Ruggiero Romano
Tra gli storici e gli organizzatori culturali più originali e cosmopoliti del secondo Novecento, Ruggiero Romano è stato attivo in Italia, Francia, America Meridionale e Polonia. Collaboratore di Fernand Braudel, titolare sin dal 1952 della cattedra di problemi e metodi di storia economica presso l’École pratique des hautes études di Parigi, è lo studioso italiano che è stato più influenzato dalla «rivoluzione storiografica» delle «Annales». Refrattario a ogni specialismo, ha sempre gettato reti larghe e profonde con l’obiettivo di comprendere i meccanismi generali del movimento storico in spazi geografici e temporali assai differenti. Ha progettato e coordinato con Corrado Vivanti la Storia d’Italia Einaudi e, autonomamente, l’Enciclopedia Einaudi, due imprese editoriali che hanno avuto un ruolo di rilievo nella cultura italiana del secolo scorso.
Ruggiero Romano nasce a Fermo il 23 novembre 1923 da padre napoletano, magistrato, e da madre di origine siciliana. Dopo aver trascorso l’infanzia nelle Marche, inizia gli studi universitari a Napoli nel 1939, in un ambiente culturale influenzato dalla personalità di Benedetto Croce, e si laurea in filosofia. Nel biennio 1947-48 frequenta l’Istituto italiano per gli studi storici, fondato e presieduto da Croce e diretto da Federico Chabod. Nel 1948 si trasferisce in Francia e conosce Braudel. Affascinato dalla figura dello storico francese e dall’ambiente culturale che ruota intorno al suo centro di ricerca ed escluso dalla carriera accademica in Italia, decide di stabilirsi a Parigi ove nel 1952, non ancora trentenne, è nominato titolare della direction d’études del corso di problemi e metodi di storia economica presso l’École pratique des hautes études. Ha modo così di collaborare con il fondatore delle «Annales», Lucien Febvre, e con Braudel, di diventare direttore delle pubblicazioni dell’istituzione (incarico che conserva fino al 1965) e di stringere amicizia con altri giovani storici italiani trasferitisi a Parigi negli stessi anni, come Alberto Tenenti, Ugo Tucci e, in seguito, Vivanti.
Nel 1954 insegna per cinque mesi in Cile e in quell’occasione entra per la prima volta in un archivio americano, quello di Santiago. Romano si radica ancora più profondamente in Francia, a partire dall’anno accademico 1957-58, allorché assume la direzione della Maison d’Italie della Cité universitaire di Parigi. Tra il 1958 e il 1962 viene invitato dallo storico medievale José Luis Romero presso l’Università di Buenos Aires. A partire dal 1962, nei suoi corsi all’École tralascia gli argomenti europei per dedicarsi a temi americani, in particolare alle problematiche storiche connesse al sottosviluppo, al funzionamento delle economie coloniali e alla conquista del Nuovo Mondo.
Romano, in polemica con la contestazione giovanile del Sessantotto e con la nuova idea di università che viene affermandosi, rallenta progressivamente i suoi impegni accademici e, nel dicembre di quell’anno, rinuncia alla direzione della Maison d’Italie. Sin dall’inizio degli anni Sessanta aveva iniziato a collaborare con la casa editrice Giulio Einaudi di Torino, un’attività di consulenza che diviene nel decennio successivo il suo campo di impegno principale. La sua attività editoriale è indissolubilmente legata alla serie di Grandi Opere pubblicate fra gli anni Settanta e Ottanta, fra cui la Storia d’Italia Einaudi e l’Enciclopedia Einaudi. Cura inoltre la rivista «Nova americana», in collaborazione con Marcello Carmagnani. Dopo una dolorosa malattia si spegne a Parigi il 5 gennaio 2002, assistito dalla compagna Françoise, la figlia del suo maestro Braudel.
Nell’autunno del 1942, Romano partecipa a una serie di incontri con un gruppo di giovani intellettuali antifascisti partenopei i quali, nonostante il suo orientamento favorevole al regime, lo invitano a frequentare seminari di lettura del Manifesto del Partito comunista di Karl Marx, certi di potersi fidare di lui. In questa fase di profondi cambiamenti politici e culturali segue i corsi universitari di Nino Cortese e si laurea in filosofia discutendo una tesi sulla figura di Vincenzo Russo e la Repubblica napoletana del 1799, una tesi, secondo quanto rievocato dallo stesso Romano, «su un comunista, nel senso del secolo XVIII, un giacobino estremista, un robespierrista napoletano» (cit. in Quattrocchi Woisson 1988, p. 36). In seguito si laurea anche in lettere con una ricerca sulle relazioni tra il Regno di Napoli, la Francia e la Repubblica di Venezia in età moderna. Nel biennio 1947-48 è ammesso, in qualità di uditore, ma non di borsista, alla frequenza del nuovo Istituto italiano per gli studi storici. Con i borsisti di quel periodo, fra cui si ricordano Vittorio De Caprariis, Marcello Gigante, Ettore Lepore, Rosario Romeo e Cinzio Violante, segue i seminari di Chabod che lo persuade ad abbandonare il progetto di studiare la Rivoluzione napoletana del 1799 e lo invita a trasferirsi a Parigi per irrobustire la sua formazione di storico.
Egli giunge in Francia nel dicembre 1947 e si iscrive al dottorato di Stato che non avrebbe, però, mai concluso. Il soggiorno francese rappresenta una tappa decisiva nella sua biografia in quanto gli consente di conoscere Braudel, che lo aveva già notato qualche tempo prima mentre svolgeva ricerche all’Archivio di Stato di Venezia. Lo storico francese lo introduce nell’École pratique des hautes études, presso la VI sezione da lui promossa con Febvre, un’istituzione scientifica all’avanguardia che si poneva l’obiettivo di studiare le scienze sociali nel loro insieme, facendo interagire la storia, l’economia e la sociologia. In questi primi anni Romano frequenta assiduamente i seminari di Braudel e, per sua stessa ammissione, abbandona sul piano intellettuale la fascinazione per la cultura tedesca, per l’idealismo e per lo storicismo di cui si era nutrito nel corso del pur formativo periodo napoletano. Al contrario, rimane deluso dai professori universitari della Sorbona che giudica «assai modesti in rapporto ai suoi maestri italiani Federico Chabod, Benedetto Croce e Gino Luzzatto» (Carmagnani 2003, p. 6), a eccezione di Ernest Labrousse, l’illustre storico dei prezzi e delle fluttuazioni economiche che lo avvicina per primo allo studio di queste tematiche.
Romano si radica più profondamente in Francia a partire dall’anno accademico 1957-58, allorché assume la direzione della Maison d’Italie. Grazie al duplice ruolo di direttore di una residenza postuniversitaria e di insegnante, diventa un punto di riferimento pratico e culturale per i tanti ricercatori italiani e stranieri, in particolare polacchi e latino-americani, che in quegli anni si trasferiscono a Parigi attratti dal livello degli studi in Francia e dalla nuova metodologia scientifica pluridisciplinare promossa dall’École pratique des hautes études.
Sul finire degli anni Cinquanta Romano si occupa soprattutto di storia dell’economia, una disciplina che riesce a innovare mettendo in continua relazione la dimensione qualitativa e quella quantitativa dei fattori, la produzione dei beni e il loro consumo, l’economia e la società. I suoi lavori sul commercio, sui salari, sull’industria tessile e sui prezzi sono pubblicati in prevalenza sotto forma di saggi in importanti riviste internazionali, fra cui si ricordano per l’assiduità della collaborazione le «Annales» e la «Rivista storica italiana».
Fra gli articoli di quegli anni occorre almeno menzionare quello del 1962 (Tra XVI e XVII secolo. Una crisi economica, 1619-1622, «Rivista storica italiana», 3, pp. 481-531) dedicato ai riflessi, nella penisola italiana, della crisi economica europea del triennio 1619-22, che si inserisce all’interno di un acceso dibattito intorno alla crisi del Seicento stimolato nel decennio precedente dalla rivista inglese «Past and present». Romano utilizza una serie di statistiche sul commercio, sull’industria, sull’agricoltura, sull’arrivo dei metalli preziosi e sulle emissioni monetarie per dimostrare che, tra il 1619 e il 1622, l’economia continentale entra in crisi, avviando un processo di rifeudalizzazione che pone fine al «lungo Cinquecento» italiano e favorisce una reazione signorile con il ritorno a forme feudali nell’economia in gran parte d’Europa, con le eccezioni virtuose dell’Olanda e dell’Inghilterra. Egli sostiene che in Italia la crisi è causata dall’incapacità di rafforzare la produzione manifatturiera rispetto a quella agricola, una difficoltà che provoca una ripresa dell’economia naturale nel Nord Italia e un consolidamento dei legami feudali preesistenti nel Sud della penisola. Secondo Romano la crisi delle economie cittadine spinge i ceti mercantili a indirizzare i propri investimenti verso la terra piuttosto che verso i commerci e questa scelta determina l’inizio del declino italiano, la perdita di un primato cinquecentesco che si sarebbe protratta almeno fino agli anni Cinquanta del Novecento, quando si cominciano ad avvertire i primi segnali di ripresa.
I suoi studi sulla crisi sono stati sottoposti a una revisione critica che ha impropriamente trasformato Romano nel rigido assertore di un paradigma storiografico totalizzante, quello della rifeudalizzazione e della decadenza italiana. In realtà, egli ha scritto a chiare lettere di non essere favorevole a un uso estensivo del concetto, che non aveva alcun valore sul piano giuridico e istituzionale, ma doveva limitarsi alla sfera economica. Per rifeudalizzazione Romano intende un aumento dello sfruttamento del lavoro dei contadini e un conseguente peggioramento delle loro condizioni di vita, che è però accompagnato da un incremento della produttività agricola con l’intensificazione di antiche coltivazioni, come il limone e l’arancio, e l’inserimento di nuove colture come il mais e il riso.
Il merito maggiore della sua ricerca è quello di avere spostato al Seicento, sulla scorta dell’analisi di Braudel, alcuni luoghi comuni di derivazione tardo-ottocentesca a proposito della decadenza italiana, tradizionalmente considerata già in atto in pieno Cinquecento.
Il nodo centrale di tutta la produzione storiografica di Romano è rappresentato dalla concezione della storia come meccanismo d’insieme e quindi dei complessi rapporti che intercorrono tra la stabilità e il movimento, le identità e le differenze, che mai egli avrebbe accettato di rinchiudere in un monolitico paradigma interpretativo. È lo stesso Romano a suggerire questa pista allorquando sostiene che
la storia è in realtà un meccanismo. Nella storia ci sono ruote; se uno pone in movimento una ruota, per quanto piccola sia, contribuisce a tutto il movimento. Quello che mi interessa è il movimento generale; questo mi piace allo stesso modo come mi sarebbe piaciuto fare linguistica (cit. in Quattrocchi Woisson 1988, p. 43).
Se si scorre la sua produzione scientifica, che consta di quasi quattrocento titoli, si comprende che i meccanismi fondamentali di un sistema storico sono per lui essenzialmente due: i meccanismi della crisi, che lo hanno portato a indagare il funzionamento economico dell’Italia e dell’Europa in età moderna, e i meccanismi della dominazione che lo hanno indotto a studiare la conquista europea dell’America Meridionale, il suo secondo e principale filone di ricerca. La necessità di avere una visione d’insieme e allo stesso tempo dinamica del meccanismo storico lo ha spinto a valorizzare nei suoi studi una fondamentale differenza, quella fra crescita quantitativa e sviluppo qualitativo, sviluppo che si verifica quando si assiste a un miglioramento non solo economico, ma anche del modello politico, sociale e culturale di una determinata realtà storica. Secondo Romano tale problematica centrale sottende e favorisce la comprensione di altre questioni non secondarie quali i rapporti fra struttura e congiuntura, la pervasività del sistema feudale, il ruolo degli intellettuali, il sistema di selezione delle classi dirigenti, lo sfasamento esistente fra la storia culturale e quella economica.
La storia dei meccanismi economici e culturali di quella che Romano si è sempre rifiutato di chiamare con il termine anacronistico di America Latina, rappresenta l’altro pluridecennale suo interesse di ricerca. In effetti, la sua opera intellettuale costituisce un momento determinante non solo per capire i rapporti tra la storia italiana e le vicende europee, ma anche le relazioni intercorse, di scambio e di dominio, tra il vecchio continente e quella che lui amava definire l’America iberica. Egli, in particolare, analizza l’influsso che i modelli economici dell’Europa preindustriale hanno avuto nella formazione dell’economia americana, valorizzando i reciproci condizionamenti e comparando fra loro i due sistemi.
L’interesse di Romano verso tale argomento risale all’inizio degli anni Cinquanta ed è certamente favorito dalla conoscenza dello spagnolo, dal momento che egli avrebbe voluto studiare il Giappone e la sua alterità culturale, ma era rimasto bloccato appunto dalla barriera linguistica. Per Romano i meccanismi della dominazione spagnola (simbolicamente rappresentati dalla spada, dalla croce e dalla fame) sono importanti in quanto ricorrono anche nei secoli successivi in altri Paesi europei. Sono infatti la superiorità militare, sul piano strategico e tecnologico, l’intento evangelizzatore e missionario e la violenta sottomissione agli interessi economici dei conquistatori che consentono – prima in America, in seguito in Oriente e in Africa – l’instaurarsi del predominio coloniale europeo. La destrutturazione demografica, economica e sociale dei popoli conquistati costituisce l’obiettivo strategico della conquista e successivamente si trasforma nello strumento di cui i dominatori si servono per mantenere la loro supremazia: solo così gli spagnoli possono, benché numericamente assai inferiori, imporsi prima militarmente e poi sul piano politico e civile agli indios americani.
Un simile approccio storiografico, aperto in senso diacronico e tematico – «sono uno storico polivalente, non mi sono mai specializzato in un secolo o in un Paese» (cit. in Gotor 2005, p. 92) amava ricordare con una punta di orgoglio Romano – lo inducono a valorizzare, sulla scia dei lavori di Braudel, la questione del relativismo culturale, ossia, la
preoccupazione secondo cui non c’è esclusivamente la nostra civiltà europea e che solo una riflessione su questa civiltà e su tutte le altre (quelle che vengono chiamate minori, selvagge o – addirittura – inciviltà) può e deve condurci a quel ‘relativisme des civilisations’: cioè, a una più esatta e più valida definizione di noi stessi, della nostra civiltà (introduzione ad A. Métraux, Gli Inca. Profilo storico antropologico di una società, 1969, p. VII).
Muovendo da questi presupposti teorici è assai breve il cammino che conduce a sviluppare una corrosiva critica della cultura umanistica rinascimentale e della visione eurocentrica del discorso storico, tradizionalmente costruito intorno alla soggettività occidentale. A giudizio di Romano proprio questo aspetto è il punto centrale della differenza di fondo tra l’orientamento storiografico di Febvre e quello di Braudel, da lui preferito:
le «Annales» fino a Febvre parlano sempre dell’uomo, l’homme: quelle prime «Annales» sono le «Annales» dell’uomo. E invece per Braudel, a partire da Braudel, incominciano gli uomini al plurale, les hommes e il contrasto Braudel-Febvre era proprio intorno a questo. Il contrasto di fondo era questo: l’homme versus les hommes. E questo si spiega perché mentre Febvre era un uomo europeo, Braudel era un uomo che ha vissuto per molti anni in Brasile e ha capito le differenze; ha vissuto in Algeria e quindi si è reso conto di alcune differenze: che questo uomo non esiste, che questo uomo è l’uomo dell’umanesimo; Febvre lo diceva in perfetta buona fede, per l’amor di Dio: ma l’uomo dell’Umanesimo, attenzione, è l’uomo che ha consentito i peggiori crimini sulla faccia della terra, perché io sono l’uomo perché sono nato in Europa, e gli altri o si adeguano ai miei parametri di uomo, o se no io li faccio fuori, o diventano cristiani, o cominciano a mangiare con la forchetta e con il coltello, o si vestono come me, o io li faccio fuori perché non sono più uomini, non fanno parte della specie umana. Se noi restiamo insomma nell’ambito europeo, con il termosifone, con il ristorante o con la mensa calda o lo snack bar, in tal caso possiamo benissimo parlare dell’uomo. Però quando si esce da questi contesti e si va in altri contesti occorre riconoscere che i criteri per giudicare l’uomo sono altri, e se esistono altri criteri per giudicare l’uomo, bisogna pure che si riconosca che non c’è l’uomo, ma che esistono gli uomini al plurale (cit. in Gotor 2005, p. 93).
Riflessioni di questo genere portano Romano ad approfondire tematiche poco consuete, ma assai significative sul piano economico e culturale, come la produzione della pianta della coca e il suo uso come stupefacente, e a guardare con attenzione al percorso intrapreso all’inizio degli anni Settanta dai microstorici italiani e francesi, ai quali segnala un libro modello, quello di Luis González y González, Pueblo en vilo. Microhistoria de San José de Gracia, edito in Messico nel 1968.
Assiduo e fecondo è stato il dialogo di Romano con la cultura polacca, ma anche l’impegno da lui profuso nella didattica della storia per le scuole superiori (è autore di due manuali) e come direttore di tesi di dottorato, un’attività in cui ha cercato di affermare le ragioni di una pedagogia aperta e flessibile, influenzata dalle sue riflessioni teoriche in campo culturale:
ho una certa idea dell’insegnamento: non bisogna insegnare verità. Quelli che insegnano verità sono pessimi professori, pessimi uomini e sono veramente gli ultimi colonizzatori […] Non ho insegnato verità, ho insegnato ad avere dubbi» (cit. in Quattrocchi Woisson 1988, p. 37).
Sin dagli anni Sessanta aveva iniziato a collaborare con la casa editrice Einaudi di Torino, un’attività di consulenza che diviene, nel decennio successivo, il suo campo di lavoro principale. A determinare la qualità e la quantità di questo nuovo impegno editoriale concorre, all’inizio degli anni Settanta, la crisi dei rapporti tra Romano e l’École pratique des hautes études, a causa della progressiva marginalizzazione subita dalla storia economica nell’istituzione in favore della storia culturale e dei comportamenti.
Nel corso della fase più intensa della sua collaborazione Romano segnala all’editore importanti autori di storia economica come Wilhelm Abel, Paul Bairoch, Celso Furtado Monteiro, Alexander Gerschenkron, John V. Murra, Bernard Slicher van Bath e scrittori americani del calibro di Jorge Amado e Julio Cortázar. A metà degli anni Sessanta elabora il progetto di una Collana di storia economica che non si realizza, come quello relativo a una Storia universale. Romano è fra gli ispiratori della Storia di Roma Einaudi, ma soprattutto progetta e coordina la Storia d’Italia Einaudi e l’Enciclopedia Einaudi.
La prima iniziativa editoriale è ideata, progettata e diretta con Corrado Vivanti nel decennio 1966-76. Il primo dei sei volumi, divisi in dieci tomi, esce nel 1972, ma al termine dell’opera viene programmata una serie aperta di Annali ancora in corso di pubblicazione. La Storia d’Italia Einaudi, che incontra un notevole successo anche presso un pubblico non specialistico, si caratterizza per la scelta di una periodizzazione lunga, per l’individuazione di alcuni «caratteri originali» della plurisecolare storia italiana, per il fecondo incontro fra l’analisi gramsciana e la cultura francese delle «Annales» e per l’opzione di una storia di carattere generale in grado di includere le componenti più diverse, economiche, materiali, sociali, di costume, ma anche politiche, di mentalità, di atteggiamenti individuali e di gruppo e di ricondurle a un principio unitario.
L’Enciclopedia Einaudi, pubblicata in sedici volumi tra il 1977 e il 1984, è un gigantesco progetto che arriva a compimento solo grazie all’entusiasmo di Romano e alle sue non comuni capacità di lavoro tra Parigi e Milano, la sede della redazione. Secondo il curatore, l’Enciclopedia avrebbe dovuto raggiungere due differenti, ma complementari scopi: da una parte, offrire una mappatura completa del discorso scientifico contemporaneo attraverso la definizione dei suoi concetti fondamentali; dall’altro, classificare i diversi saperi secondo i principi propri di ogni disciplina, mettendo in evidenza la rete di connessioni logiche, cognitive, antropologiche e storiche che legano ciascuna disciplina alle altre, in una nuova e originale prospettiva metadisciplinare e di sistema.
Romano negli anni Novanta torna a ragionare criticamente sull’Italia. Egli ritiene che la storia della penisola sia stata profondamente condizionata dall’assenza di uno Stato unitario, ma il «Paese Italia» si è progressivamente costruito, a partire dall’11° sec., attraverso un intreccio sempre più fitto e stratificato di elementi umani, sociali e culturali (dal giardinaggio alla moda, dalla moneta alla mercatura, dalla cucina alla musica) che nel tempo hanno forgiato il carattere degli italiani e determinato il loro primato storico tra due crisi economiche diverse, ma egualmente profonde, quella trecentesca e quella seicentesca. Romano invita a mettere da parte i termini abusati e retorici di nazione e di storia patria e a trovare nei concetti di Paese e di «storia matria» un nuovo riferimento culturale, alimentato da «le ragioni calde, dei sentimenti, del cuore» (Paese Italia. Venti secoli d’identità, 1994, p. 13).
F. Braudel, R. Romano, Navires et marchandises à l’entrée du port de Livourne 1547-1611, Paris 1951.
Le commerce du Royaume de Naples avec la France et les pays de l’Adriatique au XVIIIe siècle, Paris 1951.
Commerce et prix du blé à Marseille au XVIIIe siècle, Paris 1956.
Cristoforo Colombo, Milano 1965.
Prezzi, salari e servizi a Napoli nel secolo XVIII (1734-1806), Milano 1965.
Una economía colonial: Chile en el siglo XVIII, Buenos Aires 1965.
Cuestiones de historia económica latinoamericana, Caracas 1966.
I prezzi in Europa dal XIII secolo a oggi, Torino 1967.
Die Grundlegung der modernen Welt: Spätmittelalter, Renaissance, Reformation, hrsg. R. Romano, A. Tenenti, Frankfurt a.M. 1967 (trad. it. Alle origini del mondo moderno, 1350-1550, Milano 1967).
Introduzione ad A. Métraux, Gli Inca. Profilo storico antropologico di una società, Torino 1969.
Le prix du froment en France au temps de la monnaie stable 1726-1913. Réédition de grands tableaux statistiques, introduction et notes par E. Labrousse, R. Romano, F.G. Dreyfus, Paris 1970.
Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, Torino 1971.
R. Romano, A. Tenenti, Il Rinascimento e la Riforma (1378-1598), Torino 1972.
Les mécanismes de la conquête coloniale: les conquistadores, Paris 1972.
Storia d’Italia Einaudi, diretta da R. Romano, C. Vivanti, 6 voll., Torino 1972-1976.
Storia delle rivoluzioni, a cura di R. Romano, Milano 1973.
Industria: storia e problemi, Torino 1976.
Napoli: dal Viceregno al regno. Storia economica, Torino 1976.
Enciclopedia Einaudi, diretta da R. Romano, 16 voll., Torino 1977-1984.
La storiografia italiana oggi, Roma 1978.
L’Europa tra due crisi. XIV e XVII secolo, Torino 1980.
Tra storici ed economisti, Torino 1982.
Storia d’Italia, diretta da R. Romano, 12 voll., Milano 1989.
Storia dell’economia italiana, a cura di R. Romano, 3 voll., Torino 1991.
Opposte congiunture. La crisi del Seicento in Europa e in America, Venezia 1992.
Paese Italia. Venti secoli d’identità, Roma 1994.
Braudel e noi. Riflessioni sulla cultura storica del nostro tempo, Roma 1995.
Europa e altri saggi di storia, Roma 1996.
Para una historia de América, M. Carmagnani, A. Hernández Chávez, R. Romano coordinadores, México 1999.
Mecanismo y elementos del sistema económico colonial americano. Siglos XVI-XVIII, México 2004 (trad. it. Torino 2007).
Ruggiero Romano aux pays de l’histoire et des sciences humaines. Etudes publiées à l’occasion de son 60e anniversaire, «Revue européenne des sciences sociales. Cahiers Vilfredo Pareto», 1983, 21, 64 (contiene un saggio autobiografico di R. Romano, Encore des illusions, pp. 13-28).
D. Quattrocchi Woisson, Reportaje a Ruggiero Romano, sobre el quehacer historiográfico en Francia, «Todo es historia», 1988, 251, pp. 36-43.
Ruggiero Romano: l’Italia, l’Europa, l’America. Studi e contributi in occasione della laurea honoris causa, a cura di A. Filippi, Camerino 1999 (con bibl. ragionata a cura di A. Filippo, pp. 455-85).
Una giornata con Ruggiero Romano: 25 ottobre 2000, a cura di L. Perini, M. Plana, Firenze 2001.
G. Busino, Ruggiero Romano (1923-2002). In memoriam, «Rivista storica italiana », 2002, 3, pp. 1069-76.
Construir la historia: homenaje a Ruggiero Romano, a cura di A. Tortolero, Mexico 2002.
T. Hampe Martínez, Ruggiero Romano (1923-2002), gran maestro de la historia económica, «Revista de historia de América», 2002, 131, pp. 233-39.
M. Carmagnani, Ruggiero Romano tra l’Europa e l’America Latina, «Storia della storiografia», 2003, 43, pp. 3-11.
M. Gotor, Ricordo di Ruggiero Romano: lo storico dei meccanismi e degli uomini al plurale, «Storiografia», 2005, pp. 87-96.
Scritti in ricordo di Ruggiero Romano, a cura di C. Ancona, G. Cisbani, P. Concetti, A. Filippi, Sant’Elpidio a Mare 2009.
D. Bidussa, Ancora illusioni: note sulla ricerca storica di Ruggiero Romano, «Quaderni di storia», 2012, 75, pp. 31-80.
Su Corrado Vivanti:
G. Miccoli, Ricordo di Corrado Vivanti, «Studi storici», 2012, 53, 3, pp. 495-509.
Su Alberto Tenenti:
P. Scaramella, Il senso della storia: un profilo bio-bibliografico di Alberto Tenenti, in Alberto Tenenti. Scritti in memoria, a cura di P. Scaramella, Napoli 2005, pp. 11-27.
Nel corso della sua vita Ruggiero Romano ha intessuto rapporti di amicizia e di collaborazione culturale con Corrado Vivanti e Alberto Tenenti, conosciuti in occasione dei loro rispettivi soggiorni parigini. Con Vivanti (Mantova 1928-Torino 2012) ha costituito una formidabile e assortita coppia di lavoro storico. Vivanti, colpito a dieci anni dalle leggi razziali del 1938 e sfuggito per un soffio alla deportazione, dopo un periodo trascorso in Israele nei primi anni Cinquanta, rientra a Firenze ove si laurea con Delio Cantimori e, dal 1957 al 1962, vive a Parigi studiando con Fernand Braudel. Inizia i suoi studi dedicandosi alle campagne del mantovano e, in seguito, approfondisce il pensiero di Niccolò Machiavelli, di Paolo Sarpi e di Alexis de Tocqueville, fornendo una serie di edizioni delle loro opere che resteranno, insieme con le relative introduzioni, un insostituibile punto di riferimento culturale e filologico. È stato un’originale figura di intellettuale moderno perché, al consueto impegno universitario a Torino, Perugia e Roma, ha affiancato un’intensa attività nel mondo dell’editoria. Nel 1962 inizia a collaborare con Giulio Einaudi e, nel corso di oltre un ventennio, svolge un prezioso lavoro di promotore culturale nel campo della saggistica storica e non solo, contribuendo a rinnovare e a sprovincializzare il modo di guardare alla nostra storia nazionale. Il suo libro più importante è dedicato alle guerre di religione in Francia nel Cinquecento (Lotta politica e pace religiosa in Francia fra Cinque e Seicento, 1963). Egli ha studiato per tutta la vita i pacificatori, la laicità di pensiero e il realismo politico in quanto aveva vissuto sulla propria pelle la tragedia della guerra, del fascismo e della persecuzione degli ebrei, cui ha dedicato studi importanti culminati nel 1996 nella cura di un Annale della Storia d’Italia Einaudi.
Anche Tenenti (Viareggio 1924-Parigi 2002) si trasferisce in Francia nel 1947 sotto la guida di Lucien Febvre e Braudel. Normalista, allievo di Cantimori, che contribuì a far conoscere oltralpe, ha svolto una preziosa funzione di scambio interculturale tra Francia e Italia, tra la tradizione storicista di derivazione crociana e marxista-gramsciana della Scuola Superiore Normale di Pisa e le suggestioni sperimentali e interdisciplinari delle «Annales». Prima di stabilirsi definitivamente a Parigi nel 1962, lavora negli Archivi di Stato di Venezia e Brescia acquisendo così un metodo di ricerca che ha fatto di lui un esemplare storico di archivio e di biblioteca, interessato sia alla storia della cultura e della sensibilità sia alla storia dell’economia e delle strutture materiali, alla continua ricerca di un ideale punto di intersezione tra i suoi maestri francesi Febvre e Braudel. Divenuto directeur d’études, insegna dal 1966 histoire sociale des cultures européennes presso l’École pratique des hautes études senza mai interrompere i contatti con il mondo accademico italiano e, in particolare, con l’amata Venezia. Studia la cultura dell’Umanesimo e del Rinascimento italiano, in particolare Leon Battista Alberti, Machiavelli, Francesco Guicciardini, la realtà economica marinara di Venezia, la storia dello Stato, dell’urbanizzazione e dell’architettura. Il suo tema di elezione è stato il «senso di sopravvivenza» e il significato del macabro nell’arte e nella letteratura tra Quattro e Cinquecento su cui ha scritto nel 1957 il libro più importante, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento: Francia e Italia, ove rivela la sua capacità di tenere insieme la ricerca filologica con il gusto per le panoramiche globali e le tematiche di lunga durata.