RUGGERI, Marco detto lo Zoppo
– Nacque a Cento, tra il 1432 e il 1433, da ser Antonio di Fedele Ruggeri, esponente di una famiglia notarile stabilitasi nel centese, ma originaria di Bologna (Samoggia, 1993, in partic. p. 33). Ebbe almeno quattro fratelli: Giorgio e Giacomo, entrambi notai, una sorella di nome Jacoba e un tale Giovanni, che collaborò all’interno della stessa bottega di Marco (Supino, 1925). Il luogo natale del pittore è noto grazie a un documento rintracciato da Igino Benvenuto Supino (ibid.); per l’anno di nascita fa fede invece la dichiarazione rilasciata dallo stesso Zoppo al momento dell’adozione da parte di Francesco Squarcione: l’atto fu stipulato a Padova nel maggio del 1455, quando Marco affermava di avere ormai ventitré anni (Lazzarini, 1908, p. 152, doc. XXXVIII).
La più antica attestazione dell’attività professionale del pittore risale però al 18 giugno 1452, allorché i responsabili della Compagnia di S. Maria di Pieve di Cento pagarono 16 lire «a Mº Marcho fiolo [de] ser Antonio di Ruziero depintore da Zento per indorare e per fatura de la Nostra Dona» (Samoggia, 1993, pp. 34-37), il che dimostra come già a quelle date egli fosse un artista in grado di operare in piena autonomia.
Nulla si sa della formazione dello Zoppo, ma tutto fa pensare che il suo primo apprendistato si fosse svolto a Bologna, poiché è poco credibile che nella piccola e periferica Cento egli potesse acquisire quelle «multiplices virtutes» che lo fecero apprezzare dal suo futuro mentore Squarcione.
A partire dall’aprile del 1454 Zoppo si insediò infatti nella bottega del maestro padovano, dove si diede da fare senza sosta, «laborando continue [...] ad comodum et utilitatem diti magistri Francisci» (Lazzarini, 1908, p. 150, doc. XXXVIII).
Tale attività non dovette limitarsi alla sola pittura, ma estendersi alla realizzazione di «figuras et imagines» (p. 149), cioè alla modellazione di calchi tratti dai più svariati modelli scultorei, per la quale lo stesso allievo si era premurato di far recapitare una buona quantità di gesso bolognese. D’altra parte, risulta che l’atelier di Pontecorvo dovesse constare di ben due ambienti, uno dei quali veniva esplicitamente definito «studium parvum in domo dita a relevis» (p. 151).
Squarcione rimase così colpito dalle qualità del ragazzo, in particolare dalla sua «ingenii perspicacitatem in exercitio pictorie», che decise di adottarlo «ut filium et amorem», con l’esplicita promessa di occuparsi del suo mantenimento (p. 150): una pratica per nulla eccezionale e che lo stesso Squarcione adottò in più occasioni per aggirare le restrittive regole di ingaggio stabilite dalla fraglia dei pittori padovani.
L’atto fu formalizzato il 24 maggio 1455, presso il notaio Francesco di Piove di Sacco: Zoppo veniva designato erede universale di tutti i beni posseduti dal maestro, compreso lo «studium» di Pontecorvo, ma in cambio fu costretto a rinunciare a qualsiasi diritto sui guadagni ricavati dalla vendita delle proprie opere.
L’accordo tra i due non resse però a lungo: fu peraltro Squarcione a violare i patti, pretendendo di punto in bianco un cospicuo risarcimento per le spese sostenute nei mesi in cui aveva ospitato il suo talentuoso discepolo: un modo di agire che doveva essere «come è sempremay de so costume», almeno secondo la livorosa testimonianza rilasciata al tribunale di Padova da un tale Angelo di Silvestro, che nel 1465 accusò Squarcione di promettere «ale persone perfina tanto che li ha reducti et cavado el sugo desi et poi el fa question cum loro» (Rigoni, 1927-1928, 1970, pp. 15-17, doc. V).
La vertenza fu risolta da un arbitrato che ebbe luogo a Padova il 9 ottobre 1455. Come era già accaduto con Andrea Mantegna, fu Squarcione ad avere la peggio: non solo non gli fu concesso alcun rimborso, ma venne perfino condannato a risarcire l’allievo «pro omnibus picturis, quadris ac tellis pictis», nonché «designis» e «figuris», che il maestro aveva poi venduto «pluribus et diversis personis» (Lazzarini, 1908, pp. 153-155, doc. XL). Squarcione ottenne comunque la possibilità di saldare il proprio debito, che ammontava a venti ducati d’oro, sotto forma «de picturis, improntis, medaleis et massericiis ad artem pictorie spectantibus», una permuta che Zoppo, ormai deciso ad avviare un’attività in proprio, dovette accettare di buon grado.
Di questa gran mole di lavori resta solamente la Madonna col Bambino e otto angeli già posseduta da lord Wimborne e ora al Museo del Louvre. Oltre agli stemmi della famiglia Dardani (Callegari, 1998), la tela riporta su un finto cartiglio la data 1455 e l’eloquente segnatura «OPERA DEL ZOPPO DI SQUARCIO/NE». A dispetto della firma, l’arguta combinazione tra invenzioni lippesche e moduli donatelliani dimostra la personale adesione dello Zoppo alla nuova moda filotoscana inaugurata a Padova da Nicolò Pizolo e Andrea Mantegna, veri campioni locali del «pingere in recenti».
Esiste invero un’altra «MADONA DEL ZOPO DI SQUARCIONE», conservata al Museo nazionale d’arte rumena di Bucarest. La piccola tavola rispecchia senz’altro un’originale invenzione zoppesca, ma la scritta sgrammaticata e la qualità altrettanto incerta dell’esecuzione farebbero piuttosto pensare a una copia eseguita da un più scarso epigono della bottega di Pontecorvo, quasi certamente il pittore dalmata Giorgio Schiavone.
Sappiamo comunque che al momento della rottura con Squarcione, Marco si era ormai trasferito a Venezia, dove risulta che abitasse «in contrata Sancti Canciani» (Lazzarini, 1908, p. 152, doc. XXXIX). Non si conosce la durata di questo primo soggiorno veneziano, ma è plausibile che l’artista decidesse presto di tornare in patria, tanto che in occasione di una vendita di terreni, conclusa il primo luglio del 1462, «magister Marcus [...] pictor de terra Centi» veniva ormai definito «habitator Bononie in capella Sancti Damiani de Ponte Ferri» (Supino, 1925).
Tra il 16 novembre 1461 e il 17 febbraio 1462 il nome di «maestro Marcho di Rugiero» compare più volte nel libro paga dei fabbricieri di S. Petronio a Bologna, che gli corrisposero un totale di «lire trenta per fatura d’uno apogio e uno banchale per lo bancho de li ofiziali con S. Petronio e l’arma di monsignor Tesuto» e del cardinal Angelo Capranica (ibid.). È stato ipotizzato (Romano, 1984) che tali pagamenti siano da riferirsi ai disegni per le tarsie destinate al coro ligneo della cappella di S. Brigida, la cui esecuzione, inizialmente affidata ad Alberto di Tommasino da Baiso (morto l’11 aprile 1458), venne conclusa da Agostino De Marchi da Crema.
Il sodalizio lavorativo tra Zoppo e l’intagliatore cremasco non fu peraltro occasionale, visto che i due maestri avevano già collaborato alla realizzazione del «retabulum» commissionato intorno al 1458 dal rettore del Collegio di Spagna, Luis de Fuente Encalada. La pala, tutt’oggi collocata sull’altare maggiore della chiesa bolognese di S. Clemente, riporta l’altisonante firma «OPERA DEL ZOPPO DA BOLOG/NIA», anche se nei registri contabili della Domus Hispanica non vi è traccia dei pagamenti ricevuti dal pittore. Si ha invece notizia delle somme elargite, tra il maggio e il giugno del 1459, in favore di «magister Agustinus» (Cavalca, 2013, p. 371; Calogero, in corso di stampa), autore dell’elegante cornice fiorita che ancora integra e anzi potenzia le qualità illusionistiche del dipinto.
Il polittico del Collegio di Spagna segna peraltro una cocente novità nel percorso artistico dello Zoppo: accanto agli innegabili rimandi padovani, sembra ormai che le forme, perfettamente calibrate nello spazio, siano individuate da un lume avvolgente e terso, di chiara impronta pierfrancescana.
Le stesse stesure limpide, alternate ad ombre colorate, si riscontrano in altre opere ascrivibili al soggiorno bolognese, come la smagliante Croce dipinta del Museo dei Cappuccini di Bologna, il Noli me tangere di Edimburgo (National Gallery of Scotland) o i due frammenti di spalliera con la Leggenda del padre frecciato (Los Angeles County Museum; già collezione Galeppini), a ulteriore riprova che lo Zoppo dovette a lungo meditare sui «lucenti paradigmi prospettici» divulgati in Emilia da Piero della Francesca (Volpe, 1993a, p. 150).
La consolidata partnership con la bottega di De Marchi dimostra il perfetto ambientamento di Ruggeri nel contesto artistico felsineo, testimoniato anche dall’intima familiarità instaurata negli stessi anni con Tommaso Garelli, pittore ufficiale del Comune, di cui Zoppo tenne a battesimo una figlia nel 1461 (Filippini - Zucchini, 1968, p. 116). Le parti si invertirono nel 1463, quando Garelli fece a sua volta da padrino a Lucrezia, figlia di Marco (p. 159).
Altrettanto documentati sono i rapporti con Giovanni Gaspare da Sala, illustre giureconsulto e dottore dello Studium bolognese, che nel luglio 1462 fece recapitare a Ruggeri cinque ducati d’oro, in saldo parziale di una spalliera decorata con motivi vegetali e teriomorfi (Buitoni, 2011, p. 84).
Non è da escludere che fosse proprio questa incombenza a impedire allo Zoppo di accettare l’invito rivoltogli da Barbara di Brandeburgo, che lo aveva convocato a Mantova per decorare una coppia di cassoni: l’artista rispose con una lettera di scuse (Armstrong, 1976, pp. 321 s.), datata 16 settembre 1462, poiché già impegnato con una sua concittadina bolognese, che lo avrebbe pagato «doxento ducati» per un paio di «chofani [...] molto magnifichi». Ruggeri promise comunque di soddisfare la richiesta della marchesa, «non tanto per el guadagno quanto per l’onore», ossia per dimostrare di essere in grado di «far chose che stariano apreso a le sue non desprexiando lui», riferendosi così al suo grande amico e rivale Andrea Mantegna.
Che Zoppo fosse ben inserito negli esclusivi circoli delle corti padane trova conferma in un’altra lettera, stavolta indirizzata dall’antiquarius Felice Feliciano all’«amicorum principi ac lucubrato pictori Marco Claudo de Venetiis», in cui l’artista viene paragonato ai grandi maestri dell’antichità per la sua «sutilità de inzigno» (Fiocco, 1926). L’epistola è corredata da un sonetto dedicato a Balugante, il cane prediletto dello Zoppo, la cui prole pare fosse così pregiata che «a Milano dal Duca mandò parte, / parte a Bologna et al Conte d’Urbino, / Mantua, Ferrara e Pesaro»: una testimonianza assai curiosa, ma certo indicativa delle relazioni di assoluto prestigio coltivate dal pittore emiliano, capace di guadagnarsi anche la stima di diversi esponenti dell’umanesimo settentrionale.
Oltre al veronese Feliciano, si possono citare il letterato toscano Giovanni Testa Cillenio – originario di Pescia, ma documentato in Emilia nei primi anni dell’ottavo decennio – e il triestino Raffaele Zovenzoni, brillante allievo di Guarino da Verona, che fu perfino insignito dell’alloro poetico grazie ai buoni uffici del vescovo di Trento Johannes Hinderbach. In un sonetto tramandato dal codice Isoldiano della Biblioteca universitaria di Bologna (Ricci, 1897), Cillenio celebrò la sua amicizia duratura con molti artisti, tra i quali lo stesso Zoppo, i tre Bellini, Piero della Francesca e un misterioso «Forte», forse identificabile con quello Jacopo Forti o Forte che secondo Carlo Cesare Malvasia (Felsina pittrice, 1678, a cura di E. Cropper - L. Pericolo, 2012, p. 264) «lavorò molto in compagnia» di Ruggeri.
Anche nel poema latino Istrias, composto da Zovenzoni entro il 1474, è contenuto un carme intitolato Marco Claudo Bononiensi pictori (Ziliotto, 1950), in cui l’artista è addirittura accostato a Fidia per la sua abilità nel contraffare la natura. Un analogo riferimento alle qualità illusionistiche della pittura zoppesca ricorre in un passo poco considerato del Trattato di architettura di Filarete (1461-1464 circa, a cura di A.M. Finali - L. Grassi, II, 1972, p. 665), a riprova della fama goduta da Marco presso i contemporanei.
Ruggeri riuscì a imporsi anche nel difficile campo della decorazione libraria: è ormai comunemente accettata l’attribuzione (Fiorio, 1981) del primo dei diciotto disegni a piena pagina (c. 23r), raffiguranti gli usi e i luoghi di Roma antica, che corredano il codice Lat. 992 (ms. α.L.5.15) della Biblioteca Estense di Modena, ovvero l’edizione di lusso – originariamente destinata a Malatesta Novello – dei celebri Quaedam antiquitatum fragmenta di Giovanni Marcanova, la cui redazione venne compiuta a Bologna, entro il primo di ottobre del 1465, sotto la direzione di Feliciano.
Composizioni molto simili si ritrovano in effetti tra i disegni contenuti nell’album Rosebery del British Museum di Londra, eseguiti su lussuosi fogli di pergamena con un segno essenziale ma assai rifinito. Si tratta di una congerie di invenzioni spesso bizzarre e combinate senza un’apparente unità tematica, tra cui spiccano numerose teste coronate da fantastici elmi guerreschi. È difficile stabilire la funzione originaria del libro londinese, ma il fatto che certi motivi tornino quasi identici nella produzione più raffinata dell’artista, come le illustrazioni per gli amici umanisti o le ornatissime spalliere da camera, fa supporre che l’album non fosse altro che un repertorio di temi e idee in bella copia, da riutilizzare all’occorrenza; in altri casi, poteva forse fungere come una sorta di portfolio, da esibire ai committenti più esclusivi e colti, che certo non avranno mancato di mostrare allo Zoppo monete, cammei e medaglie antiche o di suggerirgli certi soggetti rari ed eruditi, come la Morte di Penteo o la Venus victrix.
Né è da escludere che Ruggeri – come nel caso di Jacopo Bellini – avesse a disposizione diverse raccolte del genere: come ha già suggerito Albert J. Elen (1995), è infatti possibile che il foglio Santarelli degli Uffizi (inv. 1123F) e il meno noto disegno del Kupferstichkabinett di Berlino (inv. KdZ 26274) appartenessero a loro volta a un unico taccuino pargamenaceo, in tutto analogo a quello di Londra.
D’altronde, Zoppo doveva essere particolarmente apprezzato proprio per le sue invenzioni capricciose. Nulla di strano, perciò, che certi suoi disegni abbiano tutta l’aria di opere grafiche autonome, probabilmente destinate a un incipiente collezionismo privato. In tal senso, si possono citare tre fogli conservati al British Museum, tutti vicinissimi per stile e datazione all’album Rosebery: la Battaglia tra centauri (inv. 1895.0915.779), la Testa muliebre con elmo fantastico (inv. 1891.0617.25) e la grande pergamena bifronte appartenuta al capitano Norman Colville (inv. 1995.0506.7), sul cui verso è tracciata un’irriverente parodia del S. Giacomo condotto al martirio dipinto da Mantegna sulle pareti della cappella Ovetari a Padova, che avrà certo divertito qualche dotto estimatore della moderna pittura padovana.
Nella prima metà del settimo decennio Zoppo venne coinvolto nella decorazione di altri due codici di assoluto prestigio (Alexander, 1970), commissionati dal patrizio veneziano Marcantonio Morosini, nipote prediletto di Pietro, influente ambasciatore della Serenissima. Si tratta del Cicerone della Biblioteca Apostolica Vaticana (Vat. Lat. 5208), datato 1463, e del Virgilio della Bibliothèque nationale di Parigi (Lat. 11309), certamente concluso entro l’ottobre del 1465 (Barile, 2006). Entrambi i manoscritti furono vergati in eleganti capitali classiche dal calligrafo padovano Bartolomeo Sanvito e costituiscono, anche grazie alle illustrazioni all’antica dello Zoppo, due vertici indiscussi dell’umanesimo veneto.
È plausibile che il rapporto di fiducia instaurato con la famiglia Morosini incoraggiasse Ruggeri a stabilirsi nuovamente in laguna. Fu probabilmente merito di Marcantonio e Pietro se il pittore ottenne infatti l’importante commissione dell’ancona destinata all’altare maggiore della chiesa di S. Giustina a Venezia, di cui gli stessi Morosini erano parrocchiani e benefattori.
Secondo la testimonianza cinquecentesca di Francesco Sansovino (Venezia città nobilissima..., 1581, p. 42), la «palla grande» di S. Giustina era stata eseguita «assai gentilmente» dallo Zoppo da Bologna nel 1468. Il nome e la data potevano forse leggersi su un cartiglio inserito al centro del dipinto, di cui restano solo i quattro scomparti a mezza figura individuati da Tancred Borenius (1921), raffiguranti i santi Agostino (Londra, National Gallery), Pietro (Washington, National Gallery of art), Paolo (Oxford, Ashmolean Muesum) e Girolamo (Baltimora, Walters Art Museum). È indubbio che questi frammenti dovessero costituire il registro superiore di un polittico a più livelli, sull’esempio della pala di S. Luca di Mantegna o dei più tipici prodotti della bottega vivariniana. Sembra però da escludere, a dispetto di quanto suggerito da Lilian Armstrong (1976), che al centro di tale registro figurasse il Cristo nel sepolcro già Wieweg (ora in deposito al Metropolitan Museum di New York), stilisticamente più prossimo all’Ecce Homo già Lodi (Renaissance, California) e ad altre tavole appartenenti alla fase estrema del pittore.
Vicino al polittico di S. Giustina dovrebbero altresì collocarsi la Madonna col Bambino della National Gallery of art di Washington, sul cui parapetto campeggiano la firma del pittore e lo stemma della famiglia Corner, e il Cristo in pietà tra i ss. Battista e Girolamo della National Gallery di Londra. Si tratta di un momento di aperto confronto con l’arte belliniana, caratterizzato da una qualità fulgida del colore e da una ricerca di raffinate trasparenze pittoriche.
Risale invece al 1471 l’esecuzione della pala per l’altar maggiore della chiesa di S. Giovanni Battista a Pesaro, la cui commissione dovrebbe ragionevolmente spettare ad Alessandro Sforza (Wilson, 1977, p. 404), signore della città marchigiana e munifico finanziatore della locale chiesa dei francescani osservanti. La data e la firma – «MARCO ZOPPO DA BOLO/GNIA PINSIT MCCCCLXXI / Ĩ VINEXIA» – si leggono sul cartiglio iscritto nella grande tavola centrale con la Madonna e quattro santi, oggi a Berlino (Staatliche Museen, Gemäldegalerie). Della monumentale ancona, già smembrata alla fine del Settecento, si conservano inoltre la cimasa con il Cristo morto tra due angeli (Pesaro, Musei civici) e uno scomparto della predella con le Stimmate di s. Francesco (Baltimora, Walters art Museum), nel cui sfondo è raffigurato un edificio identificabile con l’antica chiesa sforzesca, demolita nei primi decenni del Cinquecento per ordine dei Della Rovere (Filippini, 1939, p. 354).
Una parte della critica (Armstrong, 1976; Humfrey, 1993) ha tentato di riferire allo stesso complesso una serie di tavole, che appaiono però incongruenti per stile e formato (Calogero, 2013): si tratta del S. Girolamo penitente della Pinacoteca nazionale di Bologna, firmato «MARCO ZOPPO OPV(S)» e assai più vicino al polittico del Collegio di Spagna; del S. Giovanni Battista nel deserto della Fondazione Giorgio Cini, di poco più tardo rispetto alla pala di Pesaro; e soprattutto della celebre Testa del Battista dei Musei civici di Pesaro, sublime capolavoro che un’illustre tradizione storiografica inaugurata da Roberto Longhi (1934; Id., 1927) ha più giustamente ricondotto alla mano di Giovanni Bellini.
Non si può in effetti dire che l’impalpabile tessitura argentea del piccolo tondo, che trama a fior di pelle il volto rorido del Precursore, trovi davvero riscontro negli impenetrabili sbalzi della pala zoppesca. Sembra anzi che l’insostenibile confronto con l’umanissima poetica belliniana, pur tentato per un certo tratto, spingesse ormai Ruggeri a trincerarsi dietro vecchie formule di matrice padovana, ben evidenti nelle esasperazioni plastiche ed espressive esibite nell’ancona per gli zoccolanti di Pesaro.
Ciò non toglie l’assoluto ardimento compositivo dello Zoppo, che ebbe l’estro di ambientare la scena principale entro un’aspra vallata selenica, anticipando di fatto una soluzione gravida di conseguenze per l’arte veneziana ed esperita di lì a poco, con ben altra naturalezza pittorica, dallo stesso Bellini.
Allo stesso tempo della pala di Pesaro andrebbe situato il Ritratto virile della National Gallery of Art di Washington, giustamente attribuito allo Zoppo da Longhi (1934), ma talvolta accostato al nome di Cosmè Tura, se non addirittura declassato come opera di anonimo.
L’attività veneziana dello Zoppo dovette dunque proseguire nel corso degli anni Settanta: il 26 agosto 1473 Ruggeri presenziava al testamento di Francesco Trevisan, dichiarando di abitare in pianta stabile nella parrocchia di S. Giovanni Crisostomo (Armstrong, 1976, p. 333).
Ciò non doveva impedirgli di tornare talvolta a Bologna e di tenersi aggiornato sugli ultimi sviluppi dell’arte felsinea, come dimostra il foglio 103F degli Uffizi con Cinque figure maschili, liberamente tratte dalla predella del polittico Griffoni, dipinta intorno al 1472-73 dal giovane Ercole de’ Roberti.
Il disegno fiorentino, restituito allo Zoppo da Carlo Volpe (Benati, 1984), mostra in effetti lo stesso tratteggio ispessito e rapido che contraddistingue i numerosi schizzi del cosiddetto Taccuino delle Madonne, costituito da una serie di fogli sparsi tra varie collezioni museali e ricollegati a suo tempo da Giuseppe Fiocco (1933; Id., 1954).
Un’ulteriore testimonianza della tarda maniera grafica dello Zoppo è fornita da due elaboratissimi studi su carta preparata, conservati al Metropolitan Museum di New York (inv. 1998.15) e al British Museum di Londra (inv. 1875.0710.1039).
L’ultima produzione pittorica di Ruggeri, a dire il vero abbastanza involuta, si riduce a uno sparuto gruppo di piccole tavole, chiaramente destinate alla devozione privata: l’Ecce Homo già Lodi, il S. Giovanni Battista nel deserto della Fondazione Cini, il S. Girolamo penitente del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid e il S. Sebastiano della Courtauld Gallery di Londra.
La morte del pittore può fissarsi con certezza al 1478, poiché da un documento del febbraio 1489 – in cui vengono citate le due figlie Lucrezia e Minerva residenti a Bologna – risulta che «Marcus Rugerius pictor Bononiensis Venetiis» fosse ormai scomparso da undici anni (Supino, 1925).
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