RUFINO da Piacenza
RUFINO da Piacenza. – Non sono noti i nomi del padre e della madre; secondo la testimonianza di Salimbene de Adam (Cronica, a cura di O. Holder-Egger, 1905-1913, p. 467), appartenne alla famiglia Gurgone. Nacque in data imprecisata nei primissimi decenni del Duecento.
La prima menzione di Rufino è contenuta in una lettera di Innocenzo IV a lui diretta come ministro provinciale di Bologna il 26 marzo 1249, da Lione (Bullarium franciscarum..., a cura di J.H. Sbaralea, 1759, I, p. 529, n. 300).
Secondo il racconto di Salimbene, all’epoca egli si trovava presso la Curia e rivolse – ottenendo quanto richiesto – una supplica al papa perché i chierici, che avessero deciso di entrare nelle scuole dei frati Minori della provincia da lui diretta per ascoltare gli insegnamenti teologici, potessero godere nella percezione dei proventi dei loro benefici delle stesse prerogative spettanti agli studenti dell’Università di Parigi. Nonostante queste facilitazioni, alcuni frati, tra i quali lo stesso cronista, erano stati inviati, con il permesso di Rufino, nello Studium di Genova, dal quale passarono anch’essi a Lione. Ottenuto quanto richiesto, Rufino domandò a Salimbene, che aveva da tempo abbandonato sia la provincia bolognese, sia Genova, per recarsi a Lione, di ‘scrivere l’obbedienza’, ciò che lo avrebbe obbligato a dimorare nei conventi della sgradita provincia bolognese (ma il frate cronista, rientrando nel 1249-50 da Lione a Parma proprio insieme con Rufino, incontrò il ministro generale fra Giovanni da Parma e ottenne di essere destinato a Ferrara).
A Bologna l’insediamento dei francescani, guidato da Rufino, era osteggiato da persone «qui nomen Domini in vacuum recipere non formidant» (Bullarium franciscarum..., cit., p. 543, n. 326), e per impedire tali vessazioni Innocenzo IV il 5 maggio 1250 scrisse al vescovo di Bologna perché garantisse loro protezione. I rapporti con il papa dunque continuarono, incrementati dalla piena disponibilità di Rufino a seguire gli orientamenti politici di Innocenzo IV; egli fu pertanto designato, avanti il 30 maggio 1252 (quando una lettera papale al vescovo di Modena lo menziona come tale), come penitenziere e cappellano pontificio. È una svolta nella vita di Rufino, che passa a tutti gli effetti da una prospettiva di studi e di governo dell’Ordine a una carriera politico-amministrativa a profitto della Chiesa romana.
Nella circostanza, il frate aveva ricevuto dal papa l’ordine di ingiungere al vescovo di autorizzare lui stesso a pagare i danni di guerra che i modenesi fedeli alla Chiesa avevano subito negli anni degli scontri con le truppe di Federico II. Per adempiere il comando Rufino aveva raccolto la vigesima, cioè il 5%, sui capitali immobiliari ecclesiastici e aveva distribuito i denari ai cittadini fuorusciti al tempo dell’imperatore, ma si trattava ora (a seguito delle lamentele dei fuorusciti) di esigere un’altra colletta del 5% (e in caso di ulteriore insufficienza, un’ulteriore vigesima triennale nella città di Treviso e nel patriarcato di Grado, e una vigesima annuale in Romagna). Rufino dal canto suo doveva fare un resoconto al camerario pontificio (con i nomi dei raccoglitori, l’importo riscosso nelle singole imposizioni, la lista dei beneficiari).
Rufino era ormai pronto per incarichi di maggiore responsabilità a vantaggio del Papato. Per conto di Innocenzo IV affrontò infatti un ulteriore impegno in campo espressamente politico quando – ascoltato anche il vescovo di Mantova Martino Casaloldo – vagliò le eventuali inibizioni a proposito del matrimonio tra il marchese Azzo d’Este e Mabilia Pallavicino, per il quale si temeva che ci fossero quattro o cinque gradi di affinità. Rufino ordinò ai due sposi di permanere per sempre nello stato matrimoniale che essi avevano contratto (anche se l’approvazione della decisione si ebbe solo con Alessandro IV il 7 febbraio 1255). Ma soprattutto, dovette poi affrontare la situazione politica creatasi in Sicilia alla morte di Corrado IV.
Il pontefice rischiava di perdere il controllo sull’isola. Il testamento del sovrano tedesco prevedeva infatti che il giovane erede, Corradino, fosse posto sotto la tutela della Chiesa romana e nel contempo affidava a Bertoldo di Hohenburg il governo del regno, ma a questa soluzione si oppose Manfredi, figlio di Federico II e di Bianca Lancia. Dopo vari contrasti che opposero il Papato ai sostenitori dello Svevo, i nobili Riccardo Filangeri e Galvano Lancia riuscirono a ottenere una mediazione tra Innocenzo IV e Manfredi; ma il papa morì, e dopo l’elezione di Alessandro IV la Curia fu costretta ad attribuire – avanti il 25 gennaio 1255 – al cardinale Ottaviano degli Ubaldini, il prelato più aperto verso il mondo filoghibellino, l’incarico di legato della S. Sede per la Sicilia e la Calabria con il mandato di recuperare l’alta sovranità della Chiesa sul regno meridionale, e Rufino fu eletto come suo delegato per la Sicilia.
L’implicito mandato politico era di appoggiarsi sull’unico partner possibile, ostile all’establishment svevo: la classe dirigente dei centri cittadini dell’isola, i quali manifestavano il desiderio di acquisire maggiore autonomia amministrativa, avendo come parte avversa il partito imperiale di Manfredi e di Pietro Ruffo, nonché la tradizionale nobiltà, contraria a perdere il controllo delle amministrazioni urbane.
Tra il 25 e il 29 gennaio 1255 Alessandro IV approvò la nomina di Rufino, descritto come «vir magni consilii» (Bullarium franciscarum..., cit., II, 1761, p. 12, n. 14), a vicario del legato per i territori di Sicilia e Calabria, concedendogli anche la facoltà di subdelegare il suo potere, qualora fosse stato occupato in altri negozi, e un plafond di spesa massimo di 1500 once d’oro, derivabili dalle proprietà del demanio della Chiesa romana, per finanziare i fedeli della Chiesa.
Giunto in Sicilia, Rufino raggiunse subito Palermo, che si era ribellata contro Pietro Ruffo e seppe trascinare nella lotta anche Patti, Castrogiovanni, Aidone, Caltagirone e Piazza. Inoltre, il 30 marzo 1255 con tre provvedimenti, datati da Palermo, il vicario dispose che ai francescani fossero restituiti i possessi a loro sottratti per ordine di Federico II, che fosse posta la prima pietra per edificare una basilica dedicata a san Francesco, accanto alla quale sarebbe sorto un cimitero, e fossero inoltre concesse delle indulgenze a quanti avessero sovvenzionato la costruzione. Pochi mesi più tardi (entro il 21 maggio 1255) Rufino ottenne dal papa l’esenzione dei frati minori dalla giurisdizione dei vescovi, in modo da rendere pienamente autonomo il loro agire a vantaggio delle comunità cittadine schieratesi con la Chiesa.
Tali azioni dovevano essere economicamente molto pesanti e pertanto il 20 luglio 1255 Alessandro IV, in accordo con Ottaviano Ubaldini, dispose che Rufino potesse mutuare una forte somma di denaro impegnando i beni del demanio ecclesiastico, gli affitti in scadenza e tutti gli altri diritti della Curia romana in Sicilia.
Uno dei maggiori destinatari di questi fondi fu Ruggero Fimetta di Lentini, già bandito dall’isola al tempo di Federico II e rientrato nei giorni successivi alla cacciata di Pietro Ruffo da Messina. Il papa dispose che gli fossero concessi benefici, tratti dal demanio, con una rendita annua di 200 once d’oro, da prelevarsi dai feudi di Modica, Vizzini, Scicli e Palazzolo, castelli della diocesi di Siracusa, che Alessandro IV gli concedeva in feudo con l’esplicita dichiarazione che il rapporto sarebbe valso anche per i suoi successori, se fossero rimasti fedeli alla Chiesa di Roma. Sei giorni più tardi il papa impose a Rufino, con una nuova lettera, di infeudare a Nicola di Sanducia, cognato del Fimetta, il casale di Scordia Inferiore nell’entroterra di Lentini, che assicurava un gettito annuo di 15 once d’oro. In tal modo una gran parte della produttiva Val di Noto era passata nelle mani del pontefice e di Rufino.
L’offensiva proseguì il mese successivo, con l’invio (28 agosto 1255, da Anagni) di ben cinque lettere. La prima concerneva una consacrazione episcopale: il domenicano Bartolomeo da Lentini era designato come vescovo di Patti (cui gli arcidiaconi di Messina e di Palermo avrebbero dovuto assicurare i redditi di quella diocesi). La seconda appoggiava l’arcidiacono Pietro de Taurino di Cefalù (ove la comunità urbana aveva occupato il castello di proprietà del vescovo) e gli riconfermava i redditi beneficiali. Importante appare anche la disposizione (pervenuta, con la conferma dell’Ubaldini, in una bolla di Niccolò IV, del 1290), con cui il vicario del legato assegnava al monastero di Casamari la roccaforte di Prizzi, tra Corleone e Castronovo (allora disabitata) e la chiesa vicina di Sant’Angelo, assicurando in questo modo una forte presenza dei cistercensi sulla strada che collegava Palermo con Agrigento. Questa intensa attività iniziale (dopo il novembre 1255 non vi sono più menzioni del vicario) assicurò temporaneamente al papa il controllo dei maggiori centri siculi, ma tutto sfumò nell’aprile del 1256, quando Enrico Abate di Trapani, capitano generale dell’esercito imperiale, imprigionò Rufino a Palermo, dopo aver conquistato la città. Di tutto il lavoro svolto rimaneva solo l’iniziata fabbrica della basilica di San Francesco a Palermo e il potenziamento dell’Ordine francescano sull’isola.
Liberato (non si sa quando) dalla prigionia, Rufino fu chiamato a svolgere il compito di penitenziere a Roma e pertanto seguì la politica papale anche durante il pontificato di Urbano IV, che gli affidò il 4 giugno 1264 il delicato compito di convincere l’esercito senese a interrompere l’assedio di Radicofani, castello appartenente alla Chiesa romana. Era una missione difficile, poiché il gruppo dirigente senese aveva aderito al partito di Manfredi e mirava a espandere la propria influenza verso i territori della finitima diocesi di Chiusi. Il papa per liberare il castello minacciò anche di privare Siena della dignità episcopale, ma l’azione di Rufino non ebbe alcun effetto.
Sempre come penitenziere, nel marzo del 1265 incaricò il vescovo di Strasburgo, Walter, di assolvere dalla scomunica gli abitanti della città alsaziana. Già negli anni precedenti, tuttavia, l’impegno maggiore di Rufino fu dedicato alla creazione della «Milizia della Beata Maria Vergine», detta anche dei Milites gaudentes, un Ordine religioso per il quale scrisse anche una regola approvata da Urbano IV il 23 dicembre 1261.
Rufino era ancora guardiano del convento di Bologna nel 1270, ma è indicato con la specificazione di quondam in una lettera di Niccolò IV del 15 dicembre 1290. Morì dunque in una data imprecisata, in quell’intervallo di tempo.
Fonti e Bibl.: Bullarium franciscanum romanorum pontificum..., a cura di J.H. Sbaralea, I, Romae 1759, p. 529, n. 300, p. 543, n. 326, p. 612, n. 613; II, 1761, p. 12, nn. 13-14, p. 16, n. 21, p. 57, n. 78, pp. 67 s., nn. 98-99, p. 70, n. 101, p. 73, n. 104, pp. 203 s., n. 310, p. 560, nn. 152-153; Bartolomeo da Neocastro, Historia sicula, in Biblioteca scriptorum qui res in Sicilias gestas sub Aragonum imperio retulere, a cura di R. Gregorio, Panormi 1791, pp. 2-20; N. Jamsilla, De rebus Frederici II imperatoris eiusque filiorum Conradi et Manfredi Apuliae et Siciliae regum, in G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, II, Napoli 1865, p. 194; Les registres d’Urbain IV (1261-1264), a cura di J. Guiraud, Paris 1866, nn. 846-847, 1036-1037; Les registres de Nicolas IV, a cura di E. Langlois, Paris 1886, n. 4246; Les Registres d’Alexandre IV, a cura di C. Bourel de la Ronciere, Paris 1902, nn. 132, 1000, 1001, 1003; Salimbene de Adam, Cronica, a cura di O. Holder-Egger, in MGH, SS, XXXII, Hannoverae-Lipsiae 1905-1913, pp. 322 s., 333, 367, 467; Id., Cronica, a cura di G. Scalia, Bari 1966, II, p. 678.
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