RUGGERO da Torrecuso
RUGGERO da Torrecuso (Ruggero di Puglia o Ruggero Apulo). – Nacque fra il 1201 e il 1205 probabilmente nella cittadina di Torremaggiore, nella Capitanata, a circa 40 km a nord di Foggia, dove nel Duecento si trovava l’antico monastero benedettino, poi distrutto, di Terrae Maioris e dove oggi esiste una strada a lui dedicata; nulla si sa dei genitori.
Avviato fin da giovane alla carriera ecclesiastica e formatosi nelle discipline giuridiche presso l’Università di Bologna, entrò al servizio del cardinale piacentino Jacopo da Pecorara, vescovo di Preneste, che nel 1232 venne nominato legato pontificio in Ungheria per volere di papa Gregorio IX per appianare il conflitto tra il re Andrea II e l’arcivescovo Róbert di Esztergom. Ruggero, che aveva seguito tale cardinale, entrò a far parte del gruppo del vescovo Benedetto di Nagyvárad-Grosswardein (Magnum Varadinum) – l’attuale Oradea in Transilvania, la più grande città rumena del distretto di Bihor, nella quale si trova un quartiere intitolato a Rogériusz – venendo nominato prima cappellano e poi arcidiacono del capitolo della cattedrale di quella città.
Uomo dinamico, competente e di grande cultura, ma anche – secondo il cronista dalmata Tommaso da Spalato che lo frequentò a lungo – raffinato amante delle suppellettili preziose e delle vesti sontuose, dopo la battaglia di Mohi (11 aprile 1241) vide crollare la Transilvania, la Pannonia e l’Ungheria, allora governate con molta difficoltà da re Béla IV, sotto i colpi dell’invasione dei mongoli guidati da Batu, khan dell’Orda d’oro. Fuggito nei boschi in seguito alla distruzione della fortezza di Oradea, dopo aver trovato rifugio nella città di Tamáshida-Thomasbruck (l’odierna Tămasda), situata lungo le sponde del fiume Körös-Cris, venne catturato dagli invasori e costretto per circa un anno a prestare servizio alle dipendenze di un canesius ungherese, un traditore integrato con funzioni di balivus.
Tutte queste vicende furono da lui raccontate nel Carmen miserabile, che Edward Gibbon non ha esitato a definire «the best picture that I have ever seen of all the circumstances of a barbaric invasion» (Gibbon, 1906, p. 6). Si tratta infatti di una testimonianza costantemente sospesa tra la vita e la morte, scritta «non a riprensione altrui, ma ad istruzione comune [...], affinché chi legge [...] intenda che sono vicini i giorni della perdizione, si approssimano i tempi del finimondo» (Soranzo, 1930, p. 43): una narrazione drammatica, «esposta in pagine di una vivacità incredibile non immune dal sospetto di accentuazioni retoriche per intrattenimento curiale (per esempio: le descrizioni topiche degli effetti del terrore e della fame)» (Cocci, 1996, p. 182), molto simile a quelle di tante cronache occidentali contemporanee, che attestano e svelano i sentimenti e le angosce che turbarono l’animo di Ruggero e sconvolsero la cristianità in quella drammatica circostanza.
Mentre le orde mongole stavano abbandonando l’Ungheria con l’ingente bottino, i prigionieri e le greggi sottratte ai magiari, Ruggero, dopo aver percorso un Paese, secondo le sue parole, devastato, affamato e quasi desertificato dalla guerra, riuscì ad allontanarsi e a fuggire rientrando in territorio ungherese. Nel 1243, dopo aver attraversato la Croazia e la Carinzia, giunse ad Aquileia, dove il patriarca Bertoldo, zio di Béla IV, re d’Ungheria, lo accolse fraternamente assieme ad altri profughi e ne favorì il rientro a Roma, perché potesse aggiornare la Curia romana sui tragici avvenimenti dei quali era stato testimone; ma già nello stesso anno tornò nuovamente in Ungheria, dove venne nominato arcidiacono di Sopron (in tedesco Ödenburg). È probabile che in quella circostanza abbia composto, all’inizio del 1244, il Carmen miserabile, che come documento preparatorio sarebbe stato utile ai padri del Concilio di Lione, chiamati, fra le altre cose, a decidere l’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti dell’invasione mongola.
Alcune soluzioni da lui suggerite per frenare, o perlomeno arginare, il pericolo mongolo, come la difesa dei passi e una più efficiente fortificazione dei centri abitati, furono effettivamente accolte dal Concilio. Questo testo sarebbe dovuto servire a Ruggero anche per segnalare con dignità e decisione le sue difficoltà materiali e giustificarsi nei confronti delle autorità ecclesiastiche dall’accusa di aver abbandonato il capitolo di Varadino, una volta tornato libero.
Rientrato nuovamente a Roma, passò al servizio del cistercense Giovanni di Toledo, cardinale-prete di S. Lorenzo in Lucina, che ne favorì la nomina a canonico di Zagabria, anche se sembra probabile che nel 1245 si sia recato a Lione al seguito di quest’ultimo per partecipare direttamente all’elaborazione delle proposte avanzate e discusse nel Concilio per prevenire e contrastare nuovi attacchi dei mongoli.
A questo riguardo ricordiamo anche che in quel periodo era presente a Lione pure il domenicano Vincenzo di Beauvais, che nell’ultima parte della sua fortunata enciclopedia, lo Speculum historiale, avrebbe raccolto e rilanciato in tutta la cristianità la testimonianza di Ruggero sull’invasione mongola dell’Ungheria.
Malgrado le resistenze del clero locale, il 30 aprile 1249 Ruggero fu eletto arcivescovo di Spalato da Innocenzo IV, incarico che mantenne fino alla morte, avvenuta il 14 aprile 1266, dopo che negli ultimi anni di vita era stato colpito da una forma di gotta che lo aveva paralizzato. Venne sepolto davanti ai cancelli della cattedrale di Spalato.
L’Epistola super destructione regni Hungariae per Tartaros facta, o Planctus destructionis Regni Hungariae per Tartaros, meglio nota nella tradizione medievale manoscritta come Carmen miserabile, dedicato a un vescovo di nome Giovanni, di cui è andato perduto il manoscritto originale, fu la prima dettagliata testimonianza redatta nell’Europa cristiana sulle popolazioni mongole e sulle loro conquiste giunte fino ai pressi di Vienna. Di questi problemi e di queste vicende Ruggero ci ha lasciato un resoconto abbastanza lungo e dettagliato, denunciando con crude immagini lo stato di isolamento e abbandono nel quale si venne a trovare il Regno di Ungheria, spazzato via in pochi mesi, e insistendo sugli aspetti più inquietanti di una vicenda che provocò la morte di oltre due milioni di persone e produsse un trauma profondo e duraturo fra i superstiti, anche se precisa per ben tre volte di aver voluto tacere i particolari di alcuni episodi drammatici, convinto che i lettori non avrebbero creduto alle sue parole.
Una parte rilevante del Carmen (ben quattordici capitoli su quaranta) è dedicata alla ricerca delle cause e delle responsabilità del disastro, individuate nelle spinte centrifughe della nobiltà ungherese incapace di superare gli egoismi personali e nelle deficienze strutturali del sistema difensivo del regno di Béla IV, di cui tuttavia prende le difese lodandone l’impegno missionario e gli sforzi esercitati per convertire e integrare nel suo regno i Cumani, popolo nomade e pagano. Le operazioni militari, che ebbero inizio fra il gennaio e il febbraio 1241, sono ricostruite nei minimi dettagli, con particolare riguardo alle tecniche militari e alle strategie adottate dai condottieri mongoli, fino alla battaglia di Mohi, che si rivelò catastrofica a causa della sottovalutazione delle capacità militari dei mongoli, i quali annientarono completamente la resistenza ungherese. Tale battaglia aprì la strada alla devastazione del territorio ungherese in un clima di terrore e incubo per le popolazioni locali, ridotte in condizioni miserevoli per il dilagare della fame e della carestia protrattesi fino al 1243. Ruggero nota a questo proposito che gli stessi eccidi e l’incredibile ferocia dei mongoli non erano casuali, ma dettati da una precisa strategia: terrorizzare le popolazioni, annichilendone ogni tentativo di resistenza, per cui fecero terra bruciata di tutto quanto non servisse loro nell’immediato.
Naturalmente il racconto di Ruggero, in ossequio alle convinzioni riconducibili alle teorie apocalittiche, escatologiche e millenaristiche, allora largamente diffuse, che tendevano a considerare i mongoli un popolo satanico, non è privo a questo riguardo di forzature ed esagerazioni retoriche, come le stereotipate accuse di antropofagia («vivos assabant homines sicut porcos»: Rogerius, Carmen miserabile, a cura di L. Juhász, 1938, p. 585). Nello stesso tempo però egli fa notare che i mongoli avevano deciso di tenere in vita alcune comunità di contadini perché lavorassero la terra per garantire loro gli approvvigionamenti necessari per la stagione invernale, sottolineando la capacità di sfruttare a loro vantaggio anche le condizioni climatiche più avverse e solitamente meno adatte alle operazioni belliche, e – oltre a ricordare casi di ungheresi lasciati ritornare ai loro consueti traffici – ammette che nelle zone sottomesse alla pace mongola vennero concesse alcune forme di autonomia e mantenuti dei rapporti giuridici.
Pur manifestando in linea di massima un giudizio complessivamente negativo nei confronti dei conquistatori, Ruggero evidenzia infatti alcune loro ‘qualità positive’ come il coraggio e la solidarietà, il rispetto della gerarchia nella divisione del bottino e l’astuzia nel trovare il sistema per attraversare il Danubio gelato, la stabilità di governo, la normalità dei traffici e una buona amministrazione della giustizia in molti territori, anche mediante il ricorso a ungheresi integrati o persino assimilati.
Fonti e Bibl.: Rogerii miserabile carmen super destructione regni Hungariae per Tartaros facta, a cura di M. Perlbach, in MGH, Scriptores, XXIX, Hannover 1892, pp. 547-567 (del Carmen sono state curate diverse traduzioni; fra le più recenti ricordiamo quelle in rumeno: Bucarest 1935; in tedesco: Eisenstadt 1979; in ceco: Praga 1988; in ungherese: Budapest 2001; in croato: Zagabria 2010; in inglese: Cambridge 2010; in italiano: Genova-Milano 2012; in russo: Mosca 2012); Rogerius, Carmen miserabile, a cura di L. Juhász, in Scriptores Rerum Hungaricarum, a cura di E. Szentpétery, II, Budapest 1938, pp. 543-588; Historia Salonitanorum atque Spalatinorum pontificum Thomae Archidiaconi Spalatensis, a cura di D. Karbić - M. Matijević Sokol - J. Ross Sweeney, Budapest-New York 2006 (la cronaca di Tommaso di Spalato, che operò per quasi vent’anni, dal 1249 al 1266, nella curia dell’arcivescovo di Spalato, è la fonte più importante su Ruggero, di cui raccolse la successione e al quale dedicò l’intero capitolo conclusivo della sua opera).
Oltre al Repertorium Fontium Historiae Medii Aevi, a cura di A. Potthast, X, Fontes, Roma 2005, pp. 178 s., si vedano anche E. Gibbon, The decline and fall of the Roman empire, VII, New York 1906, p. 6; G. Soranzo, Il Papato, l’Europa cristiana e i Tartari. Un secolo di penetrazione occidentale in Asia, Milano 1930, ad ind.; F. Babinger, Maestro Ruggero delle Puglie, relatore pre-poliano sui Tartari, in Oriente Poliano. Nel VII centenario della nascita di Marco Polo, Venezia 1955, pp. 51-61; G.A. Bezzola, Die Mongolen in abendländischen Sicht (1220-1270). Ein Beitrag zur Frage der Völkerbegegnungen, Bern-München 1974, pp. 86-89; J. Ross Sweeney, Thomas of Spalato and the Mongols. A thirteenth century Dalmatian view of Mongols customs, in Florilegium, IV (1982), pp. 156-183; Rogerius von Torre Maggiore, Klagenlied, in Der Mongolensturm. Berichte von Augenzeugen und Zeitgenossen, 1235-1250, a cura di H. Gockenjan - J. Ross Sweneey, Graz-Wien-Köln 1985, pp. 127-187; A. Cocci, «Crudelitas, astutia et malitia» nel “Carmen miserabile” (a. 1244) di Ruggero Apulo, in Temi e immagini del Medioevo. Alla memoria di Raoul Manselli da un gruppo di allievi, a cura di E. Pásztor, Roma 1996, pp. 167-188; P. Jackson, The Mongols and the West, 1221-1410, Harlow 2005, s.v. Roger of Várad; J. Radulovic, Hungaria plena populo sedet sola. I demoni giunti dall’inferno, in “Carmen miserabile” di Maestro Ruggero, Genova-Milano 2012, pp. 7-40; A. Fara, L’impatto delle invasioni mongole nelle terre ungheresi: la guerra e la carestia attraverso il “Carmen miserabile” di Ruggero di Puglia (1244), in Guerra y carestía en la Europa medieval, a cura di P. Benito i Monclús - A. Riera i Melis, Lleida 2014, pp. 65-86.