RUTILIO Namaziano (Claudius Rutilius Namatianus)
Poeta latino. Si dubita se nel suo nome vada premesso Claudius o Rutilius. Nacque nella Gallia, ma non si sa dove. Appartenne alla società più eletta del tempo. Figlio d'un magistrato celebre per la sua integrità, fu magistrato egli stesso, coprendo nel 412 la carica di magister officiorum e nel 414 quella di praefectus urbi. Nell'autunno del 416 o poco più tardi egli, per ragioni d'interesse, fu costretto a ritornare nel paese nativo, che i Visigoti, scorrazzando allora per il territorio che si estende dai Pirenei alla Senna, avevano messo a ferro e a fuoco. Poiché anche in Italia le strade erano spesso impraticabili e malsicure, R. s' imbarcò a Portus Augusti e, durante le lunghe ore di navigazione, fissò le sue impressioni nei distici del poema intitolato De reditu suo in due libri, l'uno di 664 versi e l'altro, evidentemente frammentario, di 68.
Le tappe principali del suo viaggio furono Centumcellae, Portus Herculis presso l'Argentarius, Populonia, Falesia nel giorno delle feste di Osiride, la Villa Triturrita ch'era il porto di Pisa, Pisa stessa, Portus Lunae. Le bellezze naturali delle coste frastagliate della penisola, l'isola d'Elba e le montagne della Corsica profilantisi sull'orizzonte destano l'interesse del poeta, che esce in caldi accenti d'ammirazione davanti allo spettacolo degli Appennini, sentinelle avanzate del Lazio. L'Itinerario, pieno di movimento e di vita, cessa a un tratto per motivi a noi ignoti. Nella letteratura latina non mancano esempî d'itinerarî in prosa e in versi; ma quello di R. eccelle sugli altri, non già per documentazione storica più diligente o descrizioni geografiche più precise, ma per la sincerità dell'ispirazione e il senso artistico. Il suo grande amore era Roma, la città dal cielo limpido e puro, sfolgorante della luce candida che bagna i suoi colli, insigne per la potenza che estendeva ai confini del mondo, grande per la sua storia, magnanima con i vinti, capace di rinnovarsi e risorgere dopo le prove più gravi. Come la strage dell'Allia non aveva allontanata dal capo di Brenno la vindice pena, così il Cartaginese aveva pianto sui suoi successi. L'entusiasmo rende il poeta cieco davanti alla realtà del triste presente, e appena lo sfiora il presentimento della rovina imminente. Animo aperto all'impeto della passione, R. alle effusioni di amore alterna gli scatti dell'odio. Egli detesta la memoria di Stilicone che, nuovo Nerone, lacerò il seno della patria. Con un'inconfessata ostilità contro il cristianesimo che pur era la religione dello stato, egli si burla della vita di sacrificio dei monaci che si rendono infelici per terrore di esserlo. Il suo sdegno verso i Giudei lo spinge a imprecare contro la conquista della loro terra da cui esala il contagio che ormai infetta anche i vincitori.
La voce di Rutilio intona l'ultimo canto della poesia profana latina; un canto ispirato a nobili sensi di romanità, come il Carme secolare di Orazio, e forse pervaso da un fervore di sentimento più intimo e sincero, in quel metro con il quale Tibullo (II, 5) e Properzio (IV, 1) avevano celebrato i trionfi latini ed Ovidio (Trist., I, 10) aveva confessato il suo schianto percorrendo la desolata via dell'esilio senza ritorno.
Ediz.: Cl. Rutilius Namatianus. Èdition critique accompagnée d'une traduction française, Parigi 1904, critica con ampio commento di E. Vessereau. Altra buona edizione critica con introduzione, apparato critico e commento di R. Helm, Heidelberg 1933.
Bibl.: C. Pascal, L'ultimo canto romano e la fine del paganesimo, in Dei e diavoli. Saggi sul paganesimo morente, Firenze 1904, p. 123 segg.; R. Pichon, Les derniers écrivains profanes, Parigi 1906.