre, sconfortato per la volontà del figlio di entrare nell'Ordine francescano, ottiene dall'imperatore, in qualità di suo fedele ‒ condizione del tutto normale per un membro dell'élite parmense ‒, una missiva indirizzata a frate Elia, che S. avrebbe letto molti anni dopo e di cui riferisce l'incipit ("Ad Guidonis de Adam fidelis nostri suspiria mitiganda"). A giudicare dal seguito degli eventi e dalla perfetta inutilità della lettera, si deduce che l'imperatore dovette chiedere molto diplomaticamente al ministro dell'Ordine di sincerarsi della solidità della vocazione del giovane, tenendo conto della disperazione del padre (c. 223c; Scalia1, I, p. 54; Scalia2, I, p. 57). Prima ancora, nel 1235, S. adolescente aveva assistito al passaggio del serraglio imperiale nella sua città natale ("dominus imperator Fridericus misit elefantem in Lombardiam cum pluribus dromedariis et camelis et cum multis leopardis et cum multis gerfalcis et asturibus […] et steterunt in civitate Cremone", c. 245a; Scalia1, I, p. 131; Scalia2, I, p. 135). Nell'anno seguente (1236), con la discesa di Federico in Lombardia ‒ "qui utinam non venisset!", dice la rubrica dell'autore (ibid.) ‒, si aprì la lunga serie di guerre che per una quindicina d'anni avrebbero impegnato l'imperatore e i comuni italiani occupando interamente il campo visivo del cronista, il principio di un ciclo di 'maledizioni' di cui S. continuò a non vedere la conclusione anche sul finire della vita. Pure in questo caso furono gli oggetti a mediare il contatto con l'imperatore, come ad esempio la corona imperiale presa a Vittoria dai parmensi nel 1248. Spesso arricchiti da ricordi personali, appena offuscati da una certa confusione, da una lieve malevolenza o da un evidente partito preso, i dettagli minuti forniti sulle operazioni militari e i rovesciamenti delle alleanze, e quelli ancora più preziosi sullo stato d'animo delle élites e delle popolazioni comunali, le annotazioni sulla vita quotidiana in tempo di guerra nelle città in cui il francescano risiedette e da cui transitò, hanno procurato agli storici, dopo che la Cronaca è emersa dall'oscurità, una manna fin troppo nota per insisterci ancora sopra. Vale la pena, piuttosto, di esaminare come aleggia al di sopra degli eventi la figura di Federico II.
"Ipse vero Fridericus fuit homo pestifer et maledictus, scismaticus, hereticus et epycurus, corrumpens universam terram, quia in civitatibus Ytalie semen divisionis et discordie seminavit" (c. 220b; Scalia1, I, p. 43; Scalia2, I, p. 45): con i suoi clichés più abusati e le sue parole più violente la propaganda antifedericiana, che S. ha letto, udito e senz'altro anche veicolato, attraversa l'intera Cronaca. Dal tema dell'ingratitudine dell'imperatore verso il papa, che mette a confronto la protezione accordatagli ciecamente da Innocenzo III e gli aspri tormenti inflitti ai suoi successori ("erexit cervicem et calcaneum contra Ecclesiam qui eum nutrierat et ab inimicis suis defenderat et ad imperium sublimaverat", c. 290a; Scalia1, I, p. 276; Scalia2, I, p. 291), fino al topos dell'odore fetido che emanava dal cadavere di Federico, una delle ragioni per non trasportarne le spoglie a Palermo, mentre l'altra era la preoccupazione di non divulgare subito la notizia del decesso: il tono è inequivocabile. Suonano battagliere anche le molteplici allusioni a una tirannia fondata sulla paura, che ha alimentato un ciclo crudele di cospirazioni e repressioni, la cui ombra di morte e di sangue si proietta sull'intera rievocazione. Altrettanto battagliera, l'accusa di essere un cattivo cristiano, addirittura un ateo, declinata secondo una varietà di registri, dalla crociata mancata che sfocia nella pace con i saraceni ("pacem cum Saracenis fecit sine Christianorum utilitate, insuper et nomen Machometti fecit in templo Domini publice decantari", c. 353b; Scalia1, I, p. 502; Scalia2, II, p. 528) alle molteplici empietà. Tutte queste accuse confluiscono in una conclusione ordinaria e in un'accusa suprema: quella di distruggere la pace ‒ una delle parole meno pronunciate e uno dei temi più onnipresenti nella Cronaca.
Questa propaganda si è alimentata di una quantità di distorsioni e di veri e propri pettegolezzi, di cui S. fornisce un buon campionario. Insiste così sulle dicerie relative alla nascita illegittima di Federico II, all'interno di una digressione sulla città di Iesi (c. 225ab; Scalia1, I, pp. 58 s.; Scalia2, I, pp. 61 s.). Costanza, già attempata, avrebbe simulato la gravidanza facendo passare per suo il figlio di un macellaio locale. Tuttavia questo luogo comune della propaganda antimperiale ‒ replica al tema della nascita insperata di un figlio voluto dalla Provvidenza ‒ è trattato con un procedimento abbastanza inconsueto in S.; pur essendo abituato, è vero, a protestare ripetutamente con il lettore di aver visto con i propri occhi gli avvenimenti narrati, addirittura di non volere riferire altro, l'autore in questo caso si premura di suggerire in senso grammaticale lo statuto della diceria ("divulgatum fuit de eo quod esset filius cujusdam beccarii"), ma subito dopo adduce tre argomenti con tono sentenzioso a sostegno della sua veridicità ("ad quod credendum inducunt nos tria"): la frequenza di questa pratica fra le donne, la profezia di Merlino sulla nascita prodigiosa dell'imperatore e, argomento in apparenza più forte, l'ingiuria lanciata dal re di Gerusalemme Giovanni di Brienne, che in preda alla collera bollò Federico sconcertato come "fi de becer", secondo l'approssimativa trascrizione francese di Salimbene.
Siamo ancora di fronte a pettegolezzi o deformazioni multiple quando S., in un passaggio celebre e abbondantemente commentato, declina le sette "superstizioni" dell'imperatore (cc. 355b-357a; Scalia1, I, pp. 509-515; Scalia2, II, pp. 535-541): si accumulano le prove che non è cristiano, nei sentimenti (denigra la Terrasanta e non perde occasione di esprimersi in modo blasfemo: "cum vidit terram ultramarinam que fuit terra promissionis […], displicuit sibi et dixit quod Deus Judeorum non viderat terram suam, scilicet Terram Laboris, Calabriam et Siciliam et Apuliam, quia non totiens commendasset terram quam promisit et dedit Judeis") e nelle credenze (tenta di dimostrare che l'anima è mortale), che è crudele e disprezza la vita altrui. L'ultimo episodio riferito è di tutt'altro tenore e non esprime alcun biasimo: vediamo l'imperatore mettere alla prova le competenze astronomiche di Michele Scoto facendo abbassare il pavimento di un palazzo, per verificare se il suo astrologus noterà la differenza ricalcolando la distanza fra la terra e il sole, una prova da cui esce vittorioso. S. sembra essersi smarrito lungo la strada, perché il catalogo delle "superstizioni" (termine ampiamente usato nel senso classico di ricerca presuntuosa, che conduce l'uomo a sfidare i precetti divini) si trasforma nell'enumerazione di "curiositates", "credulitates" e "fatuitates". Di fatto, al di là dell'apparente esitazione semantica, della disparità delle situazioni riportate, in cui hanno il sopravvento le esperienze scientifiche perverse e mortifere (osservare fino a quale profondità può immergersi un uomo, strappare dei bambini alle madri per vedere quale lingua parleranno essendo sottratti all'influenza del loro ambiente, lasciare morire un uomo in una botte per provare che anche l'anima muore, far uccidere e sezionare degli uomini che hanno ingerito gli stessi cibi ma hanno atteso ad occupazioni diverse per analizzarne la digestione), che attingono spesso a topoi antichi (Erodoto, per esempio, per l'esperimento sui bambini), attestando in negativo la curiosità scientifica e il dibattito filosofico all'interno della cerchia curiale dello Svevo, l'intero passaggio mostra una profonda unità: queste "superstizioni" sono anche "maledictiones et incredulitates et perversitates". Procedono tutte quante dalla stessa assenza, l'assenza di fede, perché ogni scienza è divina e non può essere esplorata se non attraverso lo sguardo della fede; ma l'epicureo l'ha traviata e gli esperimenti scientifico-filosofici della corte siciliana sono improntati alla morte e all'oltraggio di Dio, nel solco di un'antiapologetica che sarebbe consistita nell'andare in cerca, all'interno della stessa Bibbia, di indizi della non immortalità dell'anima.
L'abbondante propaganda non è tuttavia il solo elemento a innervare la relazione impetuosa di Salimbene. Le concordanze simboliche, il gusto della profezia, e ancora più fortemente il sostrato di credenze gioachimite, scolpiscono un'altra faccia del ritratto. Sempre alla ricerca di un senso, S. ritiene, erroneamente, degno di rilievo il fatto che Federico II sia morto nello stesso giorno, quello di s. Cecilia (22 novembre), in cui è stato incoronato dal papa (c. 221ab; Scalia1, I, p. 47; Scalia2, I, p. 49; lo stesso genere di annotazione, altrettanto inesatta, è data per Carlo d'Angiò). È comunque al corrente che alcuni propongono una data differente per il decesso dell'imperatore, ma la cosa ha poca importanza: infatti il 13 dicembre, la data esatta, offre ugualmente un senso ("non vacata a misterio", c. 354b; Scalia1, I, p. 506; Scalia2, II, p. 531), perché è il giorno della festa di s. Lucia, quella che ha annunciato la pace alla Sicilia. Se pure il dipanarsi della vita di Federico II si interpreta meglio attraverso il simbolismo temporale, è anche violentemente segnato dalla profezia, di cui è nota la pregnanza, sia nel secolo che nell'opera di S., il quale ama citare le Sibille, Merlino e lo pseudo-Michele Scoto. Fin dalla nascita Federico è stato marchiato dall'abate Gioacchino, consultato da un padre ansioso: "Perversus puer tuus, nequam filius et heres tuus, o princeps. Ha Deus! Turbabit terram et sanctos Altissimi conteret", e S., dopo aver fatto il parallelo con le profezie di Isaia sugli assiri, aggiunge: "omnia ista in Friderico impleta fuerunt" (c. 220b; Scalia1, I, pp. 43-44; Scalia2, I, p. 46). Il gusto per la profezia e la tentazione dell'assimilazione all'Anticristo, dopo tutto fortemente diffusi, sono rafforzati in S. dalla sua attrazione giovanile per il gioachimismo, in cui la figura di Federico II è intervenuta doppiamente: in primo luogo, perché la dottrina, assimilata con una certa superficialità, è la chiave per decifrare l'azione dell'imperatore; e poi perché, nel suo ultimo atto, con una morte sopraggiunta quando il Drago non aveva ancora pienamente sviluppato la sua capacità di nuocere, l'imperatore doveva indurre del tutto involontariamente S. ad allontanarsi dal gioachimismo, prima di ripudiarlo apertamente nel 1260, per conservarne solo un'impronta tanto profonda quanto parziale e inconfessabile.
E a tal punto che S. dichiara di essere rimasto incredulo e inorridito all'annuncio della morte dell'imperatore decaduto; per crederci, fu necessario che l'ascoltasse pubblicamente, dal papa, che gli era così vicino da potergli toccare il braccio. Molto tempo dopo, con bella franchezza, ammetterà che la delusione di veder scomparire il nemico per eccellenza della Chiesa e della pace si riallacciava alle convinzioni della sua giovinezza: non solo il decesso contraddiceva l'attesa delle cerchie gioachimite di una morte all'età di settant'anni, e per mano di Dio, ma, soprattutto, al venir meno del primo serio candidato all'identificazione con l'Anticristo, la situazione, pur non essendo del tutto pacifica, era ben lungi dall'apparire apocalittica: "Et ego ipse [S. ha appena riferito dell'apparizione e scomparsa di uno pseudo-Federico] usque ad multos dies vix potui credere quod mortuus esset, nisi cum auribus meis ab ore Innocentii pape quarti audivi, cum in pleno populo Ferarie predicaret in suo reditu de Lugduno. Eram enim juxta eum et semper eum tangebam […]. Horrui cum audirem et vix potui credere. Eram enim Johachita et credebam et expectabam quod adhuc Fridericus majora mala esset facturus quam illa que fecerat, quamvis multa fecisset" (c. 282c; Scalia1, I, p. 251; Scalia2, I, p. 264; evento riportato una seconda volta molto più in là, c. 396a; Scalia1, II, p. 648; Scalia2, II, p. 675). Quando Federico era in vita, S. pensava anche lui che "in Friderico tunc temporis omnia essent complenda misteria" (c. 308b; Scalia1, I, p. 339; Scalia2, I, p. 356), opinione messa in bocca al confratello Ugo di Digne, francescano e convinto gioachimita, che S. contrappone a un domenicano in un formidabile certame oratorio, senz'altro fortemente rimaneggiato, sulla fondatezza dell'interpretazione delle profezie e della loro applicazione a Federico II.
Propaganda antimperiale, ripensamento di profezie: ma non basta. Perché il mestiere ‒ la predicazione ‒ non è mai estraneo alla Cronaca. Con la sua compiuta ambizione di pervenire a una scrittura storica, l'autore va anche in cerca di nuove storie per far ridere o tremare l'uditorio, per far meditare il pubblico. Ed è proprio con la figura di Federico, nella sua dimensione a metà strada fra il tragico e il malefico, che quest'esperienza si realizza pienamente. Assurto a 'tipo', il personaggio storico è oggetto di categorizzazioni che rendono il suo passaggio terreno una traiettoria ed exempla gli episodi selezionati della sua vita. Se pure Federico II si sottrae alla lunga galleria di personaggi che hanno avuto un inizio negativo e una fine migliore, un cattivo inizio, un buon ambiente e una buona fine, ecc., senza dubbio per l'esorbitanza del suo destino, nondimeno offre a varie riprese l'illustrazione di numerosi tratti significativi, vizi innanzitutto, ma talvolta anche qualità, sfumandone il ritratto e rendendolo più complesso.
Lo storico, infatti, è anche moralista. L'ingratitudine imperiale non si manifesta solo nei confronti del papa, ma anche verso gli amici. Federico non sa conservare le amicizie: un'inveterata propensione al sospetto e una sfrenata cupidigia si contendono la responsabilità della sparizione violenta di coloro che erano annoverati fra i suoi fedeli, come per esempio Pier della Vigna: "Nullius amicitiam conservare sciebat, quin etiam gloriabatur quod nunquam nutrierat aliquem porcum cujus non habuisset axungiam" (c. 293b; Scalia1, I, p. 288; Scalia2, I, p. 302), sentenza spiegata poco oltre ("omnes suos amicos finaliter vilificabat et confundebat et occidebat, ut substantiam et thesaurum et possessiones eorum diriperet et haberet sibi et filiis suis", c. 294b; Scalia1, I, p. 291; Scalia2, I, p. 305), e riferita ancora più avanti, che, nella sua brutale crudeltà, offre un altro esempio di attentato alla Creazione, di negazione dell'amore per il prossimo. Il fatto è che la brama di ricchezze (avaritia, cupiditas) è un altro vizio capitale di Federico; spiegazione un po' stringata, questa caratteristica sarebbe all'origine della sua volontà di spogliare perfino la Chiesa delle sue ricchezze e del suo potere.
Questi vizi non sono i soli esempi eloquenti offerti dalla persona dell'imperatore. La sua esistenza fornisce anche un'illustrazione vagheggiata, benché molto stereotipata, dei rovesci della fortuna ("quamvis magnus et dives et potens fuerit imperator, tamen multa habuit infortunia", c. 352a; Scalia1, I, p. 498; Scalia2, II, p. 524). Se è possibile elencare i suoi dodici crimini (descritti per filo e per segno, si è detto, nella cronaca minore oggi perduta) e le sue sette "superstizioni", il bilancio della sua vita consente anche di enumerare dieci infortuni, contando meglio addirittura dodici (l'importante era arrivare a una cifra facile da memorizzare per il predicatore): la rivolta del figlio Enrico, gli sforzi profusi per spogliare la Chiesa, il tentativo di soggiogare i comuni lombardi (s'intende che si tratta al contempo di cause e di manifestazioni dei suoi rovesci di fortuna), la deposizione a opera del papa (in quarta posizione soltanto!), il dolore mal tollerato di vedere la dignità imperiale conferita al langravio di Turingia, la ribellione di Parma, la perdita di Vittoria, la rivolta dei suoi baroni, la gelosia nel constatare la maggior stabilità della signoria di Uberto Pallavicini rispetto al suo dominio imperiale; e, come elementi accessori, la scomunica (all'undicesimo posto!) e i tentativi intrapresi dalla Chiesa per strappargli la Sicilia.
Dalla caratterizzazione tipologica degli uomini, e dall'attenzione peculiarmente francescana per tutto ciò che è vivo, all'osservazione, talvolta molto sottile, dei moti dell'animo il passo è breve. Con un voltafaccia che sorprende solo a metà, grazie a questa sensibilità Federico II è reso, se non simpatico, almeno terribilmente umano. Le attitudini, le origini di S. hanno fatto la loro parte. L'autore ammette di buon grado di aver 'amato' per qualche tempo l'imperatore. La superbia, noi diremmo la hybris del tiranno, la cui prima "superstizione" è quella di far mozzare il pollice a un notaio che ne ha storpiato il nome, da "Fridericus" a "Fredericus", può rapidamente tramutarsi, per effetto di un'intelligenza viva, in un tratto di carattere seducente. Ai funerali del figlio ribelle Enrico, morto misteriosamente, un predicatore francescano ha l'audacia di ricamare sul tema di Abramo che sguaina la spada per immolare il figlio, tanto che il pubblico arriva a temere per la vita del frate: ma l'imperatore, al contrario, sensibile alla bellezza della predica e alle sue considerazioni sulla giustizia, essendo assente, deciderà di farsi trasmettere la reportatio per meditarla (cc. 242d-243a; Scalia1, I, pp. 122-123; Scalia2, I, p. 126). Pur senza svilupparne esplicitamente la portata, in questo caso S. propone un duplice exemplum, sull'efficacia del buon predicatore e sul tiranno toccato dalla grazia.
In una luce ancora più positiva, il bilancio dei difetti dell'imperatore è mitigato da numerose qualità, tra le più care a S., sottolineate dalla rubrica "De bonitatibus Friderici et sufficientiis ejus", che tuttavia sono guastate dalla mancanza di fede: "Nota quod Fridericus quasi semper dilexit habere discordiam cum Ecclesia et eam multipliciter impugnavit, que nutrierat eum, defenderat et exaltaverat. De fide Dei nichil habebat. Callidus homo fuit, versutus, avarus, luxuriosus, malitiosus, iracundus. Et valens homo fuit interdum, quando voluit bonitates et curialitates suas ostendere, solatiosus, jocundus, delitiosus, industrius; legere, scribere et cantare sciebat et cantilenas et cantiones invenire; pulcher homo et bene formatus, sed medie stature fuit. Vidi enim eum et aliquando dilexi […]. Item multis linguis et variis loqui sciebat. Et, ut breviter me expediam, si bene fuisset catholicus et dilexisset Deum et Ecclesiam et animam suam, paucos habuisset in imperio pares in mundo" (cc. 354d-355a; Scalia1, I, pp. 507-508; Scalia2, II, pp. 533-534). Il procedimento di contrapporre qualità e difetti sarà ripreso perfino per la "vipera" Manfredi; rivendicato come l'esigenza, per lo storico, di non cedere al partito preso, deriva soprattutto dal moralista. Così, umano, troppo umano, il crudele Federico II può anche rientrare nella categoria degli uomini "cortesi" (che comprende sia s. Francesco, sia tutti coloro che illustrano la nobiltà dello spirito, corrispondendo più etimologicamente all'ideale curiale del S. aristocratico). Umano, troppo umano, con lo stesso tratto di carattere può servire il male e il bene. Il suo senso dell'umorismo, il suo modo di parlare yronice, o metaforice, può quindi ispirare una cattiva intenzione a doppio senso, annunciando in modo velato la morte che sta meditando per colui che in pubblico ancora blandisce: a Gerardo da Canale assicura un "innalzamento" (sul monte in cui sarà torturato), a Bernardo Rossi promette un altro cavallo (strumento di tortura e non cavalcatura); oppure può rivelarsi positivo, quando l'imperatore diverte la sua corte imitando la parlata ampollosa degli ambasciatori cremonesi, o, viceversa, quando ammette il motteggio curiale e le battute scherzose, anche se gli rammentano in modo sferzante la sua disfatta a Vittoria. Umano, troppo umano, l'imperatore tradisce ed è tradito, soffre e sospira; incontestabilmente, il passaggio più pregnante e intenso a questo proposito è, nella sua concisione, quello in cui Federico risponde alla contessa di Caserta, che vuole dimostrargli l'inevitabile sconfitta di qualsiasi guerra contro i comuni lombardi: "Cognosco, comitissa, quod verum dicis, sed in tantum jam procesi quod sine opprobrio meo amodo cessare non possum" (c. 336c; Scalia1, I, p. 441; Scalia2, II, p. 464). In queste parole l'osservatore della società scorge il fardello opprimente dell'onore aristocratico; il narratore avverte la forza drammatica del destino; lo storico percepisce il dovere ineluttabile di difesa di un'eredità troppo gravosa.
Sul finire della Cronaca, con il tempo che trascorre e il paesaggio che s'incupisce agli occhi del cronista ormai invecchiato, la duplicità dell'imperatore appare ancora più netta nelle espressioni che si fanno più laconiche: "Si habuit aliquas bonitates, habuit similiter et multas pravitates atque perversitates […]. Verumtamen sciendum quod non fuit ita crudelis sicut Icilinus da Romano […]. Aliquando fuit multum solatiosus homo, sed multos habuit insidiatores et mordaces qui querebant animam ejus, volentes eum occidere, maxime in Apulia et Sicilia atque in toto regno" (c. 456cd; Scalia1, II, pp. 859-860; Scalia2, II, pp. 888-889).
Ma né il conflitto radicale con la Chiesa né le più gravi bestemmie impediscono a Federico di rimanere sempre, per S., "imperator": nei momenti peggiori della lotta in Italia, appare come "Fridericus depositus" solo nelle annotazioni di carattere più storico, nelle registrazioni più 'notarili'; non appena il narratore si scalda e il tratto si anima riappare con naturalezza l'unico appellativo di "Fridericus imperator". Le dicerie riportate, la litania delle imprecazioni ‒ aggravate dalla disillusione di chi vede, da mezzo secolo, la sua terra natale messa a ferro e fuoco ‒ i cataloghi di difetti, non riescono a mascherare gli elementi di ammirazione: si sarebbe inclini a scorgervi, piuttosto che l'affiorare di una stima segreta, una mescolanza complessa di eredità della sua famiglia e della patria parmense, di ansia di comprendere il mondo nella sua complessità. Federico II non è autenticamente demonizzato, procedimento che è invece riservato alla figura di Ezzelino da Romano: se nel primo, a squarci, si riconoscono la figura di Lucifero o la sfrenatezza del Drago, ciò avviene in modo molto biblico, quasi disincarnato, nel solco delle attese gioachimite, mentre Ezzelino ha perduto qualsiasi umanità nel quotidiano.
Di parte e parziale, il ritratto di Federico II delineato da S. è quindi fondamentalmente complesso. Ed è questa stessa complessità a spiegare come Federico, in quanto imperatore e proprio in quanto tale, abbia costituito il cardine del tempo vissuto da S., attorno al quale si è organizzata la sua esperienza d'uomo e di cronista durante e dopo la vita del sovrano ‒ un onore che non sarà riservato a nessun papa e che, al principio della Cronaca, appare in forte contrasto con le storie prese in prestito da opere altrui: "sciendum est quod, secundum diversa tempora, unum tempus pulcriorem habuit historiam ad narrandum, quam habuerit aliud, et nos aliter historias narrare non possumus, nisi sicut de facto fuerunt et vidimus oculis nostris tempore imperii Friderici et post mortem ejus annis multis usque ad dies nostros, in quibus scribimus hec, anno Domini MCCLXXXIIII" (c. 287b; Scalia1, I, p. 267; Scalia2, I, p. 282).
Fonti e Bibl.: dell'opera di S. sono disponibili tre edizioni critiche, che hanno assommato progressivamente i vantaggi di nuove collazioni, ma che a modo loro sono tutte e tre utili. In primo luogo quella curata da Oswald Holder-Egger: Chronica fratris Salimbene de Adam ordinis minorum, in M.G.H., Scriptores, XXXII, 1905-1913, che propone a fondo pagina abbondanti annotazioni. Procedendo in modo inverso rispetto al curatore tedesco, al quale una morte prematura ha impedito di concludere le sue ricerche, e più filologiche, se si può dire, che storiche, le due edizioni successive di Giuseppe Scalia, apparse sotto il medesimo titolo, sono ancora più affidabili e maneggevoli: Salimbene de Adam, Cronica, Bari 1966 [cit.: Scalia1], e Turnholti 1998-1999 [cit.: Scalia2], entrambe in due volumi; quest'ultima edizione ha ricollocato a fondo pagina le identificazioni delle citazioni e ha permesso all'opera di S. di essere integrata nella concordanza lessicografica informatizzata CLCLT; ma le manca il ricchissimo indice di nomi propri che figurava nella precedente edizione. Le citazioni riportate nel mio scritto sono state controllate sull'ultima edizione; per maggior comodità sono state indicate come riferimento la carta e la colonna del manoscritto dell'autore che le tre edizioni indicano (il volume I dell'edizione Scalia1 si ferma a c. 395a; il volume I dell'edizione Scalia2 a c. 348c). La traduzione italiana di Bernardo Rossi (Salimbene de Adam da Parma, Cronaca, Bologna 1987) è piacevole e comoda, anche se è preferibile controllarla sul testo latino, e fornisce in appendice un'utilissima tavola cronologica sinottica. Fra le più recenti notizie bio-bibliografiche: A.I. Pini, Salimbene de Adam, in Repertorio della cronachistica emiliano-romagnola (secc. IX-XV), Roma 1991, pp. 241-249; O. Guyotjeannin, Salimbene de Adam, un chroniqueur franciscain, Turnhout 1995, con traduzione commentata di ventitré passaggi, tra cui il catalogo delle "superstizioni" dell'imperatore. Su Federico II in S.: F. Bernini, Frammenti trascurati d'una Cronaca minore di Salimbene, "Nuova Rivista Storica", 19, 1935, pp. 196-211; A. Crocco, Federico II nella Cronica di Salimbene, Napoli 1970 (non è stato possibile consultarlo); G. Barone, La propaganda antiimperiale nell'Italia federiciana: l'azione degli ordini mendicanti, in Federico II e le città italiane, a cura di P. Toubert-A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994, pp. 278-289; L. Gatto, Federico II nella Cronaca di Salimbene de Adam, in Federico II e le nuove culture. Atti del XXXI Convegno storico internazionale (Todi, 9-12 ottobre 1994), Spoleto 1995, pp. 507-528; F.M. De Robertis, Federico di Svevia nel mito e nella realtà, Bari 1998; A. Sommerlechner, "Stupor mundi"? Kaiser Friedrich II. und die mittelalterliche Geschichtsschreibung, Wien 1999.
Traduzione di Maria Paola Arena