Russia
Bol'šaja strana,
"grande terra"
I grandi dilemmi dello Stato russo
di Sergio Romano
14 marzo
Vladimir Putin viene rieletto alla presidenza della Russia con il 71,2% dei voti, distaccando di oltre 57 punti il leader del Partito comunista Nikolaj Kharitonov. Nonostante il clima di tensione provocato dai ripetuti attacchi della guerriglia cecena, la vittoria di Putin era data per scontata in tutti i sondaggi, stanti la mancanza di una vera opposizione e la larga condivisione dei punti centrali della politica sostenuta dal presidente: ferma lotta al terrorismo e accelerazione dei ritmi dell'incremento dell'economia.
Le incertezze del quadro
Quando l'Unione Sovietica si dissolse, nel dicembre del 1991, nessuno avrebbe potuto affermare con assoluta certezza che la nuova carta geografica, disegnata dai tumultuosi avvenimenti dell'estate e dell'autunno, era destinata a durare nel tempo. Dei quindici eredi dell'URSS, la Repubblica russa era di gran lunga il più grande, il più potente e il più ricco. Ma era altresì un mosaico di etnie, lingue, religioni, repubbliche e regioni autonome. Secondo molti osservatori, Mosca avrebbe cercato di ristabilire la sua autorità sui territori che appartenevano da tempo alla sfera d'influenza dello Stato russo. Secondo altri, la nuova Russia (anch'essa, come l'URSS, Stato federale) sarebbe stata afflitta dalle spinte centrifughe che avevano distrutto l'Unione Sovietica. Le due analisi erano contraddittorie, ma egualmente calzanti.
Negli anni seguenti la Russia mantenne basi militari in alcune repubbliche ex sovietiche e si servì di uno strumento particolarmente efficace (i rifornimenti energetici) per ripristinare la sua autorità soprattutto in Bielorussia, Caucaso e Asia centrale. Ma dovette far fronte a spinte secessioniste, di cui quella cecena fu la più pericolosa, e tollerare che i governatori delle repubbliche federate più lontane dal centro dello Stato gestissero il loro territorio come un feudo personale. La situazione era ulteriormente complicata dai travagli di un paese che in quegli anni dovette costruire e sperimentare un nuovo sistema politico, smantellare l''economia di comando', privatizzare una buona parte dell'apparato industriale, affrontare le conseguenze sociali di un'inflazione galoppante e definire i propri rapporti politico-militari con la maggiore potenza mondiale.
Da allora alcune incertezze sono state dissipate e alcuni tratti della carta geografica hanno acquistato maggiore stabilità. Le tre repubbliche del Baltico sono uscite definitivamente dall'orbita russa entrando nella NATO (aprile 2004) e nell'Unione Europea (1° maggio dello stesso anno). L'Ucraina ha rafforzato la sua indipendenza dalla Russia accettando di partecipare alla guerra americana in Iraq. La Bielorussia è ormai quasi interamente sotto l'ala protettrice del governo di Mosca. La Moldova gode di una sovranità precaria e deve tollerare la presenza di truppe russe in una provincia (la Transdniestria) abitata prevalentemente da russi e ucraini. Le truppe russe sono presenti anche in Georgia, dove sfruttano le spinte secessioniste degli scorsi anni, e in Asia centrale, ma in condizioni alquanto diverse da quelle degli anni Novanta. Oggi, a differenza di quanto accadeva allora, la presenza russa si scontra con una presenza americana sempre più evidente e aggressiva.
Il mutamento è dovuto, paradossalmente, a un fattore che aveva reso più cordiali, fra il 2001 e il 2002, i rapporti russo-americani: la guerra degli Stati Uniti contro il terrorismo dopo gli attacchi dell'11 settembre. L'evoluzione delle relazioni fra i due paesi negli ultimi tre anni merita una breve analisi. Servirà a comprendere la strategia politica di Vladimir Putin, presidente dal marzo del 2000.
I rapporti con gli USA
Dopo gli attacchi alle Torri, il presidente russo assicurò immediatamente a George W. Bush la sua solidarietà. Aveva capito che l'America avrebbe avuto bisogno del suo aiuto e che la battaglia degli Stati Uniti contro il fondamentalismo islamico avrebbe legittimato, a posteriori, la durezza con cui lo stesso Putin aveva trattato la questione cecena. La Russia, d'ora in poi, avrebbe potuto sostenere che la brutalità del conflitto era giustificata dalla necessità di battere un nemico insidioso e fanatico, alimentato intellettualmente e finanziariamente dal regime talebano dell'Afghanistan, vale a dire dallo Stato in cui Osama Bin Laden aveva creato centri di addestramento delle sue milizie. E l'America, lieta di avere la Russia al suo fianco, avrebbe smesso di denunciare la violazione dei diritti umani e i crimini di guerra commessi dalle truppe russe in territorio ceceno.
Per alcuni mesi i fatti confermarono le previsioni e le speranze di Putin. Non appena decisero di fare guerra al regime di Kabul gli americani chiesero alla Russia l'uso del suo spazio aereo e ottennero, con il beneplacito e i buoni uffici di Mosca, la collaborazione di due repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale confinanti con l'Afghanistan: l'Uzbekistan e il Tagikistan. Nelle settimane seguenti, dopo l'invasione, la Russia approfittò delle nuove circostanze per rimettere piede a Kabul e in altre città del paese con qualche missione diplomatica: poco, rispetto a ciò che l'URSS aveva tentato di fare nel dicembre del 1979, ma pur sempre qualcosa dopo il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan dieci anni dopo. I benefici maggiori, tuttavia, vennero realizzati nell'estate del 2002, quando Putin incontrò Bush in Texas e ottenne, apparentemente, ciò che nessun altro uomo di Stato russo era riuscito ad avere: la trasformazione della NATO in un'organizzazione per la sicurezza collettiva del continente europeo. La concessione divenne ufficiale al vertice di Pratica di Mare nel luglio del 2002. La vecchia alleanza militare della Guerra fredda si trasformò da quel momento in una specie di aquila bicefala. Delle sue due teste una sarebbe stata il vecchio Consiglio Atlantico, con la sua organizzazione militare, l'altra un comitato NATO-Russia in cui il vecchio avversario avrebbe avuto lo stesso status degli altri soci e avrebbe partecipato con essi alla lotta contro pericoli comuni, fra cui il terrorismo. A me sembrò che questa duplicità avrebbe creato, prima o dopo, funzioni difficilmente compatibili. Ma Putin, in quel momento, poté sostenere che la sua solidarietà con l'America dopo l'11 settembre gli aveva permesso di entrare con un seggio permanente nella vecchia 'casa del nemico'. Per un presidente a cui i nazionalisti e i comunisti russi rimproveravano una politica arrendevole e rinunciataria, si trattò indubbiamente di un successo politico. Ai vantaggi politici si aggiunsero vantaggi economici. La guerra sotterranea fra russi e americani per il tracciato degli oleodotti che avrebbe dovuto trasportare verso occidente il petrolio del Caspio sembrò placarsi. E i mercati finanziari cominciarono a registrare un maggiore interesse dei capitali americani per il rinnovamento della vecchia rete petrolifera sovietica, ormai in pessime condizioni.
La situazione cambiò pochi mesi dopo quando gli Stati Uniti lasciarono chiaramente intendere che la guerra contro l'Afghanistan era soltanto la prova generale di un'operazione militare molto più importante contro l'Iraq. Fu quello il momento in cui la solidarietà russo-americana cominciò a trasformarsi in aperto dissenso. Putin aveva due buone ragioni per essere contrario alla politica degli Stati Uniti contro Saddam Hussein. In primo luogo la conquista americana dell'Iraq avrebbe fatto degli Stati Uniti la potenza egemone del Medio Oriente. E in secondo luogo la Russia avrebbe perduto, oltre a qualsiasi influenza politica nella regione, il risultato dei buoni rapporti che aveva stretto, soprattutto in materia di petrolio, con il governo di Baghdad. Nei mesi che precedettero l'inizio delle operazioni militari, la Russia, quindi, si servì del suo seggio permanente al Consiglio di sicurezza per ostacolare i disegni iracheni della presidenza americana. Si costituì un fronte composto da Francia, Germania e Russia, ma si trattò di un'alleanza temporanea, dettata da considerazioni contingenti. Opponendosi alla politica americana in Iraq, la Russia cercava di non perdere il capitale politico che l'Unione Sovietica aveva pazientemente accumulato nella regione soprattutto dopo la nazionalizzazione del canale di Suez, la guerra d'Algeria e il declino dell'egemonia anglo-francese in Medio Oriente. La vicenda ebbe l'effetto di dimostrare che Russia e America restavano in alcune aree, nonostante la fine della Guerra fredda, potenze concorrenti.
Se ne è avuta la prova in Georgia e in Asia centrale. Quando gli americani mandarono ottocento uomini in Georgia per l'addestramento delle truppe locali "contro le infiltrazioni terroristiche dal Nord" e lasciarono intendere che non avevano alcuna intenzione di chiudere le installazioni militari create in Uzbekistan e Tagikistan per le necessità della guerra afghana, i russi si resero conto di avere aperto agli Stati Uniti le porte meridionali della loro casa. Gli americani, dal canto loro, ricominciarono a criticare la Russia per la sua brutale politica cecena. La luna di miele, cominciata dopo gli attentati terroristici dell'11 settembre, era finita. I russi e gli americani avevano collaborato in Afghanistan perché l'eliminazione dei talebani rispondeva agli interessi di entrambi. Ma si erano divisi sulla questione irachena perché la distruzione del regime di Saddam Hussein avrebbe privato la Russia di una sua vecchia pedina mediorientale.
La questione cecena
Restava da comprendere quale ruolo la questione cecena avrebbe avuto nei rapporti fra la Russia e gli Stati Uniti. Per molte ragioni, anche petrolifere, la diplomazia americana preferirebbe che la Cecenia godesse di una larga autonomia. Ma sa che la questione cecena è molto più importante per lo Stato russo di quanto non sia quella irachena. Per le ragioni che cercherò di riassumere, la Russia di Vladimir Putin non intende rinunciare al controllo della Cecenia e non è disposta a permettere che la sua politica sia soggetta al controllo e all'influenza della comunità internazionale.
Quando nell'agosto del 1991 il generale Dzokar Dudaev, sino ad allora comandante di una postazione missilistica dell'Aeronautica sovietica in Estonia, irruppe nel Soviet Supremo della Repubblica di Ceceno-Inguscezia a Grozny e proclamò l'indipendenza cecena, nessuno a Mosca fu colto di sorpresa. La Cecenia era stata, sin dagli anni della Grande Caterina, il più fiero, riottoso e ribelle dei possedimenti russi a nord e a sud del Caucaso. La rappresentazione grafica dei suoi rapporti con Mosca dimostra che essi rispondono a una regola di ferro. Ogniqualvolta lo Stato moscovita entra in crisi, la Cecenia si ribella. Ogniqualvolta Mosca sopravvive alla propria crisi e riprende in mano il controllo della situazione, i ceceni vengono duramente repressi e brutalmente ricondotti nell'ambito della 'patria russa'. Così accadde dopo la rivoluzione bolscevica, durante e dopo l'occupazione tedesca della Seconda guerra mondiale, dopo la crisi dello Stato sovietico nell'estate del 1991. La Russia tollerò la secessione cecena sino a quando, nel 1994, il presidente Boris Eltsin e il suo governo decisero che era giunto il momento di correggere l''errore' del 1991. La decisione fu presa perché la Cecenia era uno dei maggiori crocevia petroliferi della regione e perché la sua secessione, sino ad allora tollerata da Mosca, aveva creato focolai separatisti presso altre popolazioni del grande Stato federale russo, dai tatari agli iacuti. Vi era tuttavia un'altra ragione, non meno importante. La repubblica del generale Dudaev era diventata la 'casa madre', il retroterra logistico e la casella postale di organizzazioni criminali cecene che operavano a Mosca e si erano gradualmente impadronite, con metodi spregiudicati, di alcuni traffici molto redditizi.
La guerra per la riconquista del territorio perduto durò due anni, dal 1994 al 1996, e si concluse con un clamoroso insuccesso russo. L'esercito commise alcuni imperdonabili errori tattici e strategici, le perdite fra le sue file furono alte e l'opinione pubblica, dopo avere tollerato pazientemente l'avventura afghana degli anni Ottanta, approfittò della libertà per manifestare pubblicamente la sua opposizione al conflitto. Mentre si approssimavano le elezioni presidenziali del 1996 Eltsin incaricò il generale Aleksandr Lebedev di negoziare un accordo di pace. I ceceni non ottennero ancora l'indipendenza, ma una autonomia pressoché totale e la promessa che avrebbero potuto scegliere con un referendum, entro cinque anni, il loro status definitivo.
Ma fecero un pessimo uso dell'occasione. Negli anni seguenti la Cecenia divenne teatro di faide civili e militari fra milizie politiche e private, scorribande criminali, sequestri di persona. Dopo la morte di Dudaev, ucciso forse da un missile russo nell'aprile del 1996, i protagonisti della lotta per il potere furono Aslan Mashkadov e Shamil Basaev. Si tennero elezioni che videro la vittoria di Mashkadov, ma Basaev, dopo una breve collaborazione con il suo avversario, cercò di costruire per sé stesso un ruolo nuovo e di ispirare una grande rivolta islamica estesa all'intera regione. Non era la prima volta. Anche dopo la rivoluzione bolscevica alcuni leader ambiziosi avevano alzato la bandiera verde del Profeta e cercato di trasformare il sentimento religioso in nazionalismo islamico. Per raggiungere il suo scopo Basaev stabilì contatti con il regime talebano di Kabul e il suo movimento cominciò ad assumere una connotazione religiosa. Il risultato fu una incursione militare in Daghestan e una serie di micidiali attentati terroristici fra l'estate e l'autunno del 1999. Fu quello il momento in cui Eltsin, ormai prossimo alla fine del suo secondo mandato, scelse un delfino nella persona di Vladimir Putin, allora capo del servizio federale della sicurezza (il vecchio KGB), e lo chiamò alla guida del governo. La seconda guerra cecena, che scoppiò in autunno, fu certamente la mossa politica con cui il nuovo premier preparò le elezioni presidenziali del marzo successivo. Ma fu giustificata agli occhi di Mosca dalla maggiore pericolosità che il movimento ceceno aveva assunto nei mesi precedenti.
Agli inizi la seconda guerra fu alquanto diversa dalla prima. Con qualche efficace operazione militare l'esercito russo riuscì a impadronirsi delle maggiori città e a conquistare militarmente il territorio. Ma si trovò ben presto alle prese con una situazione non diversa da quella che gli americani avrebbero fronteggiato in Afghanistan e in Iraq: operazioni di guerriglia e numerosi attentati, in Cecenia e in Russia. Il più clamoroso fu l'irruzione di un commando terrorista nel teatro Dubrovka di Mosca nell'ottobre del 2002. Le forze speciali russe uccisero i ceceni e liberarono gli ostaggi, ma il loro intervento provocò la morte di 120 spettatori. Di fronte a una resistenza così diffusa e insidiosa Putin, con una mossa simile a quella degli americani in Iraq, cercò di creare un governo ceceno amico a cui affidare le responsabilità più sgradite e rischiose. Il governo fu affidato al mufti ceceno Ahmed Kadyrov. Si tennero elezioni e Kadyrov divenne presidente della Repubblica. Putin poté sostenere in tal modo che la Cecenia aveva ormai il suo autogoverno. Ma era difficile immaginare che la soluzione sarebbe stata accettata da tutti i dissidenti e soprattutto dalle fazioni più radicali dei movimenti islamici.
Nei mesi seguenti i ribelli moltiplicarono i loro sforzi: un attacco terroristico nella metropolitana di Mosca, un'esplosione durante un concerto rock e, soprattutto, l'uccisione del presidente Kadyrov nello stadio di Grozny in occasione di una parata nel maggio 2004. Putin cercò di correre ai ripari con nuove elezioni presidenziali in agosto. L'uomo prescelto, in questo caso, fu Alu Alchanov, funzionario della polizia sovietica prima della secessione e ministro degli Interni della Repubblica cecena nel governo filorusso di Kadyrov. Non era forse un quisling agli ordini del Cremlino, ma era certamente percepito come tale dalle fazioni di Aslan Mashkadov e Shamil Basaev. Il mondo assistette, prima e dopo la sua elezione, a un drammatico crescendo di attacchi terroristici: due aerei Tupolev abbattuti da una esplosione nel giro di pochi minuti, una bomba nei pressi di una stazione delle metropolitana di Mosca e l'irruzione di un commando in una scuola di Beslan, nell'Ossezia del Nord, dove una ventina di terroristi s'impadronì di 1200 bambini, genitori, insegnanti. Quando la situazione sfuggì al controllo dei rapitori e le forze russe reagirono dando l'assalto alla scuola, la vicenda si concluse con un tragico bagno di sangue: più di trecento ostaggi morti, più di settecento feriti. Il piano di Putin per la soluzione del problema ceceno era ormai fallito. Ma la ferocia dei rapitori dimostrava che il campo ceceno era dominato da fazioni estremiste con cui era impossibile avviare qualsiasi negoziato. In tale situazione il presidente russo si sentì autorizzato a perseguire la sua politica e ad annunciare che avrebbe rafforzato la sicurezza del paese. Era lecito chiedersi se un ulteriore giro di vite in questo campo avrebbe ridotto le libertà democratiche e le garanzie civili della fragile democrazia russa.
La Cecenia è destinata a essere ancora per molto tempo una spina nel fianco della Repubblica russa.
È probabile che la fermezza con cui Mosca ha difeso il suo titolo di proprietà abbia avuto l'effetto di impedire che il separatismo ceceno contagiasse altre minoranze nazionali. Ed è probabile quindi che Putin, combattendo l'indipendenza della piccola Repubblica caucasica, abbia evitato la crisi dello Stato federale russo. Ma le vicende del 2004 hanno dimostrato che non è riuscito né a stroncare la ribellione né a impedire che i terroristi continuino a essere capaci di portare a compimento i loro attentati con straordinaria destrezza all'interno del territorio russo.
Il potere dei nuovi boiari
Durante la seconda guerra cecena Putin fu spesso accusato di avere utilizzato i Servizi per organizzare gli attentati del 1999 e giustificare in tal modo l'intervento militare. Sospetti e insinuazioni furono raccolti dai giornali e dalla televisione di un grande gruppo finanziario diretto da Boris Berezovskij. L'episodio è interessante perché permette di meglio comprendere sia la situazione russa negli anni Novanta sia la politica di Putin, soprattutto dopo la sua prima elezione alla presidenza della Repubblica.
Berezovskij è un 'oligarca', vale a dire uno degli avventurosi uomini d'affari che all'inizio degli anni Novanta, quando incominciò la privatizzazione dell'industria statale, riuscirono a impadronirsi di alcune delle imprese più redditizie del sistema sovietico. Grazie ai loro collegamenti con il vecchio apparato dello Stato e del partito ottennero ingenti prestiti che vennero pressoché azzerati dall'inflazione galoppante di quegli anni. E grazie ai loro intimi rapporti con il vertice politico-amministrativo dello Stato riuscirono ad avere le autorizzazioni e le licenze necessarie alla valorizzazione delle imprese. Denaro facile, inflazione e corruzione furono quindi i gradini della loro ascesa. Ben presto, per meglio conservare il loro potere, gli oligarchi si dotarono di due strumenti particolarmente utili: banche e mezzi d'informazione. Le banche servivano alle loro spericolate operazioni finanziarie, i mezzi d'informazione a esercitare un ruolo politico, non privo di pressioni e ricatti. L'importanza dei loro giornali e della loro televisione fu evidente quando Eltsin, durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 1996, ricorse al loro aiuto. Alcuni oligarchi lo sostennero e rafforzarono in tal modo la loro influenza sullo Stato russo. Questi nuovi boiari misero piede al Cremlino e divennero da allora membri influenti della corte presidenziale.
Fu questa la situazione che Putin trovò quando sostituì Eltsin alla presidenza della Repubblica nel marzo del 2000. Non conosciamo ancora con precisione le origini dello scontro, ma sappiamo che il nuovo presidente ritenne necessario, per la restaurazione dello Stato russo, smantellare il potere finanziario e mediatico che gli oligarchi avevano costruito negli anni precedenti. Le polemiche di Berezovskij contro il nuovo presidente vanno lette in questo contesto e segnano l'inizio di una fase nuova durante la quale altri oligarchi divennero bersaglio della politica presidenziale e dovettero fuggire all'estero.
Uno dei casi più clamorosi fu quello di Vladimir Khordokovskij, padrone del gigante petrolifero Yukos e, all'età di quarant'anni, il più ricco uomo d'affari russo. Come gli altri oligarchi anche Khordokovskij era proprietario di mezzi d'informazione e finanziava partiti politici. Nel luglio del 2003 la Procura di Mosca cominciò a indagare sui conti della Yukos e a formulare accuse di evasione fiscale. Ma è probabile che le indagini fossero un ammonimento al padrone della società in vista delle elezioni politiche per il rinnovo della Duma che si sarebbero tenute qualche mese dopo. Khordokovskij rifiutò di piegarsi a queste pressioni e sfidò Putin comprando, per tutta risposta, un importante settimanale moscovita, Moskovskie Novosti. Poche settimane dopo veniva arrestato e incarcerato. Il suo caso suscitò reazioni negative nella stampa occidentale e fu interpretato come un segno della svolta autoritaria che Putin stava dando alla sua presidenza. Si disse che il capo dello Stato russo si stava sbarazzando in tal modo dei mezzi d'informazione che criticavano la sua presidenza e dava un duro colpo ai partiti di opposizione (Jabloko e Unione delle forze di destra) a cui Khordokovskij aveva fornito il suo sostegno. Ma l'opinione pubblica occidentale dimenticava che la politica di Putin contro gli oligarchi suscitava i consensi di buona parte della società russa, tanto da avere una parte importante nel suo trionfo elettorale del marzo 2004.
Controllo e modernizzazione
Anche se non piacciono all'Occidente liberale e democratico, la guerra cecena e la 'persecuzione' giudiziaria di Khordokovskij riflettono antiche preoccupazioni della classe dirigente russa. L'esercizio del potere e la forma dello Stato dipendono in Russia da fattori, circostanze ed esperienze storiche che si sono profondamente radicati nella cultura politica del paese: la vulnerabilità delle sue grandi pianure, l'incombente pericolo delle invasioni straniere, la minaccia per l'integrità dello Stato delle feudalità politiche ed economiche. All'inizio di una 'lettera filosofica' mai terminata, un grande intellettuale dell'Ottocento, Pëtr Caadaev, suggerì che nulla era stato così importante per la storia politica della Russia quanto la vastità del suo spazio, conquistato durante i secoli grazie a una continua combinazione di paura e di ingordigia. Quando riconquista la Cecenia o mantiene posizioni a sud del Caucaso, Putin difende l'integrità dello spazio russo, quale si è andato costituendo nel corso della storia. Quando elimina le oligarchie economiche nate agli inizi degli anni Novanta, combatte con mezzi moderni le battaglie di Ivan e di Pietro contro i boiari.
La difesa dell'integrità territoriale ha un'evidente influenza sulla natura del federalismo russo. La Russia moderna deve essere federale. La vastità del territorio e l'importanza delle minoranze nazionali o religiose rendono oggi il federalismo una scelta obbligata. Ma il timore della dissoluzione farà sì che il federalismo sia sempre controbilanciato da un forte potere centrale. È questa una delle ragioni per cui i russi vogliono che l'uomo del Cremlino sia forte e tollerano in lui un piglio autoritario che altri Stati europei riterrebbero inaccettabile.
Resta da vedere se le stesse considerazioni e paure siano destinate ad avere un'influenza sulla economia della Russia moderna. Può Mosca, tradizionalmente preoccupata dalle spinte secessioniste e dal potere dei boiari, permettere che l'economia obbedisca soltanto alle leggi del mercato? O non cercherà piuttosto di tenere nelle sue mani il controllo dei settori da cui maggiormente dipende il futuro del paese? Vladimir Putin è certamente un modernizzatore. Grazie alle sue esperienze nel KGB conosce da tempo lo stato di arretratezza in cui versa l'economia nazionale. Le infrastrutture sono drammaticamente invecchiate, la tecnologia di molte imprese è obsoleta. Basta dare un'occhiata all'elenco delle catastrofi degli ultimi anni, dall'affondamento del sommergibile Kursk ai più recenti incidenti in alcune miniere di carbone, per constatare che il paese deve recuperare un drammatico ritardo. Non basta. Putin sa che lo svecchiamento della Russia richiede i capitali e la tecnologia dell'Occidente. E sa altresì che questi capitali verranno in Russia a tre condizioni. Occorre che le aziende e gli investitori siano attratti dalla prospettiva di larghi profitti. Occorre che le aziende e gli uomini della finanza trovino regole sicure, eguali per tutti. E occorre infine che i rapporti della Russia con le maggiori potenze dell'Occidente non siano troppo conflittuali.
Sono questi, quindi, i termini del dilemma di Putin. Deve modernizzare il paese e spingerlo sulla rampa del decollo economico. Ma non può permettere che i settori economicamente strategici cadano in mani troppo potenti e non intende perderne il controllo. Sa di avere bisogno dell'Occidente, ma non è disposto a sacrificare, sull'altare dell'amicizia con gli Stati Uniti, quel ruolo di grande potenza che è strettamente collegato alle dimensioni euroasiatiche del paese. Non sappiamo se riuscirà a navigare felicemente tra tante opposte esigenze. Ma l'opinione pubblica occidentale dovrà evitare di giudicarlo con il metro dei propri valori. Le dimensioni del territorio e la natura dei problemi impongono altri criteri di giudizio. Quando si scontrano con i pregiudizi degli stranieri, i russi rispondono spesso con un sorriso, quasi scusandosi, che il loro paese è una bol'Šsaja strana, una "grande terra". I governi e le opinioni pubbliche occidentali faranno bene a ricordarsene.
repertorio
Dall'URSS alla Russia
La dissoluzione dell'Unione Sovietica
L'8 dicembre 1991 l'Unione Sovietica cessò di esistere quale soggetto di diritto internazionale e quale realtà geopolitica. A dichiararne lo scioglimento furono nella riunione di Minsk i presidenti delle tre repubbliche slave, Russia, Bielorussia e Ucraina, che avevano concorso quasi settant'anni prima alla sua fondazione.
All'atto della costituzione, sancita dal trattato del 1922, l'Unione sovietica contava quattro entità: la Repubblica socialista federativa sovietica russa (RSFSR), l'Ucraina, la Bielorussia e la Federazione transcaucasica. Attraverso divisioni interne, che portarono nel 1924 alla creazione di nuove repubbliche nel territorio centroasiatico della RSFSR e allo scioglimento nel 1936 di quella transcaucasica, e in seguito all'annessione di territori esterni, l'URSS arrivò a contare 15 repubbliche: le tre slave (Russia, Bielorussia, Ucraina); la Moldova, l'antica Bessarabia situata tra l'Ucraina e la Romania, occupata da Stalin all'indomani della Seconda guerra mondiale; le tre repubbliche già appartenenti alla federazione transcaucasica (Georgia, Armenia, Azerbaigian); le tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania), annesse nel 1940; le repubbliche dell'Asia centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan).
La crisi del sistema sovietico ha le sue radici nel fallimento del tentativo di Michail Gorbaciov di far decollare compiutamente la cosiddetta perestroika, il sistema di riforme politico-economiche che aveva avviato a partire dal marzo 1985, quando divenne segretario del Partito comunista sovietico. Fin dall'inizio si palesò una contraddizione che negli anni successivi doveva portare a prove drammatiche e a esiti definitivi: quella tra la straordinaria varietà e diversità delle forze economiche, sociali, culturali che grazie alla perestroika stavano venendo alla luce, presentando le loro richieste e le loro proteste, e la pressoché assoluta mancanza di strumenti legislativi concretamente utilizzabili per garantire, con la difesa degli interessi delle varie forze sociali, la sicurezza e la continuità della perestroika come riforma radicale, seppure interna al sistema. Tensioni e conflitti interetnici si manifestarono in varie repubbliche (Estonia, Lettonia, Lituania, Georgia) e nacquero vari Fronti nazionali che via via acquistarono basi di massa e fecero proprie parole d'ordine di tipo sempre più chiaramente separatista. Quel che mancò fu soprattutto un progetto per una riforma dello Stato unitario, in grado di far fronte alle spinte disgregatrici. Si parlava di trasformare l'Unione in una Federazione o in una Confederazione di Stati indipendenti, se non in una sorta di Commonwealth, ma di fatto i conservatori annidati nelle strutture del partito impedirono ogni concreto avvio della riforma. Lo stesso Gorbaciov, del resto, pensava ancora che l'Unione potesse sopravvivere al crollo del sistema politico-sociale.
I conflitti interetnici divennero sempre più gravi. Al confronto fra l'Armenia e l'Azerbaigian per il Nagorno-Karabah (un territorio abitato in maggioranza da armeni cattolici, inserito nell'Azerbaigian in seguito a un accordo del 1923 fra l'URSS e la Turchia) si aggiunsero i contrasti esplosi nella Georgia: Tbilisi rivendicava l'indipendenza da Mosca e le popolazioni dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud chiedevano l'una la separazione e l'altra l'annessione all'Ossezia del Nord, confinante ma appartenente alla giurisdizione russa. Contemporaneamente nell'Estonia, nella Lettonia e nella Lituania, i fronti nazionali, attraverso grandi manifestazioni popolari, proclamavano illegittima, perché avvenuta in seguito all'accordo Molotov-Ribbentrop del 1939, l'annessione all'URSS delle tre repubbliche baltiche e nulli i referendum tenutisi successivamente, e si pronunciavano per la piena indipendenza dei loro paesi. Movimenti nazionalistici apparivano anche in Ucraina, in Bielorussia e nella Moldova.
Dalle rive del Baltico a quelle del Mar Nero e del Caspio si presentava così concretamente il pericolo della disgregazione dello Stato unitario. Intanto al di là delle frontiere dell'URSS, a partire dalle prime settimane del 1989, una serie di clamorosi avvenimenti portava in rapida successione tutti i paesi dell'Europa centrale e orientale - sotto la spinta della perestroika, oltreché per l'acuirsi delle crisi interne e delle pressioni delle opinioni pubbliche e dei movimenti di opposizione - a uscire dal sistema sovietico. I dirigenti dell'URSS vennero colti di sorpresa dal carattere di radicale rottura con il passato ben presto assunto dalle 'rivoluzioni del 1989'. In quell'anno divenne chiaro che in tutti i paesi dell'Europa centrale e orientale, indipendentemente dalla via attraverso cui la rivoluzione democratica si svolgeva (dialogo fra il potere centrale e l'opposizione, come in Polonia, o sollevazioni popolari ora pacifiche come in Cecoslovacchia, ora violente e sospinte sino a esiti drammatici come in Romania), si andava comunque verso trasformazioni radicali del sistema economico, sociale e politico caratterizzate in primo luogo dalla conquista della piena indipendenza dall'URSS. Stava crollando, insomma, il sistema internazionale del socialismo sovietico.
Il processo di sgretolamento del sistema avanzò con ritmi implacabili. Il Partito comunista lituano proclamò la sua indipendenza dal PCUS il 29 dicembre 1989 e l'esempio venne seguito dai partiti comunisti delle altre repubbliche baltiche, mentre i partiti comunisti fedeli alla direzione centrale organizzavano separatamente i comunisti delle minoranze russe.
Il 17 marzo 1991 un referendum sul mantenimento dell'Unione, sia pure 'riformata', sulla base però di un modello non ancora definito, si concluse con un successo del sì. Solo apparentemente, tuttavia, si trattò di una vittoria del gruppo dirigente di Mosca. Sei repubbliche - Estonia, Lettonia, Lituania, Moldova, Georgia e Armenia - non avevano partecipato al voto, e altre - Ucraina e Bielorussia in primo luogo - si apprestavano a compiere passi decisivi verso la proclamazione dell'indipendenza.
All'evidente scopo di bloccare il tentativo di rilanciare la perestroika e soprattutto per impedire l'avvio della riforma dello Stato attraverso la firma, fissata per il 20 agosto 1991, di un patto fra le repubbliche dell'URSS basato sul riconoscimento della loro sovranità, il 19 agosto venne attuato un tentativo di golpe, con la partecipazione dei più vicini collaboratori del presidente. Il comportamento tenuto da Gorbaciov - del quale i golpisti tentarono di ottenere la complicità -, trattenuto a forza in Crimea insieme ai suoi familiari, e soprattutto la decisione con cui dalla sede del Parlamento russo Boris Eltsin, che il 12 giugno di quell'anno era stato eletto presidente della Federazione russa, organizzò e guidò la lotta contro i golpisti determinarono rapidamente il fallimento del colpo di Stato.
Gorbaciov poté tornare a Mosca, ma la situazione era completamente mutata. Il dualismo di potere fra un Gorbaciov sempre più indebolito e costretto a subire le continue pressioni di Eltsin, e quest'ultimo che con una serie di decreti ripristinò bandiere e simboli della Russia, sospese l'attività del PCUS e ne requisì le sedi, imponendo i suoi uomini in tutti i punti chiave, si concluse in poche settimane. L'8 dicembre i rappresentanti della Russia, dell'Ucraina e della Bielorussia, ai quali si aggiunsero successivamente i rappresentanti del Kazakistan, proclamarono formalmente la fine della Stato unitario sovietico e invitarono Gorbaciov a prenderne atto e a lasciare il potere. Una dopo l'altra tutte le repubbliche dell'URSS che ancora non l'avevano fatto proclamarono la loro indipendenza, anche per il timore che a Mosca, ove da più parti si avanzavano rivendicazioni territoriali collegate alla presenza e all'attività di minoranze russe, prevalessero con Eltsin tendenze di tipo imperialistico.
Allo scopo di tranquillizzare non soltanto le altre repubbliche ma, al di là dei confini della ex URSS, gli Stati Uniti e i paesi europei, preoccupati per il permanere di una situazione confusa in un territorio tanto vasto, percorso da conflitti sanguinosi e disseminato di armi di sterminio nucleare, Eltsin prese l'iniziativa di dar vita a forme nuove e stabili di collegamento e di collaborazione fra le ex repubbliche sovietiche. Il 21 dicembre 1991 undici di esse (Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldova, Armenia, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan; la Georgia aderì nel dicembre 1993) diedero vita alla Comunità degli Stati indipendenti (CSI). Gorbaciov, che sino all'ultimo aveva difeso l'idea dello Stato unitario, lasciò il Cremlino la sera del 25 dicembre 1991, mentre la bandiera rossa veniva ammainata e Mosca diventava la capitale soltanto dello Stato russo.
La Comunità degli Stati indipendenti
Dotata di una struttura estremamente ridotta con un segretariato con sede a Minsk, la CSI si configurava, più che come un'organizzazione internazionale vera e propria, piuttosto come un foro di cooperazione attraverso periodiche conferenze tra capi di Stato o di governo, con lo scopo di coordinare l'attività degli Stati membri in materia di politica estera, di integrazione economica e commerciale, di protezione ambientale ecc. Neppure formalmente la Comunità poteva dirsi erede e continuatrice dell'URSS.
Solo con grande fatica, del resto, le repubbliche che vi avevano aderito trovarono soluzioni parziali ad alcuni dei problemi più gravi nati dal 'crollo' del sistema sovietico: la sorte dell'Armata Rossa e della flotta del Mar Nero, rivendicata in parte dall'Ucraina; la spartizione delle forze nucleari disseminate nella Russia, nell'Ucraina, nella Bielorussia e nel Kazakistan; la suddivisione tra i nuovi Stati del patrimonio dell'ex URSS così come delle quote del debito estero; la regolamentazione delle relazioni economiche, commerciali e finanziarie; la soluzione dei non pochi conflitti interetnici e nazionali che si trascinavano da tempo, nonché delle vertenze territoriali che si erano aperte nel frattempo, in primo luogo per l'assegnazione della Crimea rivendicata dalla Russia. Un accordo più vasto per dare alla CSI uno statuto che definisse concretamente gli spazi della politica comune anche in merito ai temi della difesa e della politica estera fu raggiunto nel gennaio 1993, senza la firma però dell'Ucraina, della Moldova e del Turkmenistan.
Stante l'inesistenza della CSI come soggetto riconosciuto sul piano internazionale, toccò alla Russia occupare il seggio dell'URSS al Consiglio di sicurezza dell'ONU, così come sempre alla Russia toccò, dopo aver ottenuto, ma non senza fatica e solo in parte, il consenso delle altre repubbliche in possesso di testate nucleari, il compito di garantire il mantenimento degli impegni assunti dall'URSS in tema di disarmo.
Sul piano delle politiche interne dei singoli Stati, la Russia vide l'acuirsi della crisi sociale ed economica, dovuta al ritardo e alle modalità con cui si era dato inizio alla politica delle riforme relative all'avvio di un libero mercato e alla privatizzazione. Processi analoghi si verificarono nelle altre repubbliche ex sovietiche. Nei paesi baltici la situazione economica si aggravò rapidamente anche per le conseguenze provocate dalla rottura con Mosca sulle industrie dei tre Stati, di fatto dipendenti dalla Russia per il petrolio e per le materie prime, e ben presto sorsero difficoltà nel dar vita a forme di collaborazione reali, sul piano sia politico sia economico, con i paesi dell'Europa occidentale e settentrionale; tutto ciò da una parte spinse - ma con scarsa fortuna - verso la ricerca di accordi con la Russia e dall'altra determinò gravi crisi politiche: così nella Lituania le elezioni dell'ottobre 1992 portarono alla sconfitta del fronte nazionalista e alla vittoria degli ex comunisti. In Ucraina gravi tensioni sociali seguirono alla nuova politica economica avviata dal governo. Nella Moldova, ove una forte minoranza russa aveva dato vita a un territorio autonomo e si opponeva alle tendenze prima separatiste e poi filoromene della maggioranza, si giunse a una labile tregua fra le parti solo quando fu possibile firmare un accordo fra Russia, Moldova, Ucraina e Romania sulla cessazione dei combattimenti e l'avvio di trattative. La situazione nel Caucaso si aggravò sia per le conseguenze del mancato accordo fra l'Armenia e l'Azerbaigian per il Nagorno-Karabah, sia per l'esplodere in Georgia, accanto a quelli antichi, di nuovi conflitti. Nelle repubbliche dell'Asia centrale i mutamenti furono minori: di fatto, capi dei nuovi Stati divennero o furono riconfermati, seppure alla testa di formazioni nazionalistiche, ex dirigenti comunisti di primo piano, mentre in tutti i paesi della regione si andavano costituendo forti movimenti islamici appoggiati dall'Iran e dalla Turchia.
La Russia postsovietica
Sin dal primo momento la Russia si era presentata come garante della sicurezza dell'intera area ex sovietica, fatta eccezione per il territorio delle tre repubbliche baltiche, assumendo così gravosi impegni politici, economici e anche militari, soprattutto nei punti dove erano in corso conflitti nazionali. La diplomazia di Mosca cercò, e non senza successo, di ottenere dall'Occidente il riconoscimento del ruolo particolare rivendicato, e di fatto esercitato, dalla Russia nei confronti degli altri paesi della CSI, specie di quelli a maggioranza musulmana dell'Asia centrale e dunque più esposti alle spinte del fondamentalismo islamico provenienti dall'Iran e dall'Afghanistan.
In politica interna i primi compiti che i dirigenti del nuovo Stato dovettero affrontare nel pieno di una situazione economica e sociale disastrosa furono relativi alla creazione di un sistema democratico-parlamentare, in luogo di quello basato sul dissolto partito unico-partito di Stato. Parallelamente veniva dato inizio a una radicale riforma del sistema economico, liquidando o riducendo ai minimi termini il ruolo dello Stato-padrone, per quanto riguardava sia l'assetto proprietario, con l'avvio di una generale privatizzazione nei settori dell'industria, dell'agricoltura e della distribuzione, sia i compiti di direzione e di gestione diretta dell'economia. I radicali provvedimenti presi dai dirigenti politici e dagli economisti vicini al governo, se da un lato permisero di aprire a un sistema economico sino ad allora del tutto chiuso la via del mercato e dell'ingresso nel paese di capitali e di prodotti stranieri, dall'altro ebbero gravi conseguenze su un'economia già dissestata, nonché sulle condizioni di vita della maggioranza della popolazione.
Nell'assenza pressoché totale di regole e di controlli, una 'privatizzazione selvaggia' favorì, insieme agli uomini della vecchia nomenklatura (ministri dei vari settori produttivi o direttori di fabbrica che diventavano ora presidenti dei nuovi consigli di amministrazione), folle di piccoli, intraprendenti imprenditori, soprattutto nelle città e nei settori della distribuzione, e anche vecchie e nuove organizzazioni mafiose. Espressione della nuova Russia diventavano così da una parte i 'nuovi ricchi' e, dall'altra, tutti coloro che, nello stesso momento in cui vedevano venire a mancare, almeno in parte, il sostegno della politica egualitaristica dello Stato, erano esclusi dalle possibilità offerte dal nuovo corso politico ed economico. Nel contempo, gli spazi che la politica di privatizzazione e di introduzione del mercato aveva aperto a una moltitudine di nuovi soggetti, assegnavano alla 'seconda economia' - quella del lavoro sommerso e della seconda occupazione - proporzioni notevoli, dando origine alla formazione di nuovi gruppi sociali intermedi.
A caratterizzare la fase iniziale del nuovo Stato, prima e ancor più delle crescenti difficoltà economiche e della mobilità sociale determinate dal nuovo corso di politica economica, furono però i conflitti e le tensioni connessi con l'apparire sulla scena di forti movimenti nazionali e nazionalistici che richiedevano il distacco da Mosca. Queste spinte non solo non erano cessate con il crollo dell'URSS e la nascita delle nuove realtà statali, ma continuavano e anzi si intensificavano all'interno della Russia, come al di là dei suoi confini. Così, quando il 31 marzo 1992 i rappresentanti delle 21 repubbliche autonome presenti nella Federazione russa vennero chiamati a confermare il loro legame con Mosca, i dirigenti di tre di esse (la Cecenia, il Tatarstan e Tuva) rifiutarono di sottoscrivere il nuovo trattato federale, aprendo un conflitto, anzi una serie di conflitti, che nel caso della Cecenia, già autoproclamatasi indipendente, portarono a veri e propri confronti militari, gettando una pesante ipoteca sul futuro e sulla natura dello Stato russo. Allo scopo di frenare le spinte centrifughe il potere centrale fu indotto a sottoscrivere via via una serie di trattati con i quali veniva riconosciuto ad alcune repubbliche un certo numero di diritti, concernenti in primo luogo la proprietà del suolo e del sottosuolo e dunque le ricchezze naturali, nonché spazi di autonomia anche sui temi della politica estera e del commercio estero. Così facendo però si alimentavano inevitabilmente nuove richieste da parte non solo delle repubbliche escluse ma anche di alcune province e territori che già godevano di una certa autonomia, nonché spinte di segno opposto da parte del nazionalismo 'grande russo'.
Per quel che riguarda la trasformazione del sistema politico, la mancanza di esperienze di vita democratica del gruppo dirigente, composto da uomini provenienti quasi esclusivamente dalle file del PCUS e in particolare, secondo vari osservatori, il rifiuto di dar vita a un'assemblea costituente con il compito di dare al nuovo Stato ordinamenti e strutture a esso confacenti, determinarono l'apertura di conflitti politici e sociali assai gravi. Accanto alle istituzioni e alle situazioni nuove nate con la perestrojka, del tutto operanti ma non ancora legittimate, continuavano a sussistere sulla base della vecchia Costituzione, solo in parte modificata, le strutture del passato. Di fatto soltanto due anni dopo il crollo dell'URSS la Russia poté adottare la sua Costituzione.
Da Eltsin a Putin
Il testo della nuova Costituzione, promosso dal presidente Eltsin, fu firmato l'8 novembre 1993 e sottoposto a referendum per l'approvazione popolare il 12 dicembre dello stesso anno. La carta faceva della Russia una repubblica presidenziale fortemente centralizzata, con il conferimento al presidente di ampi poteri, fra cui la possibilità di sciogliere il Parlamento e comprimere le autonomie locali.
Con il varo della Costituzione Eltsin intendeva chiudere a proprio vantaggio il conflitto tra presidenza e Parlamento che aveva contrassegnato la nuova entità statale. Fin dall'assunzione dei pieni poteri nella repubblica russa dopo il fallito colpo di Stato dell'agosto 1991, l'azione politica di Eltsin, pur volta a guidare il passaggio dal sistema sovietico a un sistema democratico di tipo occidentale, era stata infatti connotata da una spiccata propensione ad accentrare i poteri e a governare per decreti, provocando numerosi scontri con il Parlamento. Il momento più drammatico si era configurato nel settembre 1993, quando il presidente aveva imposto lo scioglimento della Duma, piegando con i carri armati dell'esercito la resistenza dei deputati asserragliati nella sede parlamentare.
Nel giugno del 1996 Eltsin si presentò candidato alle elezioni presidenziali, dopo un periodo di assenza dalla vita politica per problemi di salute, uscendone vittorioso dopo una dura campagna elettorale caratterizzata da un forte contrasto con la Duma e da un grave scontento popolare per le difficoltà economiche. Contro i tentativi nostalgici di ritorno al passato, Eltsin da una parte fu costretto a lasciare spazio alle aspirazioni di indipendenza, dall'altra tentò di costruire un riavvicinamento con Stati dell'ex URSS come la Bielorussia, il Kirghizistan e il Kazakistan. Alla fine del 1996 la Russia dovette subire lo smacco della sconfitta militare in Cecenia seguita dal ritiro delle truppe dalla capitale Grozny, occupata nel gennaio dell'anno precedente, e la firma di un trattato di pace che, rinviando al 2001 la decisione sulla definizione dei rapporti fra le due capitali, di fatto riconosceva alla repubblica caucasica, autoproclamatasi intanto repubblica islamica, un'indipendenza pressoché assoluta. In politica estera, la necessità di poter contare su aiuti per il riassetto dell'economia russa impose a Eltsin ampie intese con l'Occidente e in particolare con gli Stati Uniti.
Nella seconda metà degli anni Novanta la situazione del paese continuò a essere connotata da forti sintomi di instabilità sia sul piano economico sia su quello politico, in un clima di crescente malessere sociale. La complessa transizione verso un'economia di mercato aveva generato, infatti, un intreccio tra potentati economici, apparati governativi e criminalità organizzata che rendeva estremamente incerto il panorama politico-istituzionale e particolarmente difficile il riassetto del bilancio statale con gravi ripercussioni sulle condizioni di vita di gran parte della popolazione. Inoltre il secondo mandato presidenziale di Eltsin fu caratterizzato da prolungate assenze determinate dalle precarie condizioni di salute. La politica russa apparve in molti momenti priva di guida, soprattutto nei mesi di agosto e settembre 1998, quando il crollo della borsa rivelò il fallimento degli sforzi per rilanciare l'economia. Stretto fra le agitazioni dei minatori senza stipendio da mesi e il panico diffusosi a seguito della drastica svalutazione del rublo, Eltsin richiamò al governo il primo ministro da lui bruscamente allontanato alcuni mesi prima ma, non riuscendo a ottenere il consenso della Duma a maggioranza comunista, dovette accettare un governo di coalizione con la partecipazione dei comunisti. La situazione si fece più grave con l'esplosione nel corso del 1999 di gravissimi scandali finanziari che toccarono da vicino i centri stessi del potere: furono coinvolti, infatti, lo stesso presidente e i suoi familiari e, oltre a molte banche private, anche la Banca centrale. Risultò infatti che quest'ultima, utilizzando fondi provenienti dai prestiti del FMI (Fondo monetario internazionale), aveva trasferito miliardi di dollari negli Stati Uniti dove poteva contare sulla complicità di funzionari di istituti finanziari locali.
Il 1999 vide anche il deterioramento delle relazioni con Grozny che doveva portare alla seconda guerra cecena. La decisione di intervenire di nuovo con le armi nella repubblica caucasica venne motivata con le esigenze della lotta contro il terrorismo e contro il fondamentalismo islamico, dopo che il 5 agosto gruppi di indipendentisti ceceni avevano occupato alcuni villaggi del Daghestan. Tre giorni dopo Eltsin nominò primo ministro Vladimir Putin, responsabile dei servizi di sicurezza (l'ex KGB), che riprese le operazioni militari in Cecenia, guadagnandosi il sostegno dell'opinione pubblica nazionalista. Il 23 settembre con il bombardamento di Grozny iniziò una sanguinosa campagna aerea e il 1° ottobre le truppe russe attraversarono il confine ceceno. Respingendo come inammissibile ingerenza interna ogni proposta proveniente dall'Occidente favorevole a trovare una soluzione politica della crisi e ostacolando le iniziative di aiuto umanitario avviate o proposte a livello internazionale a favore della popolazione civile, Putin faceva assumere alle operazioni militari dimensioni sempre più vaste. Nel febbraio 2000 Grozny fu costretta a capitolare e nel giugno successivo il paese fu posto sotto il controllo diretto di Mosca.
La svolta impressa alla guerra e l'ondata nazionalistica, sostanzialmente antioccidentale, che l'aveva accompagnata e sostenuta, determinarono un netto e rapido mutamento negli orientamenti degli elettori. Nelle elezioni del 19 dicembre 1999 i comunisti riuscivano a mantenere la maggioranza relativa, ma il partito dell'Unità, fondato tre mesi prima a sostegno di Putin, otteneva un clamoroso successo, mentre usciva fortemente ridimensionato il partito contrario a Eltsin. Dopo la sconfitta dei suoi avversari, avendo ottenuto ogni garanzia per quel che riguardava l'immunità, il 31 dicembre 1999 Eltsin usciva improvvisamente di scena, indicando in Putin il suo candidato alle elezioni presidenziali indette per il marzo 2000. Il successore di Eltsin fu eletto al primo turno con oltre il 53% dei voti sull'onda di una volontà di ripresa e di non nascoste aspirazioni all'idea del rilancio di una 'grande Russia'.