RUFOLO
– Famiglia di Ravello, scarsamente documentata fino alla prima età angioina durante la quale svolse un ruolo socioeconomico e politico di grande rilievo nel Regno di Sicilia, anche se qualche Rufolo ricoprì cariche in età sveva (Abulafia, 1997, trad. it. 2006, pp. 73 s.).
Non sono provate le affermazioni di Marino Freccia (De subfeudis..., 1579, pp. 78 s.) secondo il quale i R. furono feudatari regnante Ruggero II; non appartennero neppure alla «nobiltà dalla memoria lunga» individuata da Mario Del Treppo (Del Treppo - Leone, 1977).
Il decollo della famiglia è stato collegato plausibilmente, benché sulla base di fonti indirette, alla disponibilità cronologicamente risalente di risorse navali. Nelle Chartulae episcoporum et archiepiscoporum Ecclesiae Amalphitanae (Pansa, 1724, I), infatti, all’anno 1082 si annota «Amalphitani a Ravellensibus cum Rufula classe devicti» (p. 287), con riscontro nel Summarium Praesulum Ecclesiae Amalfitanae et aliorum eiusdem civium memorabilium di Antonio d’Afflitto (Napoli, Biblioteca Brancacciana, ms. III. C. 12, cc. 102 ss.), che riporta «civilia bella orta inter Amalphitanos et Ravellenses qui extiterunt victores auxilio Rufulorum» (D’Amato, in L’ambiente culturale..., 2000, p. 118). Tra i primi isolati segnali di preminenza l’episcopato (1150-1209) – testimonianza ovviamente di prestigio non solo locale – di Giovanni, figlio di Leone, definito dominus, figlio a sua volta del dominus Sergio. Segnale della promozione sociale compiuta nella seconda metà del XIII secolo è la qualificazione di nobiles et discreti viri, nonché domini, attribuita ai figli di Nicola nell’atto in cui il vescovo Tolomeo definisce gli obblighi della Chiesa di Ravello in relazione al lascito del loro padre (23 maggio 1287). Si trattava di beni fondiari di grande valore: castagneti, oliveti, nocelleti ecc., siti nel territorio di Ravello.
È dalla metà del XII secolo che le fonti forniscono qualche informazione sull’impegno dei Rufolo nell’incremento delle loro proprietà immobiliari urbane e agrarie (dislocate, queste, anche in territori limitrofi a Ravello). Giacomo Rufolo, a cominciare dal 1271 e nel corso di un ventennio, realizzò un ampliamento dei possedimenti fondiari acquisendo gradualmente tutti i numerosi terreni dei Tagliaferro nella località La Costa (Widemann, Les familles..., in L’ambiente culturale..., 2000, docc. 13, 3, 5).
Ma i Rufolo acquistarono terre anche là dove gestirono uffici: un esempio ne è la masseria/ torre/frantoio nel territorio di Giovinazzo in Puglia (Licinio, 1998) e investirono in strutture di tipo industriale quali il mulino che Ursone, secondogenito di Nicola, fece costruire a Pino senza uniformarsi alla prassi imprenditoriale locale di associarsi ad altri. Questa strategia patrimoniale accosta i Rufolo ai Bove, ai Pironti, ai Sasso e ad altre famiglie di Ravello che non fondarono l’accumulazione della ricchezza e l’ascesa sociale esclusivamente sul commercio.
Il percorso dei vari membri del lignaggio di Nicola, che si trasferirono da un distretto all’altro prevalentemente alternandosi nelle cariche di secreti, portolani e procuratori, in una sorta di staffetta burocratica, rappresenta quasi emblematicamente un esempio di gestione clanica del potere all’interno delle strutture amministrative del Regno di Sicilia.
Le annotazioni curriculari che seguono, pur non avendo pretesa di completezza, sono tuttavia indicative del sistema di occupazione familiare degli uffici in questione.
Di Nicola s’ignora la data di nascita: l’ultimo documento che lo ricorda vivo è del 1284. Sarebbe morto in età molto avanzata il 23 maggio 1286. Aderì prontamente agli Angioini, seguendo l’esempio di un’altra famiglia ravellese, i Della Marra, e aprendo l’ascesa dei Rufolo nell’alta burocrazia. Già in età sveva era stato magister camerarius in Terra di Lavoro e Principato (1250), magister procurator in Apulia (1253-54), secreto in Calabria e in Sicilia Citra (1257-58). Ebbe tre figli attivi nella vita pubblica.
Matteo (morto nel 1291) percorse un’intensa carriera: familiaris regio, fu secreto in Sicilia citra flumen Salsum (1260-61); di tutta la Sicilia nel 1262, nonché per un breve periodo, succedendo a Risone della Marra nominato da Manfredi e rimasto in carica anche dopo la fine del dominio svevo, secreto in Apulia e magister portulanus e procurator nel 1265-66 e nel 1268-69; le stesse funzioni esercitò in Sicilia nel 1270-72 (era in Sicilia nel 1271 quando sospese per un mese l’attività) e con Nicola Acconciaioco nel 1275-76, nonché nel 1278-79 con Giovanni da Lentino.
Giacomo (1225/1230 circa-1298): vicesecreto in Terra d’Otranto nel 1269, come testimonia un apodixarius del giugno dell’anno successivo. Nel maggio del 1271 fu nominato tra i maestri della Zecca di Brindisi con Stefano Castaldo e Orso Bove, ma fu rimosso non essendo abile «ad exercendum officium» «propter infirmitatem» (I Registri della Cancelleria angioina, RCA, X, 1957, pp. 24, 192; L, p. 103). Secreto ad cabellam, procurator e magister portulanus di tutta la Sicilia, nonché magister salis nel 1273-74, e nuovamente nel 1276-77; fu secreto di Apulia ad credentiam nel 1277-78, maestro portolano e procuratore di Sicilia ad credentiam con Giacomo Pironti nel 1279-80.
Ursone nel 1263 fu vicesecreto a Messina, nel 1265 secreto in Abruzzo, nel 1269-70 secreto in Principato, Terra di Lavoro e Abruzzo, nel 1273-74 portolano, magister procurator e magister salis in Apulia.
Il figlio di Matteo, Lorenzo, nel 1275-76 fu maestro portolano e procuratore di Sicilia con Bartolomeo Acconciaioco e di nuovo nel 1278; nel 1282-83 secreto, maestro portolano e maestro del sale in Apulia. Di altri esponenti della famiglia anch’essi attivi nel funzionariato pubblico rimangono sporadiche tracce: Bernardo, fu vicesecreto di Basilicata e Capitanata nel 1269 e contemporaneamente Angelo collettore del focatico in Terra di Lavoro, Principato e Comitato di Molise.
Alla solidità economica corrispose dunque l’affermazione nell’amministrazione pubblica: fu infatti grazie alle loro risorse finanziarie che i Rufolo poterono acquisire la gestione di uffici tra i più importanti del Regno quali le secrezie, in particolare quelle tra le più lucrose (Puglia e Sicilia); le secrezie, bandite ad credentiam o ad cabellam, a valutazioni crescenti (ad esempio, quella di Principato, Terra di Lavoro e Abruzzo passò da circa 1750 once nel 1270-71 a 9616 once nel 1280; quella di Sicilia fu acquistata da Lorenzo nel 1278 per 19.857 once, alle quali si aggiungevano dei quantitativi di cereali e vino), potevano essere subappaltate e fornire quindi un utile netto. Come dimostrano le rendicontazioni di fine mandato, le funzioni connesse alle secrezie erano complesse, varie e di significativo impatto economico: gestione finanziaria della manutenzione di strutture demaniali, forniture di vario genere per la Corte, gestione dei beni confiscati e della materia annonaria, spese di rappresentanza diplomatica, inchieste sul mancato pagamento delle decime ecclesiastiche, commercializzazione dei prodotti delle masserie demaniali (soprattutto frumento, orzo, olio, vino, bestiame) comprensiva del trasporto anche mediante noleggio di navi di terzi nell’eventuale indisponibilità di navi regie, nonché acquisto di merci per conto della Corona, con operazioni di circuito mediterraneo.
Ad esempio, nel 1268, Matteo Rufolo e suo figlio Lorenzo inviarono da Brindisi ad Alessandria d’Egitto la nave S. Cecilia, carica di vino e formaggio con l’incarico di riportare in Italia indaco, pepe, zucchero. Nel 1280, Lorenzo, come in altre circostanze in collaborazione con il padre, si occupò della vendita e spedizione di vettovaglie a Valona.
Le operazioni potevano essere svolte anche a titolo privato con profitto dei funzionari, se abili uomini d’affari. Nel settore commerciale si distinsero Ursone, Lorenzo, attivo in Sicilia, il quale, in società con Nicola Acconciaioco, commerciò con Marsiglia, Venezia, Béjaï (Bugia in Algeria), «ad terras Barbarie», Matteo, che nel 1279-80 lavorava a stretto contatto con la Corte per rifornire il vicario regio nel regno di Gerusalemme, nel 1280-82 per esportare cereali a Valona in Albania. Non mancarono neppure, già prima della crisi del Vespro, seri problemi giudiziari, con denunce e procedimenti contro Ursone e Giacomo, accusati di essere «tepidi et remissi» (RCA, VI, 1954, pp. 185 s.) nel rifornire l’esercito impegnato a Tunisi, e poi scagionati; contro Matteo accusato nel 1271 dai cittadini palermitani per mancato rispetto delle loro esenzioni, ancora contro Ursone sottoposto a inquisitio nel 1278 per negligenza nella gestione dei vigneti demaniali e così via.
L’influenza politica dei Rufolo è collegata anche ai frequenti e consistenti prestiti a sostegno delle esigenze finanziarie della Curia regia; una pratica che coinvolse tutti i membri della famiglia, nonché altri ravellesi e amalfitani, e che la documentazione lascia cogliere sia pure frammentariamente. Nel 1275, ad esempio, Matteo Rufolo compare in una lista di cittadini di Ravello che prestano 1000 once d’oro al re ricevendo in pegno «coronam auream eiusdem Regis ornatam variis lapidibus pretiosis» (RCA, XIII, 1959, p. 59). Ma le motivazioni nel periodo 1268-84 sono le più varie e il flusso di denaro nelle due direzioni (prestito e restituzione) è continuo.
In quegli stessi anni, contribuirono al consolidamento della posizione dei Rufolo un’oculata strategia di scambi matrimoniali, e l’alleanza con altre famiglie di Ravello e di Scala (tra queste d’Afflitto, Coppola, Pappice, Frezza, Acconciaioco), ma soprattutto con i Della Marra di Ravello: Nicola (I) Rufolo, sposò Sigilgaita, sorella di Angelo I Della Marra; il figlio della coppia, Matteo, sposò la zia Anna, sorella di Giozzolino Della Marra; la loro figlia, Ciura, sposò il cugino, Ruggero. Ma questi stessi legami parentali e la solidarietà che ne derivò produssero poi effetti devastanti per le due famiglie, travolgendole insieme nella crisi del Vespro.
Va infatti sottolineato che gli uffici occupati dai Rufolo, pur essendo di rilevante importanza, erano comunque di ambito regionale (secrezie, vicesecrezie, portolanati ecc.) e quindi sottoposti al controllo da parte dei magistri rationum, tra i quali appunto i congiunti Della Marra, che già da tre generazioni partecipavano al più alto organo amministrativo-finanziario del Regno. La carica aveva ricevuto il suo assetto proprio nella persona di colui che si può considerare uno dei fondatori della preminenza della famiglia, cioè Angelo I, figlio di Giovanni di Giozzo (mercante di Barletta), preposto con altri due funzionari (donde il nome collegiale di magistri rationum) da Federico II al controllo delle finanze pubbliche. Il figlio di Angelo, Giozzolino, che come i Rufolo aderì agli Angioini immediatamente dopo la vittoria di questi, svolse tale funzione dal 1258, mantenendola poi per un ventennio.
Tra i più evidenti segni del prestigio sociale dei Rufolo vanno segnalati la trasformazione dell’insediamento residenziale e il mecenatismo verso la Chiesa locale.
La residenza dei Rufolo, connotata originariamente da uno spiccato carattere fortificato, divenne una splendida dimora nella cui architettura confluirono elementi culturali provenienti dalle regioni con le quali la famiglia mantenne rapporti commerciali, dall’Oriente alla Spagna (ne è un esempio il cortile moresco). Testimonianza degli intensi rapporti con l’Acaia è anche l’entità del deposito di monete provenienti da quell’area rinvenuto nella villa.
Nicola e suo figlio Matteo donarono alla cattedrale rispettivamente un pulpito e il ciborio per l’altare maggiore. Quest’ultimo, firmato dal magister Matheus de Narnia e datato al 1279, fu demolito nel 1773; il pulpito, che subì manomissioni settecentesche, collocato nella navata maggiore, è firmato da Nicola di Bartolomeo da Foggia e datato al 1272. Due lastre marmoree all’esterno della scala contengono un’epigrafe nella quale si dichiara, oltre ovviamente alla motivazione devozionale, la volontà di lasciare memoria dell’intero gruppo familiare descritto nelle sue componenti, nonché l’amore del donatore alla sposa Sigilgaita e il desiderio di onorare la patria (queste due ultime motivazioni sono state, con altre, proposte dagli studiosi per identificare il busto femminile, ora rimosso, che figurava sopra la piccola porta trilobata del pulpito, e la cui collocazione originaria non è sicura).
La lezione dell’epigrafe data da Widemann (Les familles..., in L’ambiente..., doc. 3, p. 140) suona così: «+Virginis istud opus / Rufulus Nicolaus amore / vir Sicligaytae patrie(que) dicavit honore / est Matthaeus ab hiis Urso / Iacobus quoque natus / Maurus et a primo Laurencius est generatus / hoc sibi sit gratum pia / virgo precare(que) natum / ut post ista bona det / eis celestia dona/ lapsis millenis bis / centum bisq(ue) tricenis / Chri(ist)i bissenis annis / ab origine plenis».
La volontà di Nicola di lasciare traccia duratura della famiglia nello spazio sacro della cattedrale è leggibile anche nella creazione per la remissione dei peccati propri e della famiglia di un altare in una piccola cappella nello spazio «sub pulpito magno», dotata dagli eredi (con atto del 20 ottobre 1283) di beni fondiari e di suppellettili per il culto. Si trattava, secondo François Widemann, della cappella funeraria della famiglia, fondata in occasione di un accordo con il vescovo Tolomeo dopo una lite per il possesso di cinque botteghe, cedute da Matteo Rufolo al vescovo a copertura di un prestito.
Diversa strategia fu invece seguita da Giacomo Rufolo, che cedette alla cattedrale un grosso blocco di proprietà nel territorio di Ravello – con l’aggiunta della rinunzia alla restituzione di 25 once d’oro – in cambio dei due terzi di una apotheca a Napoli nel quartiere amalfitano, detto appunto della Scalesia, specializzato nel commercio dei panni.
Il 22 giugno 1283, senza che si fosse manifestato alcun segno premonitore (tanto è vero che gli arrestati risultano regolarmente operativi fino alla vigilia dell’evento), il principe di Salerno, vicario del Regno, da Nicotera inviò a tutte le città del Regno copia del proclama Ad extirpanda vitia annunziando l’arresto di Angelo Della Marra e dei suoi fratelli Ruggero e Galgano, nonché di Matteo Rufolo e del figlio Lorenzo insieme con un gruppo di funzionari; un atto che è nello stesso tempo di accusa e di giustificazione dell’azione punitiva. Tra le gravissime colpe contestate: peculato ai danni delle popolazioni, concussione, tradimento della Corona; fu accollata agli arrestati anche la responsabilità della rivolta popolare. Matteo fu accusato inoltre, secondo Ferrante Della Marra, di uno scambio epistolare con la regina Costanza e di posizioni a favore della rivolta siciliana.
La storiografia ha discusso quali siano state effettivamente le ragioni che indussero Carlo a tali duri interventi: impossessarsi delle ingenti ricchezze degli accusati per far fronte alla guerra contro gli Aragonesi? Ristabilire correttezza di gestione fiscale così da dare una risposta alla protesta delle popolazioni contro la ‘mala signoria’ angioina? Esaltare la funzione della monarchia in quanto garante della giustizia e del benessere dei sudditi? Quel che è certo è che le confische, che fecero immediatamente seguito agli arresti, di beni mobili (riserve auree, oggetti preziosi, cavalli, navigli) e immobili dislocati a Ravello e nel suo territorio, a Napoli, in Puglia (a Giovinazzo e a Barletta) e forse anche in Sicilia, dove i Rufolo avevano svolto per anni la loro attività di funzionari, annientarono la posizione della famiglia, ma fornirono al sovrano cospicue risorse della cui necessità lo stesso principe di Salerno non fece mistero.
Proprio in questa circostanza infatti emergono le ingenti disponibilità finanziarie dei Rufolo. Per la scarcerazione di Matteo furono versate 2400 once di cauzione e secondo Ferrante Della Marra (1641, p. 348) gli sarebbero state confiscate 16.000 once d’oro, delle quali 10.000 in deposito all’estero, 6000 presso Niccolò Frezza (e, inoltre, 2000 erano presso Angelo Scala, 4000 presso Giovanni Cafaro ed Enrico Frezza, 2000 presso i gerosolimitani), nonché una nave carica di grano e tutto il danaro in possesso della moglie Anna. Per far fronte alla situazione fu obbligato a vendere botteghe a Napoli nel quartiere di Portanova e gli immobili a Casolla e a Capodichino.
La figlia di Matteo, Ciura, che aveva sposato Ruggero Della Marra, si adoperò attivamente presso il re a favore dei parenti, ma ottenne soltanto dei vantaggi per Rodia, moglie di Galgano e per i figli di questo (22 dicembre 1283).
Dalla crisi dei Vespri solo alcuni esponenti dei Rufolo riuscirono a riemergere: un ramo s’inserì nel contesto della nobiltà della capitale, risiedé nel distretto di Dominova (attuale largo di S. Marcellino) e fu aggregato al seggio di Nido.
La fama della ricchezza e dello spirito d’intraprendenza mercantile dei Rufolo sopravvisse loro nell’immaginario collettivo, ispirando a Boccaccio l’invenzione della figura di Landolfo Rufolo nella seconda novella della IV Giornata del Decamerone.
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