ruffiano (roffiano)
Compare in If XI 60 onde nel cerchio secondo s'annida / ipocresia, lusinghe e chi affattura, / falsità, ladroneccio e simonia, / ruffian, baratti, e simile lordura, e ancora in XVIII 66, nell'apostrofe che il demonio frustatore rivolge a Venedico Caccianemico: Via, / ruffian! qui non son femmine da conio (v. CONIO).
La variante ‛ roffiana ' ricorre in un elenco di persone dedite a traffici turpi - elenco, si noti, abbastanza affine a quello di If XI 60, dove r. è ancora a inizio di verso -, in Fiore CXXIV 11 Ancor gastigo altressì usurai, / e que' che sopravendono a credenza, / roffïane e forziere e bordellai (cfr. Roman de la Rose 11735-38 " Ou vieilles putains ostelieres, / ou maquerel, ou bordelieres, / ou repris de quelconques vice / don l'en deie faire joustice ").
La forma ‛ roffiana ' va riportata a una diffusa tendenza del toscano in generale (cfr. Rohlfs, Grammatica § 131) ad aprire u in o in sillaba iniziale (cfr. notrico, romore). È interessante la corrispondenza con roffia, " lordura ", di Pd XXVIII 82 (v.).
Ruffiani e seduttori nell'" Inferno ". - Sono puniti nella prima bolgia dell'8º cerchio, soggetti alla stessa pena (correre in giro sotto la fustigazione dei demoni) e distinti solo dalla diversa direzione del movimento: i ruffiani vanno da sinistra a destra, i seduttori in senso opposto. L'associazione delle due colpe è giustificata dal fatto che in ambedue la malizia operante la violazione fraudolenta del vincolo naturale d'amore ha un unico oggetto, la seduzione della donna, realizzata per conto di altri dai ruffiani, e per conto proprio dai seduttori. Ovviamente la nozione di ruffiano non include il mezzano prezzolato, la cui opera non è caratterizzata dalla fraudolenza del raggiro.
Qualche commentatore ritiene che i seduttori siano soggetti a pena maggiore, in quanto riferisce con passi maggiori (If XVIII 27) al movimento della schiera dei ruffiani; ma più numerosi sono quelli che riconoscono una diversa gravità di peccato tra la schiera esterna, dei ruffiani, e quella interna dei seduttori: tra i primi, Guido da Pisa è per la diversa velocità della corsa, e la spiega con la maggiore colpa dei seduttori. Il Castelvetro, invece, riferisce i passi maggiori a quelli minori di D. e Virgilio, ma accoglie la tesi della maggiore colpevolezza dei seduttori, considerando che " essendo quegli altri più a dentro, dovevano ancora essere più puniti " (il che comporta una forse troppo precisa applicazione della norma generale, che più si va verso il centro dell'Inferno, più gravi sono le colpe e le pene). Più specioso confronto offre l'Andreoli, giudicando i ruffiani più infami, i seduttori più rei. È forse utile l'indicazione della viltà, per gli uni e per gli altri; la quale può essere maggiore nei ruffiani (" isti sunt viliores ", Benvenuto) senza che risulti capovolto il rapporto fra schiera esterna e schiera interna.
Quanto alla pena di fustigazione, taluni commentatori antichi vi riconoscono " li loro disii, dalli quali nelle loro operazioni continuamente spronati sono " (Ottimo); altri le " ferze o di lusinghe o di premii " (Landino) con cui i peccatori hanno sollecitato le loro vittime. Merita di essere citata la nota di Pietro: " Allegorice denotat Autor diabolicos motus impellentes tales lenones in hoc ad decurrendum per contratas et civitates ad decipiendum foeminas; et non reperiuntur in mundo nisi in Ytalia, lenocinio, fallacibus promissionibus et adulatione ". La fustigazione era la pena stabilita per i ruffiani da alcuni statuti comunali.
L'affinità delle due colpe e la condizione comune dei dannati sembrerebbero impedire una distinzione che non fosse quella, molto modesta, dell'opposto movimento; ma il poeta, pur includendo nello stesso canto XVIII anche la visita della seconda bolgia, trova modo di realizzare l'incontro con ruffiani e seduttori in due tempi distinti, e con due personaggi-campione, Venedico Caccianemico e Giasone, colti in due differenti manifestazioni; nell'incontro con Venedico è D. che riconosce il dannato e lo induce a dichiarare la propria colpa di ruffiano; con Giasone la prospettiva è diversa: dall'alto del ponte che congiunge i due argini della bolgia, è Virgilio che lo indica a D. e gliene illustra la colpa.
Un dubbio pregiudiziale è stato avanzato, sul criterio di collocazione del dannato chiamato a rappresentare i ruffiani: poiché Venedico, avendo con inganno spinta alla prostituzione la propria sorella Ghisolabella, sembrerebbe essere incorso, dato il vincolo di parentela, nella fraudolenza a danno di chi si fida (If XI 61-63) punita nel nono cerchio. Ma come in occasioni consimili, la forza della realtà poetica è tale da disarmare il problema prima che nasca; e ciò non si dice tanto per rispetto di una teoretica proposizione estetica, quanto per l'ovvio riconoscimento che, tradimento o no (gli elementi definitori del peccato sono, come si sa, innumerevoli e non sempre ponderabili), la colpa di Venedico era così superlativamente significativa e degradante, da offrirsi alla fantasia di D. non solo come felice exemplum di ruffianeria (" L'Autore reca alla sua imaginazione uno infamato d'una grande ruffianeria; ciò fu mess. Vinedico ", Ottimo), ma anche come un'opportuna nota d'introduzione al mondo della bassa dannazione e alla genia dei suoi abitatori, singolari personaggi con un piede nella tragedia e uno nella commedia.
Va ricordato che questa dei ruffiani e dei seduttori, per essere la prima delle dieci bolge, gode di una rappresentazione che si collega direttamente alla descrizione dell'intero cerchio (Luogo è in inferno detto Malebolge / ... In questo luogo, de la schiena scossi / di Gerïon, trovammoci, XVIII 1-22) e che a sua volta riverbera la novità dei suoi aspetti sulla cesura che distingue il cerchio dal complesso dei precedenti, assumendo una funzione introduttiva per l'intero mondo della frode (vidi nova pieta, / novo tormento e novi frustatori, / di che la prima bolgia era repleta, vv. 22-24). Questa funzione pare confermata dal ricorrere di certi motivi narrativi presenti nei primi incontri infernali, come la puntuale ripetizione di If VI (novi tormenti e novi tormentati / mi veggio intorno, vv. 4-5), la nudità dei dannati (III 65 e 100, XVIII 25), le percosse dei demoni (III 111 e XVIII 36), lo stilema di qua, di là (V 43 e XVIII 34), e dal successivo delinearsi in nuce di una tematica e una retorica che variamente si svilupperanno nella seconda parte dell'Inferno che ha inizio dal canto XVIII.
D'altra parte, proprio l'accoppiamento ruffiani-seduttori, fa sì che la diversità tra l'Inferno di sopra e l'Inferno di sotto non diventi una frattura, in quanto conserva rapporti con la violenza del cerchio precedente, e rinsalda altresì i legami tra incontinenza e malizia, riaffermando per le colpe di fraudolenza quelle radici nell'avarizia e nella lussuria che già si erano intraviste per le colpe di violenza.
L'ingresso nel mondo della frode comporta anche per D. pellegrino l'approdo, per via dell'ampia esperienza infernale, a una più matura e libera psicologia. Si può forse segnare proprio nell'incontro con Venedico un grado di siffatta evoluzione; comincia infatti di qua un atteggiamento di distacco (si pensi alle diverse manifestazioni negl'incontri con i violenti) che presto sarà d'irritazione nei confronti dei peccatori. Per la concomitanza degli effetti dell'esperienza con il deciso aggravarsi delle colpe nella direzione della perversione, vediamo svilupparsi nel pellegrino (e nel poeta accade altrettanto) da una parte una sorta di costernazione per i successivi aspetti della degradazione umana attraverso la malizia, e dall'altra una prontezza a reagire sempre con maggior forza di fronte a responsabili che siano suoi contemporanei, noti nella persona o nel fatto scandaloso. Tuttavia, appunto perché si è appena all'inizio di un processo graduale, è necessario tenersi stretti alle indicazioni che il poeta ce ne dà, evitando le forzature che purtroppo si riscontrano nella tradizione critica e che lasciano il segno anche nelle letture più moderne e più accorte.
Al moto di vergogna e di viltà del dannato che tenta di celarsi, è pronta la reazione del pellegrino: dichiarargli che egli è già stato riconosciuto, e proprio da lui esigere la presentazione della colpa dei frustati. Il distacco del pellegrino dalla guasta umanità dei fraudolenti giunge, per ora, a questa prima forma di ostilità. Quel frustato che si esibisce come unico documento dell' " intenzione aggressiva " di D., perché non dovrebbe significare che prima di essere riconosciuto egli non è che " uno sciagurato preso a frustate, e basta " (Provenzal)? Ma il mito di Venedico come di personaggio spregevole che D. fa oggetto di pungente sarcasmo e del più spietato disprezzo si è tanto diffuso e, come accade, dilatato da un commento all'altro, che sembra tempo di verificare il cliché suggestivo, anche se confortato di consensi quasi unanimi, con un richiamo ai limiti del testo. Le fioriture più gratuite, insieme con quella strana animosità del lettore nei confronti del dannato che si registra per molti personaggi infernali (ma giunge fino a Belacqua), si condannano da sé: basti ricordare battute come questa del Pietrobono: " Certo è che mai sferzata scrosciò più opportuna... Via ruffian! È quella che ci voleva. Il parlare di Venedico ha fatto stomaco perfino a un diavolo ".
È piuttosto importante notare che la prevenzione nei confronti dell'episodio induce vari lettori moderni a ricercare in ogni aspetto della scena, dello stile, della lingua il concorso alla realizzazione di un premeditato rapporto tra pellegrino e dannato, e di un preciso tono di " cinica commedia " (Caretti) o di " una crudeltà sprezzante fino a tramutarsi in malizia divertita e sarcastica " (Sapegno). Il più fantasioso in questo gioco è il Torraca, che si concede arbitri come immaginare le ragioni del consenso di Virgilio (v. 45: " sotto la curiosità, sotto il desiderio di ‛ figurare ' il frustato, Virgilio ha indovinato in Dante il desiderio di farsi vedere dal frustato per godere della vergogna di lui? Pare di sì ") o l'accavallarsi dei compiacimenti in D. (" mentre scrive, Dante torna a provare il compiacimento di aver umiliato quel vile ribaldo ").
Il documento più invocato è tuttavia quello che il Grabher definisce " maligna e sorniona finzione " di D., ai vv. 49 (se le fazion che porti non son false) e 51 (Ma che ti mena a sì pungenti salse?), rispettivamente interpretati come " inciso falsamente dubitoso " e " domanda falsamente ingenua " dal Sapegno, e come " simulata dubbiosità nell'accertamento " e " simulata ignoranza del fallo " dal Caretti. Ora l'inciso del v. 49 non si vede come possa costituire una simulazione di natura aggressiva: le sembianze di Venedico possono essere ipotizzate come false nel senso di " fallaci ", e l'inciso significa " se le tue sembianze non m'inducono in errore ", o nel senso di " finte ", e l'inciso esprime la preoccupazione che " in questo regno della frode si possano falsificare anche le sembianze " (Porena). Una terza ipotesi il testo autorizza: che l'inciso significhi per assurdo la certezza del riconoscimento. Quanto alla simulata ignoranza del fallo (v. 52), a parte l'oziosità del gioco di chiedere ciò che già si conosce, che comporta l'attribuzione a D. di una cattiveria più patologica che raffinata, si dimentica che D. pellegrino non dispone di alcun elemento per intendere dalla sola visione della bolgia che vi sono dannati i ruffiani e i seduttori. L'unica indicazione in proposito gli era stata offerta dal discorso di Virgilio sul bordo del sesto cerchio: ma in quell'occasione la successione delle bolge era stata in tal modo disordinata (sesta, seconda, quarta, decima, settima, terza, prima, quinta, ottava e nona) che il discepolo non poteva giovarsi di quella lezione per sapere, affacciandosi sulla prima bolgia, d'incontrarsi con i ruffiani.
D'altra parte, se si vuol pensare che riconoscendo Venedico, D. poteva ricordarsi della sconcia novella di Ghisolabella e delle voci sulla responsabilità del fratello, non si può mai ritener questo sufficiente perché egli fosse certo che il bolognese per quella ruffianeria fosse dannato e non per altra colpa a lui nota o ignota, tanto varia e misteriosa è la storia della coscienza, come D. ben sa e recenti esperienze gli hanno confermato. Né l'adombrare nelle salse la località bolognese può andar oltre l'efficacia anagrafica (come pure nota il Caretti), se la valletta così denominata accoglieva cadaveri di uomini genericamente indegni di normale sepoltura.
Ogni aura di scontro polemico, infine, si dissolve alla lettura della risposta di Venedico se nell'animo di D. pellegrino ci fosse stato il " sottile sarcasmo inquisitoriale " di cui parla il Caretti, quel rispondere " con una schiettezza calma e signorile " (il Momigliano insiste sulla signorilità, e suggerisce di confrontare " la calma beceresca " del padovano [Reginaldo degli Scrovegni] con la calma signorile del bolognese; anche il Grabher parla di " schiettezza dolorosa ", " angoscia della pena ", " seria consapevolezza "), il poeta, cosciente o no, avrebbe consentito che il dannato umiliasse il pellegrino ponendo il suo " ricatto " in una luce di autentica e volgare perfidia. Venedico, sollecitato dalla chiara favella e più dalla propria viltà, dice, né più né meno, che, comunque si racconti la vicenda della sorella, fu lui a far da ruffiano: I' fui colui che la Ghisolabella / condussi (vv. 55-56) suona " sono stato io a condurre " (rivelazione della colpa che lo mena) e non già " sì, sono proprio io che condussi " (conferma non richiesta dal contesto, che il Caretti interpreta come uno " sciorinare impudicamente il poco onorevole catalogo delle proprie benemerenze "). Questo lo mena alle pungenti salse: egli fu ruffiano, e questa è la bolgia dei ruffiani, piena di bolognesi come lui; e D. sa l'inclinazione, dei bolognesi all'avarizia che è radice della ruffianeria come di tante altre fraudolenze. Balena nelle forme di questo discorso una proiezione del dannato verso un passato irrecuperabile (fenomeno che si ripeterà nei successivi incontri), provocata dall'inatteso incontro con un conoscente appartenente ancora al mondo dei vivi. Il primo sintomo è espresso nel tentativo di nascondersi abbassando la testa (" summe verecundabatur cognosci in tali actu cum fuisset miles nobilis et magnificus ", Guido; anche il Tasso postilla " Ruffian si vergogna "): l'antica viltà da vivo è quella che scatta per prima, e che quindi lo induce alla resa e alla soddisfazione della domanda precisa; poi l'ingegno e la parola flessibili del politicante, in quella captatio di pietà e di compatimento (E non pur io qui piango bolognese...), che si avvale del prestigioso paragone dei parlanti il dialetto bolognese e dell'appello alla generale avarizia, con l'inserto della testimonianza, tipica nota in questo postremo innocuo raggiro. Proteso così lo sorprendono la percossa del demonio e l'esplicito richiamo alla realtà dell'Inferno; comunque suoni l'espressione femmine da conio, essa è diretta al brutale ridimensionamento: questo rimane del signore bolognese, della sua viltà, della sua diplomazia; e sotto questa realtà lo seppellisce il silenzio di Dante.
L'episodio rimane drammatico e suggestivo anche senza lo spreco d'ironia e di cinismo. E così restaurato armonizza perfettamente con quello seguente di Giasone, rendendo superflue le parzialità che si fanno per quest'ultimo, come di eroe che, contrariamente ai presunti maltrattamenti di Venedico, se la cava a buon prezzo, con quella regalità dell'aspetto serbata " nonostante la mala compagnia e la pena ignominiosa " (Provenzal). Se si accetta che l'impegno del poeta non è di giostrare coi primi fraudolenti, ma di coglierne la verità nel fallimento eterno, si intende facilmente che se nella schiera dei frustati Giasone conserva ancora una sorta di dignità e mostra un aspetto reale, questo non è da vedere come una concessione ammirativa del poeta al dannato, e tanto meno come un pedaggio antinfernale che la suggestione dei classici farebbe pagare al poeta; dignità e aspetto regale sono gli attributi dell'eroe, attributi che egli ha fatti valere per realizzare la propria colpa di seduttore recidivo. Si veda come l'accenno alle imprese, e lo stesso titolo del cuore e del senno, s'incontrino con i segni e le parole ornate dell'inganno e dell'abbandono finale, e facciano insieme contrasto con la vulnerabilità della vittima (eloquenti i diminutivi giovinetta e soletta); e come il cuore e il senno dell'eroe si degradino a fronte del cuore e del senno della giovinetta, la quale aveva ingannato ardite femmine spietate per amore del padre, e che si trova gravida e abbandonata per l'amore offerto al suo seduttore. È logico, infine, che per Giasone ci aiuti, com'è il caso di vari altri personaggi maggiori - esempio massimo Ulisse -, il sistema fondamentale, illuminare nella storia del dannato virtù famose o gloriose, sia per significarne la vanità nel giudizio eterno, sia per rafforzare, nel contrasto, la tragedia della perdizione o la vergogna della pena (" è un personaggio del mito, al quale D. lascia il suo poetico alone di grandezza e di altera regalità, proprio per rilevarne con maggiore intensità la caduta e, in questo caso, la viltà della colpa ", Sapegno).
V. anche CACCIANEMICO, VENEDICO; CONIO; GIASONE.
Bibl.-T. Tasso, Postille alla D.C., Città di Castello 1895; I. Del Lungo, Peripezie d'una frase dantesca, in D. ne' tempi di D., Bologna 1888, 197-270; C. Arlìa, Note filologiche, in Erudizione e Belle arti, II, Cortona 1894, 8; G. Del Noce, Nel primo vallo di Malebolge, in " Giorn. d. " III (1895) 487 ss.; A. Leone, Perché Venetico Caccianemici e Mirra sono in Malebolge e non in Cocito, in " Fanfulla della Domenica " 11 agosto 1901; F. Ronchetti, Corrispondenza letteraria, ibid. 18 agosto 1901; F. Bassignano, Malebolge: note dantesche, Pinerolo 1911; G. Zaccagnini, Personaggi danteschi in Bologna, in " Giorn. stor. " LXIV (1914) 1 ss.; ID., Il testamento di Venetico Caccianemici, ibid. LXV (1915) 51 ss.; G. Bertoni, I lenoni e gli adulatori, in " Archivum Romanicum " VIII (1924), poi in Cinque letture dantesche, Modena 1933; D. Rastelli, La curiosità di D. nei canti XVII e XVIII dell'Inferno, in Saggi di umanesimo cristiano V 4 (1950) 12-21; E. Sanguineti, Interpretazione di Malebolge, Firenze 1961; E. Raimondi, D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967. Letture del canto XVIII: R. Fornaciari, Firenze 1902; F.T. Gallarati Scotti, ibid. 1906 (ora in Lett. dant. 333-344); L. Caretti, ibid. 1961; E. Sanguineti, ibid. 1968.