RUBINO, Giovanni detto il Dentone
– Il primo documento che lo riguarda è del 29 gennaio 1513. Si tratta di un atto notarile in cui il padre Antonio si accordò con gli scultori Giovanni e Antonio Minello affinché il figlio entrasse a far parte della loro bottega come «discipulo et laborante»; la durata del contratto fu stabilita in quattro anni durante i quali il giovane apprendista avrebbe ricevuto 25 ducati, 5 per i primi tre anni e 10 per l’ultimo (Rigoni, 1932-1933, pp. 218 s., doc. XV). Come dichiarato in maniera esplicita, alla stipula del contratto fu presente e consenziente lo stesso Giovanni, e ciò ha fatto pensare che a quel tempo egli non fosse più un semplice fanciullo; di conseguenza si è supposto che la sua data di nascita debba cadere in prossimità degli ultimi anni del secolo precedente.
Anche per stabilire le sue origini padovane si è costretti a compiere un percorso indiziario: il padre, proveniente da Palosco, presso Bergamo, ma al momento del contratto con i Minello residente a Padova «in contrata Sancti Andree», risulta ricordato fin dal 15 maggio 1492 negli estimi di questa città, dove esercitava il mestiere di merciaio, ed è quindi verosimile pensare che Giovanni sia nato proprio a Padova (ibid., p. 205 e nota 3).
Per quanto molto probabile, non sappiamo se egli abbia compiuto per intero il suo apprendistato presso i Minello, né abbiamo altre notizie su di lui per il secondo decennio del secolo. Per ritrovare il suo nome in un documento bisogna infatti attendere il 1524, quando egli ricevette la prestigiosa commissione del rilievo marmoreo con il Miracolo del marito geloso per la cappella di S. Antonio nella basilica del Santo. La tavola di marmo da cui si sarebbe dovuta ricavare la scultura era stata assegnata a Lorenzo Bregno sin dal 1519-20, ma ancora nel 1523, cioè pochi mesi prima di morire, egli risultava non averla ancora iniziata. Dopo la sua morte l’incarico passò a Giovanni Rubino nell’agosto del 1524 (Gonzati, 1852, p. 164 e doc. XCII), e già il 9 settembre successivo fu stipulato un contratto dal quale si apprende che il marmo venne recuperato dalla bottega veneziana di Bregno per essere riportato a Padova e che il compenso previsto sarebbe stato di 250 ducati d’oro, cioè la stessa cifra che era già stata promessa a Bregno. In questo periodo Rubino abitava «in contrata Sancti Micaelis».
Nonostante la commissione prestigiosa, Giovanni fu stranamente poco solerte a occuparsi di essa: a parte alcuni piccoli acconti ricordati nei mesi successivi, il lavoro non procedette abbastanza rapidamente, e infatti il 10 maggio 1529, con la speranza di accelerare i tempi di consegna, si arrivò alla stipula di un nuovo accordo che prevedeva per lo scultore un salario mensile di 5 ducati d’oro. Ma anche questa soluzione sarebbe stata destinata a scarsa fortuna, giacché lo scultore avrebbe avuto ancora pochi mesi da vivere, come sappiamo da un pagamento del 1° febbraio 1530 nel quale risulta già morto (Archivio della venerabile Arca del Santo, Libro de la intrada e spesa de la fabrica de S. Antonio, anni 1530-1531, n. 395, c. 73, in Rigoni, 1931, p. 322 nota 3).
Questa volta i massari dell’Arca impiegarono più tempo per trovare un sostituto e soltanto il 1° luglio 1534 venne stipulato un nuovo contratto con lo scultore toscano Silvio Cosini. Due giorni prima, però, si dovettero accordare con l’erede di Giovanni Rubino, il fratello Marco, anch’egli scalpellino, per risolvere il precedente contratto: al lavoro compiuto da Giovanni, comprensivo anche del modello da lui approntato, fu riconosciuto un compenso totale di 45 ducati, da cui bisognava togliere quanto lo scultore aveva nel frattempo percepito.
Dunque, meno di un quinto rispetto al compenso pattuito, segno che difficilmente potremmo farci un’idea del suo modo di scolpire se consideriamo oggi il rilievo finito, quasi del tutto in sintonia con l’opera di Cosini. Qualche dubbio può venire solamente per le figure all’estrema sinistra, che appartengono a una lastra di marmo diversa rispetto al resto del rilievo: in esse le pieghe fitte e affilate, le pose convenzionali, un classicismo un po’ di maniera si accompagnano a fatica al linguaggio così dirompente della lastra maggiore, e non resta che pensare o che sia opera in cui risalta in maniera più autonoma un qualche aiuto della bottega di Cosini, o che sia proprio questa la parte nella quale il lavoro di Rubino fosse arrivato a un livello di finitura tale da non essere completamente assorbito nell’intervento successivo dello scultore toscano.
Anche a considerare l’altra commissione che talvolta viene accostata al nome di Rubino, questa volta sulla base della testimonianza di Marcantonio Michiel, rimane molto difficile farsi un’idea di come egli scolpisse. Il letterato veneziano, descrivendo la casa di Alvise Cornaro a Padova, che aveva visitato probabilmente intorno al 1537, ricordava che «le figure nella [...] corte de piera de Nanto in li nichii, et le do Vittorie sopra l’archo furono di mano de Zuan Padoan, ditto da Milano, discipulo del Gobbo. El Apolline de piera de Nanto nel primo nichio a man manca fu de mano de l’instesso» (Michiel, 1896, 2000, pp. 28 s.). Se sono giuste queste indicazioni, si può pensare che sia stata proprio la commissione delle statue Cornaro ad aver distratto Rubino dai lavori al rilievo per la cappella di S. Antonio, considerando che negli anni immediatamente successivi al 1524, quando la loggia del cortile risultava terminata, si provvide alla sua decorazione e che perciò essa andava a sovrapporsi all’impegno già preso dallo scultore con i massari dell’Arca. In più avremmo un’ulteriore notizia sulla sua formazione, avvenuta non solo nella bottega dei Minello, ma anche in quella del Gobbo, ovvero lo scultore lombardo Cristoforo Solari, la frequentazione della quale avrebbe fatto guadagnare a Rubino quel «da Milan» con cui è talvolta ricordato anche nei documenti relativi all’Arca di s. Antonio. A fronte di queste aperture sulla sua vicenda biografica, maggiori perplessità rimangono invece riguardo alle sculture espressamente citate da Michiel, poiché se «le do Vittorie» saranno da riconoscere in quelle rovinatissime sopra l’arco centrale della loggia, per quelle «in li nichii» si hanno invece più difficoltà a capire di quali si tratti, giacché quelle del secondo ordine della loggia, oltre a non essere in pietra di Nanto, e a essere di una mano differente rispetto alle Vittorie, sembrerebbero appartenere a un periodo successivo, così da accordarsi meglio con l’ipotesi che sposta la costruzione del piano rialzato della loggia tra il quarto e il quinto decennio del secolo, in prossimità della realizzazione dell’odeo (Bresciani Alvarez in Alvise Cornaro e il suo tempo, 1980, pp. 54 s.).
Il soprannome ‘Dentone’ è attestato per la prima volta in una lettera del dicembre 1573 di Francesco Segala ai responsabili dell’Arca (Archivio di Stato di Padova, Notarile, t. 2051, c. 97, in Sartori, 1976, p. 217).
Fonti e Bibl.: B. Gonzati, La basilica di S. Antonio di Padova, I, Padova 1852, pp. 164 s. e doc. XCII; M.A. Michiel, Notizia d’opere del disegno. Edizione critica a cura di T. Frimmel, Vienna 1896, Firenze 2000, pp. 28 s.; E. Rigoni, Su uno dei quadri marmorei della cappella del Santo, in Il Santo, III (1931), pp. 321-331; Ead., Notizie riguardanti Bartolomeo Bellano e altri scultori padovani, in Atti e memorie dell’Accademia patavina di scienze, lettere ed arti, n. s., XLIX (1932-1933), pp. 199-219; A. Sartori, Documenti per la storia dell’arte a Padova, a cura di C. Fillarini, Vicenza 1976, pp. 205, 217; Alvise Cornaro e il suo tempo (catal.), a cura di L. Puppi, Padova 1980 (in partic. G. Bresciani Alvarez, Le fabbriche di Alvise Cornaro, pp. 36-57; G. Mariacher, Scultura e decorazione plastica esterna della loggia e dell’odeo Cornaro, pp. 80-85); S. Blake McHam, The chapel of St. Anthony at the Santo and the development of Venetian Renaissance sculpture, Cambridge (Mass.) 1994; R. Schofield, Architettura e scultura veneziana nel secondo Quattrocento: due problemi aperti e un fantasma, in I Lombardo. Architettura e scultura a Venezia tra ’400 e ’500, a cura di A. Guerra - M.M. Morresi - R. Schofield, Venezia 2006, pp. 3-33; L. Principi, Un altare a Portovenere e altre novità per il secondo soggiorno genovese di Silvio Cosini, tra Padova e Milano, in Nuovi studi, XIX (2014), 20, pp. 136 s. note 89-90.