CASTIGLIONE, Sabba (da)
Nacque a Milano con ogni probabilità il 5 dic. 1480 da Giovanni, della nobile e importante famiglia, e da Livia Alberici, secondo C. Castiglione (Un maestro di spirito..., in La scuola cattolica, LXV [1937], pp. 278-89).
Iniziò a Pavia studi giuridici, ma lasciò in tronco le leggi, che definì nei suoi Ricordi (ric. 92) simili alla cera, "perche si torcono dove si vuole",rincarando la dose nel giudicare gli avvocati. Nessun rimpianto ebbe dunque in seguito per non essersi addottorato, non ritrovando in sé le qualità per lui negative, necessario corredo dei legali.
Nella Milano sforzesca, "quando",cioè "quella patria hebbe più liete e benigne stelle", come egli nella lettera di dedica della sua operetta Consolatoria, la definì, e successimente durante i primi anni della dominazione francese, il C. fu in contatto probabilmente con gli ambienti letterari locali. Nella stessa operetta rivolta alla poetessa Camilla Scarampi, infatti, egli accenna all'amicizia che li legava. Inoltre nelle sue successive lettere alla marchesa di Mantova risultano evidenti la sua abitudine ed il suo interesse alla poesia.
La prima data certa nella vita del C. è quella del suo ingresso nella Religione dei cavalieri di S. Giovanni, il 5 ag. 1505. Nel maggio dello stesso anno, il C., prima di partire per Rodi, aveva fatto visita alla marchesa di Mantova, Isabella d'Este, che lo aveva incaricato di procurarle, potendo, qualche bell'oggetto antico.
Il C. si dedicò alla ricerca dei reperti archeologici richiestigli, con grande trasporto e con gran diligenza, facendosi subito notare per questo dai confratelli, che non approvavano la passione che lo animava. Poté tranquillamente applicarsi alle sue ricerche soltanto dopo un intervento del nipote del gran maestro, sollecitato dal C. per mezzo della marchesa. Il cavaliere gerosolimitano riuscì ad inviare a Mantova durante tutto il suo soggiorno una medaglia da Delo (avvolta in un suo sonetto), una statuetta senza testa e senza braccia, che egli giudicò sarebbe piaciuta a Mantegna e a Giovanni Cristoforo Romano, due teste di amazzoni, da Alicarnasso, un mostro marino che "con lascivo atto fa vezzi ad una ninfa",tre teste di marmo da Coo ed un altro torso da Delo. Ad un certo punto il C. credette di poter inviare in Italia l'intera tomba di Alicarnasso, ma non riuscì a realizzare questo troppo ambizioso proposito. Nell'isola il C., che nelle prime lettere alla marchesa aveva deprecato lo stato di abbandono in cui si trovavano tante reliquie antiche, esplicò una certa qual attività letteraria. Oltre al sonetto già citato, ne scrisse un altro, da lui deposto sulle statue tristemente soggiacenti alle intemperie, e inviato in copia a Mantova, ambedue perduti. Nelle preziose lettere, rinvenute nel copialettere della marchesa ed edite da A. Luzio (Lettere inedite di fra' S. da C., in Arch. stor. lomb., s. 2, III [1886], pp. 91-112), il C. accenna anche a una sua raccolta di epigrafi, che probabilmente egli non portò mai a termine, e ad un'opera sulla cavalleria, cui lavorava, che non ci è pervenuta, ma che era forse la prima elaborazione dei suoi Ricordi. La vita nell'isola, con gli obblighi militari che gli imponeva, con la solitudine, in cui lo stringeva (anche se in seguito egli dimostrò di apprezzare una vita di isolamento), con l'impossibilità di attendere agli studi, rese presto il C. desideroso di tornare in Italia.
Già nel marzo del 1507 egli interessò la Este, per avere un incarico lontano da Rodi. L'anno dopo egli ottenne di poter coadiuvare il procuratore dell'Ordine a Roma, Fabrizio del Carretto.
Prima di giungere nell'urbe nella prima metà di luglio, il C., facendo scalo a Napoli, si incontrò con il Sannazaro, a cui espose le sue teorie linguistiche.
Il cavaliere gerosolimitano rimase a Roma circa sette anni. Ivi egli poteva non dirigere, ma certo essere a parte dei disegni, diplomatici mondiali, né doveva sopportare la noia di Rodi. Ma non vi visse volentieri e nei suoi Ricordi espresse ciò che pensava della corte romana, definendola "fucina, nido et albergo di tutti i vitii et oscenità del mondo", ove "le dignità et gradi" erano "mal collocati et indegnamente posti" (ric. 72). Dall'oscurità in cui è avvolto questo periodo della vita del C. emerge soltanto la notizia di un incarico ufficiale commessogli da Leone X, che lo inviò a Verona nel 1515 a incontrare Marcantonio Colonna, e quella di una sua lettera del 1511 - anno in cui egli fu fatto procuratore generale dell'Ordine -, scritta da Bologna all'agente della Religione gerosolimitana a Roma, importante più che altro perché rivela lo stato d'animo risentito e amareggiato del Castiglione. Egli infatti non esita in essa ad accusare un confratello, Giorgio Scotto, di mentire "per le canne" e a dipingere il carattere ostinato di Giulio II, che, dice, se "vole fare una cosa la fa omnibus invitis et quando non la vole fare non la fa, etiam omnibus rogantibus".
All'inizio del 1515 il C. prendeva possesso per procura della commenda di S. Maria Maddalena della Magione nel borgo Durbecco a Faenza e di quella annessa di Meldola.
Si deve credere, anche se questa notizia è confermata solo indirettamente dalla data di composizione - Rodi, 25 nov. 1517 -,apposta alla sua Consolatoria, che egli fece un altro soggiorno nell'isola, più breve questa volta e senza altre testimonianze che quella citata. In epoca imprecisata, ma ristretta fra la fine del 1517 e la fine del 1519, il C. si ritirò alla Magione, dove rimase, volutamente segregato, fino alla morte.
Con ogni probabilità egli non aveva ancora quarant'anni ed aveva rivelato con grande intensità, si direbbe con passionalità, i suoi interessi artistici e letterari; ma nella Roma di Giulio II, che egli non mancò di biasimare nella sua Consolatoria, definendolo uomo "la cui inquieta mente et di nuove cose cupida, alli nostri turbulenti tempi il mondo sottosopra rivolse",e del grande papa mecenate, Leone X, non solo egli non aveva potuto svilupparli, ma si era sentito evidentemente respinto e schiacciato. Il ritiro alla Magione sembra quindi la protesta e lo sdegno di chi rifiuta di vivere nella mediocrità in un centro quale era la Roma di allora. Solo un orgoglio smisurato può dare corso ad una protesta di questo genere; ed essa sarebbe stata perfettamente realizzata, se egli avesse nel modo più completo interrotto ogni comunicazione con quel mondo che aveva rifiutato. Tale atteggiamento è però contraddetto dalla composizione e dalla pubblicazione dei Ricordi, avvertimenti ad un pronipote, che, iniziati con il solo intento didascalico, servirono poi finalmente a rivelare in primo luogo la sua amarezza, in secondo la sua fede religiosa, che era chiaramente lo scudo che egli frapponeva tra il mondo ed il suo sentimento di sdegno, di cui evidentemente aveva paura.
È priva di fondamento la convinzione di molti studiosi, che egli avesse partecipato allo sfortunato assedio di Rodi nel 1522, rimanendo ferito alla mano destra; egli infatti usava sì scrivere con la mano sinistra, ma lo diceva a lui naturale.
Gli avvenimenti pubblici e semipubblici cui partecipò negli anni in cui rimase alla Magione sono di rapidissima enumerazione: la partecipazione ad una processione nel 1525 per soddisfare l'invito di Giacomo Guicciardini; un incontro con il Bembo a Padova l'anno successivo; le visite che Clemente VII di passaggio per e da Bologna, ove avvenne l'incoronazione di Carlo V, gli rese il 22 ott. 1529 e l'11 apr. 1530; quindi la rinuncia alla commenda nel 1544 in favore del pronipote Bartolomeo. Infine la morte il 16 marzo 1554.
Aveva fatto l'ultimo testamento l'11 dic. 1550 e in esso, oltre ad elargire parecchie elemosine e legati al pronipote, lasciò suo erede universale l'Ordine cui apparteneva. Soprattutto però confermò le disposizioni per la scuola destinata ai fanciulli poveri da lui fondata nel 1536. Essa, dotata dal C. nel 1540, era situata in una casa annessa alla commenda, fornita di giardino e portico. Questo "ludus litterarius",il cui maestro era designato nel rettore della chiesa di S. Maria Maddalena, poteva accogliere gratis tredici fanciulli poveri ed accettare a pagamento altri ragazzi che volessero frequentarla.
Il C. lasciava inoltre la sua biblioteca e gli oggetti artistici in suo possesso in uso agli insegnanti ed agli allievi della scuola ed a tutti gli studiosi che ne volessero usufruire. Di essa egli stava allora ancora provvedendo alla sistemazione materiale nel campanile della chiesa. Composta di opere a stampa e di qualche codice, essa fu smembrata nel 1830, andando per la maggior parte dispersa (solo pochi pezzi finirono nella Biblioteca comunale di Faenza).
Secondo la sua volontà il C. fu sepolto nella chiesa della Magione. La lapide funeraria, dettata da lui stesso, riecheggia forse quella del Platina ed è comunque classicheggiante e di gusto umanistico. In essa il C., rivolgendosi al viandante, confessa "qualis fuerim nec ego scivi" il che in effetti dimostra la sua "tensione spirituale... [di] uomo moderno",come giustamente mette in rilievo G. Schizzerotto, ma rivela anche che la solitudine della Magione non lo aveva placato e che egli non era in fondo pienamente soddisfatto della figura di saggio, dotto e benefico commendatario che si era andata creando. Non è facile ipotizzare quali siano state le aspirazioni mancate del C., ma dall'entusiasmo, rilevabile nelle lettere da Rodi del giovane cavaliere estetizzante, amante dell'arte, appassionato antiquario, pieno di progetti letterari ed eruditi, sembrerebbe che esse siano state di tipo letterario e latamente artistico.
Oltre questa lapide si conoscono una quindicina di iscrizioni dettate dal C., alcune delle quali interessanti anche per la loro realizzazione materiale, ed una perduta, conservataci dalla testimonianza di L. Schrader (Monumentorum Italiae... libri quatuor, Helmaestadii 1592, c. 405v), in cui ancora una volta egli ripete, riferiti a se stesso, gli aggettivi di "solitarius" e "contentus",a sbandierare quasi, rivolgendosi con reminiscenza classica all'immaginario viandante, questa sua solitudine e questa sua ostentata tranquillità di spirito. Il gusto epigrafico del C., sottolineato da A. Campana e da G. Schizzerotto, traspare anche dalla sua opera maggiore e da quel suo progetto sulla raccolta di epitaffi, cui si è già accennato.
Un'altra opera non reperita del C. sono gli Ammaestramenti matrimoniali, attribuitigli per primo da G. Ghilini (Teatro d'huomini letterati, II, Venetia 1647, p. 224); qualche studioso però dubita della loro esistenza, poiché il sottotitolo di Ammaestramenti nei Ricordi dalla terza edizione in poi può aver generato una confusione, e condotto allo sdoppiamento dei titoli di un'unica opera reale. Anche l'Epistoletta della solitaria vita, citata dal C. nella lettera diretta con ogni probabilità a Leandro Alberti, pubblicata alla fine dei Ricordi, è andata dispersa. Nel 1865, a Lucca, fu invece pubblicata una novella del C., da un anonimo curatore, che non specificò che essa era inserita nei Ricordi (ric. 109). Scritta con uno stile ed un andamento boccacciano, anche nei particolari, avulsa dal contesto, essa sembra adattarsi male allo sdegnoso e solitario cavaliere di Rodi. Sorprende meno però quando si pensi che il C. è stato rivelato, o per meglio dire riscoperto, autore di un altro componimento, questa volta in versi, edificante, se si vuole, ma sempre lontano da uno stile severo: Il lamento pietoso del disgratiato Clonico pastore contro d'amore et di Delia crudele da lui sommamente amata o Barona. Questo componimento, il cui valore letterario non è certo rilevante, è una favola pastorale di 109 ottave. Al pastore Clonico capita di sorprendere una bionda ninfa nell'atto di bagnarsi. Scacciatone, se ne innamora e tenta più volte per lei il suicidio, finché ad un ultimo tentativo l'apparizione di Diana lo induce a desistere; Clonico allora intraprende la scalata di un monte che lo porterà, puro, al tempio di Apollo, dove riacquisterà la tranquillità. La favola, con evidenti influenze dantesche e petrarchesche e con più profonde affinità con l'Arcadia del Sannazaro, fu pubblicata per i tipi di Girolamo Pencio il 24 genn. 1528 a Venezia. Sembra che l'editore ne intraprese la stampa, senza aver ricercato il permesso esplicito dell'autore, a suo dire, per difendere l'autenticità dell'attribuzione al Castiglione. Forse essa fu anche rappresentata.
Nel 1528 il C. era ormai alla Magione da più di due lustri e l'immagine di lui, schivo, benefico, pio e lontano dalle vanità era già abbozzata. All'iniziativa del Pencio, a quanto se ne sa, il C. oppose un silenzio ininterrotto fino alla morte, ma, come è difficile non presupporlo irritato, così non è facile non considerare una sua contromossa la pubblicazione, circa un anno dopo, dell'altra sua operetta, la Consolatoria. Datata Rodi 25 nov. 1517, questa fu stampata a Bologna nel marzo del 1529. Come si apprende dalla lettera di dedica a Giacomo Guicciardini, vicepresidente della Romagna, scritta il 15 marzo 1527 dalla Magione, il C. l'aveva sottoposta nel giro di quei dieci anni all'esame di Francesco Guicciardini, tramite Niccolò Machiavelli, di Panfilo Sasso, prima della sua morte, e dello stesso dedicatario, i quali tutti ne avevano dato un giudizio positivo e l'avevano ritenuta degna di essere pubblicata. L'occasione di comporla era stata offerta al C. dal desiderio di condolersi con Camilla Scarampi, per la morte del marito Ambrogio Guidoboni. In essa banali esortazioni alla rassegnazione, che il tempo, la fede e la consapevolezza dei meriti del marito si incaricheranno di propiziare, danno modo al C. di compilare una lunga serie di citazioni.
In quest'opera, anch'essa di modesto valore letterario, è da rilevare la reverenza e l'affetto con cui il C. menziona, nella lettera di dedica al Guicciardini, Panfilo Sasso, letterato, ma anche uomo che fu in sospetto di eresia e se ne dovette difendere; e questo atteggiamento appare abbastanza sorprendente in un uomo che, come vedremo, si scaglierà con violenza contro ogni eresia; inoltre è da notare il riferimento del C. all'oscura "sepoltura", in cui giacciono i frammenti delle sue "giovenili inettie", che in altro luogo egli specifica essere tutte in volgare; questa produzione quindi, che in parte il C. probabilmente rifuse nei Ricordi, era gelosamente conservata e non ritenuta degna di distruzione. Avvalora questo attaccamento del cavaliere alle sue composizioni giovanili l'iter della Consolatoria, rispetto al tempo - più di due lustri separano la morte del Guidobono dalla pubblicazione dell'opera - e rispetto ai personaggi al cui giudizio fu sottoposta.
L'opera principale del C., i Ricordi, è costituita da una serie di consigli isolati l'uno dall'altro, che l'autore rivolge al pronipote, Bartolomeo Righi, figlio della figlia della sorella, anch'egli cavaliere gerosolimitano. Essi, terminati dal C. il 23 ag. 1545, furono pubblicati per la prima volta a Bologna, probabilmente l'anno successivo, secondo la data (9 febbr. 1546) della lettera riportata alla fine del testo, indirizzata dall'autore probabilmente a Leandro Alberti. Mentre in questa prima edizione gli "avvertimenti" sono 72, nella seconda, rivolta con maggiore ambizione, oltre che al pronipote anche "a' cavalieri et altre persone che hanno il natural desio di sapere, ma non sanno il latino",essi salgono a 122. Essa, terminata il 7 ott. 1549, fu probabilmente edita nello stesso anno, a Bologna. La terza edizione, esemplata su un manoscritto, oggi conservato nella Biblioteca comunale di Faenza, di mano di Zaccaria Bellenghi, cappellano del C., con correzioni di quest'ultimo, recante la data 10 giugno 1553, uscì nel 1554-55, a Venezia, poco dopo cioè la morte dell'autore. In essa, che risulta rivista anche in quanto alla forma, i "ricordi" sono 133 ed alla fine di essi (come avverrà anche nell'edizione dello stesso editore del 1559-60) è ristampata la Consolatoria. La fortuna di quest'opera, se non straordinaria, fu certo notevole, perché alla fine del secolo ne erano state pubblicate ventitré edizioni (dalla prima).
Nella lettera all'Alberti, il C. sostiene, pur riconoscendo le qualità del toscano, di voler usare il lombardo, per inclinazione, per capacità, per scelta, chiamando a testimoni di ciò Dante,Boccaccio e Petrarca "lucerne... del volgare",che non sdegnarono di introdurre nel loro toscano parole di varia provenienza. Argomentando inoltre come il volgare, che subisce gli influssi delle altre lingue, sia cosa viva, che si evolve continuamente, il C., che, come si è detto, aveva sottoposto i suoi principi in questo campo al Sannazaro ed al Bembo, si ripropone di adoperare soltanto vocaboli "buoni e cioè non "inusitati",né "plebei et contadineschi". Comunque il C. non fu l'unico scrittore del tempo ad enunciare questa preferenza per il lombardo e la sua prosa, che non si differenzia sostanzialmente da quella dei contemporanei, fu giudicata "pesante, piena di ripetizioni" e "di laboriosa lettura" (E. Bonnaffè, S. da C., in Gazette des Beaux-Arts, XXX[1884], pp. 19-33), anche se non le si può negare a volte una ruvida immediatezza.
L'opera si compone di due serie di "avvertimenti",gli uni strettamente legati all'idea iniziale del C. di fornire al pronipote utili consigli per divenire un perfetto cavaliere gerosolimitano, gli altri, veri e propri trattatelli, che il C. compilò ampliando nelle successive edizioni il numero e la portata dei singoli brani. Pur non avendo un ampio respiro, essi presentano un notevole interesse, specie se rapportati alle opere dei contemporanei sugli stessi argomenti; i Ricordi comprendono infatti capitoli dedicati al cortigiano della sua epoca, al governo delle città, al principe ed al tiranno, all'uomo d'armi ed al religioso, ed al matrimonio; inoltre un paio di capitoli risultano molto interessanti dal punto di vista della storia e della critica d'arte.
Nei "ricordi" riferiti più direttamente al pronipote, il C. si limita ad invitare Bartolomeo ad una vita rigidamente consona ai precetti della religione cristiana e alle regole dell'Ordine, lontana dalle vanità di ogni tipo, dalle occasioni e dalle apparenze del peccato, scendendo a suggerire regole igieniche e precetti del vivere civile e della buona amministrazione; inoltre il C. consiglia il cavaliere di essere un buon soldato e di fuggire l'ozio, perché la preghiera e la contemplazione non bastano a servire bene Iddio. Anche in questo tipo di avvertimenti, piuttosto generici e poco originali, emerge il pensiero del C. riguardo alla Chiesa ed alle eresie, che costituisce, insieme con l'insoddisfazione e l'insofferenza per il mondo contemporaneo, il tessuto connettivo di tutta l'opera. Il mondo per il C. è un licenzioso campo di tutti i vizi, è maligno, vario ed instabile, scellerato, tribolato, depravato; la natura umana è infetta e corrotta, inclinata a peccare; i suoi tempi sono corrotti e dissoluti, depravati, deplorati; le mode sono ridicole e vane, l'umanità è colpita da mali fisici mai visti prima; perfino le buone lettere "hanno fatto un naufragio universale" (ric. 118); l'Italia è degenerata, "vil gufo spennacchiato",Roma è la nuova Babilonia, tiranneggiata da molti vizi, la Romagna è afflitta, povera, mal divisa, piena di inimicizie e di odi, di discordie e di rancori, ed a tutto ciò non si può opporre come rimedio che la grazia divina e la consapevolezza che solo Dio può aiutare gli uomini, se essi agiranno secondo i suoi dettami.
Fra tutti i mali che affliggono l'umanità, il C. considera però l'eresia il peggiore, lanciandosi contro di essa con violenza quasi delirante: essa è zizzania, pianta pestifera e velenosa, peste mortale, pernicioso e mortal veleno; Lutero è precursore dell'Anticristo, primogenito, satellite e ministro del diavolo; gli eretici seguono una Chiesa di malignanti, una sinagoga di scellerati, fondata sopra l'avarizia e tutte le sensualità e sporcizie del mondo; la Germania, l'Inghilterra ed ormai anche alcune città italiane ne sono infettate; la dottrina falsa e dannata può essere diffusa anche dai pulpiti - non si dimentichi che Bernardino Ochino predicò in Faenza più volte prima di fuggire a Ginevra - e nel complesso l'umanità è sommersa in tal modo dai vizi e dai peccati, che il C. è sicuro che la fine del mondo sia alle porte e che il giudizio universale sia imminente. Il C. non può negare che la responsabilità di questo flagello risalga ai peccati degli uomini in generale, ed ancor più a quelli dei prelati, ma la sua speranza e la sua fede sono nel concilio, che "riformerà, repararà, instaurerà il vivere cristiano, sì del chierico come del seculare" (ric. 124). In questa sua concezione il C. è un uomo profondamente inserito nel movimento della Controriforma, iniziato da poco, ma così sentito in larghi strati di cattolici.
Da tutta l'opera e specificatamente nei "ricordi" che si riferiscono a come deve essere un principe (73), come si deve governare una Città (123), sul tiranno (110) e sugli uomini grandi nel mondo (118), emerge che i principi che il C. ammira di più sono Cosimo de' Medici per il presente e Ferdinando il Cattolico per il passato e come egli parteggi nella lotta in atto fra il re cristianissimo e Carlo V per quest'ultimo, di cui tesse gli elogi, anche se non con molta partecipazione. Mentre il tiranno non deve essere tale soprattutto perché la sua vita non sarà mai tranquilla, per il concetto di principe e di repubblica il C. entra decisamente in polemica con il Machiavelli e con il Guicciardini - che non apprezzavano gli scrittori che parlavano di repubbliche e di principati ideali - sostenendo di voler descrivere l'una e l'altro come dovrebbero essere e di credere che, forse, qualche principe simile a quelli da lui descritti esiste, mantenendosi così arroccato a concezioni tradizionali.
Nel capitolo che tratta del cortigiano dei suoi tempi, in fondo il C. non ha l'ambizione di indicare come questi dovrebbe essere, e, usando talvolta parole molto dure, si limita a denunciare le manchevolezze che caratterizzano la categoria.
Giudizio positivo dà invece il C. dei soldati italiani nel capitolo sul capitano d'armi (120). In esso il C., pur riallacciandosi al vecchio modello di capitano prudente di tipo sforzesco, fa un elenco particolareggiato dei vari tipi di fanteria dell'epoca, delle loro qualità e dei loro difetti, come anche delle cavallerie e dei cavalli secondo il luogo di provenienza.
L'interesse del C. per le lettere non è, come si è visto, deducibile solo dai Ricordi;in essi tuttavia prevale sempre l'intento dottrinale e didascalico. Le citazioni sono tratte molto spesso dalla Bibbia, ma anche dai Padri della Chiesa e dai filosofi greci e latini. Fra i contemporanei il C. cita il Sannazaro, il Bembo, il suo lontano parente Baldassarre Castiglione, il Pontano. Dante, Boccaccio e Petrarca sono lodati con venerazione, ma alcune loro opere, come la Vita nova, il Canzoniere, il Decameròn, Fiammetta, ecc., sono giudicate non edificanti e perciò non adatte alla lettura, perché farebbero perdere tempo o addirittura peccare. Tuttavia il suo interesse per le buone lettere diviene evidente nella particolareggiatissima - si direbbe, amorosa - descrizione del Virgilio ambrosiano del Petrarca, che il C. vide nella biblioteca di Pavia, quando era "ancor giovinetto",prima che essa divenisse preda "di genti tanto vaghe... della virtù, quanto il cane dell'acqua bollita" (ric. 113). Parimenti il C. si dimostra attento ai particolari, estetici ma non poco importanti, del libro a stampa, sostenendo (nello stesso ricordo) che i libri fatui, da lui condannati come vanitas vanitatum (opere come il Decameròn, l'Orlando furioso, il Morgante),sono editi elegantemente, mentre le opere dei grandi dottori della Chiesa sono "impresse in lettere cieche, sozze, brutte, disgratiate".
Un'idea costante del C., anche in questo aderente allo spirito della Controriforma, è che bisogna che tutti sappiano leggere e scrivere. Il principe deve essere letterato, e questo non è certo notevole, ma tale deve essere anche il capitano d'armi; il religioso deve leggere, se non sa il latino, libri edificanti in volgare ed almeno saper leggere ed intendere la messa; si deve leggere per fuggire l'ozio, migliorandosi ed istruendosi (38), leggere cioè cose che siano degne di essere state scritte e scrivere cose degne di esser lette (80); leggano anche le donne, pur scegliendo le letture con molta prudenza; i padri insegnino a leggere ai figli.
Dimostrando che il "poco" di cui nella epigrafe funebre si dichiara contento era un poco colto e raffinato, si direbbe aristocratico, il C., nel ric. 109, descrive le opere d'arte che adornavano la sua casa, alcune delle quali sono conservate dal 1870 nella Pinacoteca comunale di Faenza. L'elenco enumera una Testa di s. Giovanni Battista in marmo, opera di Donatello, paragonato dal C. ai mitici scultori greci, un S. Girolamo in altorilievo di terracotta che fingeva il bronzo di Alfonso Lombardi, tre quadri in tarsia di legno, opere di Damiano Zambelli di Bergamo, autore del coro di S. Domenico di Bologna, definito dal C. l'ottava meraviglia del mondo. Il cavaliere possedeva inoltre una tavola da pranzo intarsiata, opera del medesimo artista, ed un'urna d'alabastro orientale.
Un'enumerazione di artisti e di opere d'arte nello stesso "ricordo" ed accenni in altri (111, 118) mostrano come il C. non fosse solo genericamente interessato alle arti figurative, ma anche minutamente informato. Questa elencazione, che comprende Michelangelo, Leonardo, di cui ricorda un leggendario cavallo che doveva servire per la statua equestre di Francesco Sforza, già distrutto al tempo del C., Giovanni Cristoforo Romano, per cui ha parole di altissimo elogio, Verrocchio e Pollaiolo fra gli scultori, Mantegna, Raffaello, Giulio Romano, è estesa anche ad orafi, medaglisti ed incisori, come il Dürer, di cui il C. si professa ammiratore entusiasta.
Il cavaliere include in questa lista anche i pittori Gerolamo Pennacchi da Treviso il Giovane, e Francesco Menzocchi, che lavorarono per lui nella chiesa della Magione. Quest'ultimo fu l'autore dell'affresco monocromo che sovrasta e circonda la lapide funeraria del C., rappresentante la Sacra Famiglia al centro e figure allegoriche sui lati. Il primo invece dipinse nell'abside della stessa chiesa un affresco rappresentante una Madonna con il Bambino con i santi Giovannino, Maria Maddalena e Caterina, sulla sinistra della quale sta il C. inginocchiato e vestito con l'abito dei cavalieri di Rodi; l'opera è datata 1533. Fino all'inizio del Settecento era visibile sulla parete destra della chiesa un altro affresco monocromo rappresentante i quattro santi protettori di Faenza, fatti dipingere dal C., di cui era autore con ogni probabilità il medesimo pittore.
Nel campo della critica artistica, anche se si deve considerare "moderna" la sua predilezione per il Dürer, il C. non precorse i tempi. Similmente, in campo genericamente trattatistico, egli restò ancorato alla sua epoca, alle convenzioni ed alla difesa dell'ordine stabilito, anche se talune affermazioni sporadiche, come che "le forca non sono fatte per li ladri, ma per li poveri et sciagurati" (ric. 116), appaiono fuori della linea convenzionale. Del pari in contrasto con il modello del campione della Controriforma, dalla fede granitica, che si è voluto vedere in lui, sembra essere l'affermazione che il mondo è come il mare, bello ed amarissimo, ed il suo unico porto è la morte (ric. 81), in cui si intravvede forse l'eco dei suoi sentimenti di ripulsa, di amarezza, di rimpianto.
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