Vedi Ruanda dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Al centro della regione dei Grandi Laghi, il Ruanda è stato sconvolto da una sanguinosa guerra civile che nel 1994 ha bruscamente risvegliato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. L’allora segretario delle Nazioni Unite Boutros Boutros-Ghali parlò di ‘genocidio ruandese’. Superata la fase di massima emergenza, una genuina competizione multipartitica è oggi ostacolata dall’azione del presidente della repubblica Paul Kagame, che monopolizza il sistema politico. Molti dissidenti politici operano dall’estero, nel tentativo di coalizzarsi per contrastare quella che considerano la dittatura del partito di governo, il Rwandese Patriotic Front (Rpf), uscito vincitore dalle elezioni legislative di settembre 2013 con il 76,2% dei voti. Tale risultato, unito a dati economici soddisfacenti e a frequenti rimpasti di governo che assicurano la fedeltà al presidente, hanno rinforzato il potere di Kagame. Nel luglio 2014, in un ulteriore rimaneggiamento del governo, Kagame ha sostituito il primo ministro Pierre Habumuremyi, in carica dal 2011, con Anastase Murekezi. Kagame terminerà il suo secondo mandato nel 2017 e il parlamento ha votato all’unanimità una riforma per rimuovere il limite costituzionale che non gli permetterebbe di candidarsi nuovamente. Per attuare il cambiamento è necessario un passaggio referendario che, dati il controllo del governo sul procedimento e la debolezza dell’opposizione, appare dal risultato scontato.
Ex colonia tedesca, poi sottoposto a mandato internazionale affidato al Belgio e infine, con l’indipendenza nel 1962, legato all’influenza del Belgio e soprattutto della Francia, il Ruanda di Kagame e dell’élite anglofona del Rpf, formatasi negli anni dell’esilio ugandese, ha attuato una svolta storica entrando nel Commonwealth (novembre 2010) e coronando così la sua piena reintegrazione nella comunità internazionale.
Gli anni della guerra civile sono all’origine dell’attuale assetto politico del paese. Dopo aver a lungo tentato di costruire l’unità nazionale attraverso la discriminazione dei tutsi, il regime a partito unico (Mouvement Révolutionaire National pour le Développement, Mrnd), guidato da Juvénal Habyarimana e appoggiato dalla maggioranza hutu, entrò in crisi nel settembre 1990, quando il Rpf avviò un’offensiva dalle sue basi in Uganda. Il Rpf era formato da esuli tutsi che, in gran parte, avevano militato nel Resistance Army del presidente ugandese Yoweri Museveni. Incalzato dal Rpf, Habyarimana annunciò nel luglio 1991 la transizione al multipartitismo e aprì a un lungo negoziato che, il 4 agosto 1993, portò alla firma degli accordi di pace di Arusha.
Il 6 aprile 1994, l’aereo sul quale Habyarimana viaggiava assieme al presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira, venne abbattuto da un missile: morirono entrambi. A tutt’oggi non è stata fatta luce sull’episodio che ha scatenato accuse vicendevoli tra il Rpf e i sostenitori di Habyarimana. Nel 2006 un giudice francese ha concluso che fu proprio Kagame a ordinare l’abbattimento del velivolo per poter dare il via a quell’offensiva politica e militare che lo avrebbe poi portato al potere: in risposta, il governo di Kigali interruppe le relazioni diplomatiche con Parigi, riallacciate poi nel 2010.
A torto o a ragione l’abbattimento dell’aereo presidenziale venne preso a pretesto dagli estremisti hutu per dare il via al massacro degli oppositori. Tra l’aprile e il luglio 1994 furono 800.000, forse un milione, i tutsi e gli hutu moderati a essere uccisi dalle bande dell’Interahamwe (organizzazione paramilitare degli hutu), mentre due milioni di ruandesi cercarono riparo in Tanzania, Burundi e Congo (allora Zaire). La forza di pace delle Nazioni Unite, dispiegata a seguito degli Accordi di Arusha, venne attaccata e, dopo l’uccisione di alcuni militari di nazionalità belga, lasciò il paese, incapace di fermare il conflitto.
Sotto l’offensiva del Rpf le forze armate ruandesi vennero rapidamente sconfitte e, nel 1994, il Rpf pose fine alla guerra civile, costituendo un governo di transizione che portò alla presidenza della repubblica e a capo dell’esecutivo due hutu moderati, rispettivamente Pasteur Bizimungu e Faustin Twagiramungu. Le leve del potere rimasero però saldamente nelle mani del Rpf e, in particolare, dell’allora ministro della difesa Paul Kagame. La scalata al potere dei tutsi fu coronata nel 2000, quando Kagame si impossessò della presidenza per poi essere confermato alla guida del paese con risultati plebiscitari alle elezioni del 2003 (95% dei voti) e del 2010 (93% dei voti).
La comunità internazionale ritornò in Ruanda con uno sforzo umanitario imponente nell’ambito della United Nations Assistance Mission in Rwanda (Unamir), che terminò solo nel 1996. Il processo di riconciliazione e ricomposizione sociale passò anche per la costituzione ad Arusha, nel 1994, del tribunale internazionale che, su mandato delle Nazioni Unite, ha perseguito gli ideatori e pianificatori del genocidio. Migliaia di esecutori materiali sono stati individuati e processati a partire dal 2001 attraverso un sistema di corti (le gacaca) che hanno terminato il loro lavoro nel 2012. La nuova Costituzione del 2003 proibisce ogni esplicito riferimento all’etnicità in termini divisivi e competitivi e censura le pratiche di controllo o monitoraggio in chiave etnica.
Quello del 1994 è stato soltanto l’ultimo e il più importante dei massacri etnici sopportati dai tutsi, ma anche gli hutu sono una comunità caratterizzata da una storia di persecuzioni perpetrate in Burundi, Congo e Ruanda settentrionale. Furono le manipolazioni introdotte dal colonialismo a creare un senso divisivo e potenzialmente conflittuale di identità tra due gruppi che condividono la stessa lingua, la stessa organizzazione sociale e gli stessi valori religiosi.
Oggi il Ruanda attraversa una fase cruciale per le sue relazioni internazionali. Da quando il Rpf è salito al potere nel 1994, i donatori stranieri, in particolare Regno Unito e Usa, sono stati generosi, fornendo fondi pari a quasi la metà delle entrate pubbliche annuali. Tuttavia, dopo le accuse di sostegno da parte del governo ruandese al gruppo ribelle del M23, una milizia filo-ruandese che opera a est della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), alcuni donatori hanno sospeso gli aiuti.
A livello regionale, i rapporti del Ruanda rimangono tesi con la Repubblica Democratica del Congo, dove, tra l’altro, si rifugiano le milizie delle Forces Démocratiques de Libéra;tion du Rwanda (Fdlr), formato da hutu ostili all’attuale governo ruandese e contro le quali Kinshasa ha avviato un’offensiva nel febbraio 2015. Il rapporto con il Burundi è deteriorato dall’instabilità e dalle violenze scaturite dal terzo mandato del presidente Pierre Nkurunziza, le quali costituiscono elementi di rischio politico anche per Kigali. Nei mesi successivi alla crisi oltre 50.000 profughi sono scappati dal Burundi per raggiungere il Ruanda.
Rimangono alleati il Kenya e l’Uganda, impegnati in un’opera di integrazione regionale nell’ambito della Comunità dell’Africa Orientale.
Il Ruanda è il secondo stato più densamente popolato dell’Africa, con una popolazione che, secondo le statistiche del 2014, supera i 490 abitanti per chilometro quadrato. La densità abitativa, in forte aumento, rischia di danneggiare il fragile equilibrio sociale. La guerra civile ha lasciato in eredità al paese, oltre ai morti e ai profughi, migliaia di orfani e di persone in prigione in attesa di giudizio. Quasi l’80% dei ruandesi dipende dall’agricoltura per la propria sussistenza.
Il 65,9% della popolazione adulta è alfabetizzata, ma solo il 6% ha ricevuto un’istruzione superiore. Dopo la guerra civile il governo ruandese ha fatto della ricostruzione e riqualificazione del sistema scolastico una delle sue principali priorità. La speranza di vita del paese, seppure ancora bassa, cresce progressivamente e dai 27 anni dei primi anni Novanta è passata ai 64 anni nel 2013.
Dopo la guerra, i tutsi, che erano già in minoranza, sono ulteriormente diminuiti e si stima rappresentino oggi solo il 15% della popolazione. Essi legano la loro storia all’aristocrazia pastorale che governò il regno del Ruanda, fondato dal primo re (mwami) Ruganzu I Bwimba tra il Quindicesimo e il Sedicesimo secolo, e formalmente abolito solo nel 1959. Gli hutu, il gruppo di maggioranza, sono una popolazione bantu tradizionalmente dedita all’agricoltura e nello stato postcoloniale ha spesso fornito manodopera salariata a basso costo. Una piccolissima minoranza (1%) è composta dai twa, abili cacciatori e raccoglitori pigmoidi: sono scarsamente integrati nella società e vengono spesso considerati come paria.
Lingue ufficiali del Ruanda sono il kinyarwanda, parlata da tutta la popolazione, il francese, la lingua dell’ex dominatore belga, utilizzata nell’istruzione superiore, e l’inglese, impiegato per gli affari e i commerci. Il kiswahili (o swahili), la lingua veicolare dell’Africa orientale, è parlata in molte zone. La stragrande maggioranza della popolazione è cristiana (56,5% cattolici e 37% protestanti), anche se non sono poche le contaminazioni sincretiche con riti e credenze tradizionali.
Il rispetto dei diritti umani rimane fortemente a rischio in un sistema politico che si presenta formalmente come multipartitico, ma di fatto lontano da una vera dialettica democratica. Alcuni membri dei partiti antagonisti al Rpf, il Parti Social Démocrate (Psd) e il Parti Libéral (Pl), sono stati nominati ministri nel governo attualmente in carica. Anche questo contribuisce a far sì che non esista una vera e propria attività di opposizione parlamentare. Corruzione delle forze dell’ordine, condizioni insostenibili negli istituti di pena ed evidenti limiti alla libertà di stampa e di espressione costituiscono il quadro di riferimento per un regime sostanzialmente autoritario, che non si è fatto scrupolo di colpire gli oppositori, anche utilizzando la legislazione che bandisce le divisioni etniche. Nonostante le donne siano quotidianamente svantaggiate rispetto agli uomini nell’accesso all’istruzione, alle cure mediche e alle principali risorse sociali ed economiche, il Ruanda mantiene da due legislature consecutive il primato di paese con la più alta percentuale di presenza femminile in parlamento. La rappresentanza di genere è stata favorita dalla rottura di schemi sociali arcaici provocata dalla guerra civile, dagli investimenti fatti nel settore dell’istruzione e dal dettato costituzionale, secondo il quale almeno il 30% dei deputati devono essere donne.
L’economia ruandese ha registrato una considerevole crescita negli ultimi anni. Trainato dai buoni risultati registrati nel settore agricolo (tè, caffè e altri prodotti agricoli destinati alla vendita), il tasso di crescita del pil dovrebbe raggiungere, nel 2015, il 6,5%, un risultato in linea con gli anni precedenti. Accanto alle grandi imprese a monocoltura, sono molte le piccole o piccolissime aziende agricole a conduzione familiare che praticano un’agricoltura di sussistenza. Il settore dei servizi offre grandi potenzialità di crescita, soprattutto da quando è stato lanciato il programma per diffondere Internet wireless in tutto il paese. La mancanza di manodopera specializzata e la carenza di infrastrutture restano dei forti limiti allo sviluppo.
Il Ruanda è uno dei paesi africani che hanno maggiormente agito per riformare la propria economia, anche se i cambiamenti non hanno raggiunto risultati significativi nella riduzione della povertà e della disoccupazione. A maggio 2013, il governo ha approvato il secondo piano strategico di sviluppo economico e riduzione della povertà (Edprs 2), attraverso il quale mira a raggiungere un tasso annuo medio di crescita dell’11,5% nel quinquennio 2013-18. La sua capacità di attuarlo è però limitata dalla carenza di entrate, soprattutto a seguito della riduzione degli aiuti internazionali, che ha provocato un significativo deterioramento della situazione di bilancio. Per ovviare a ciò, il paese sta operando una serie di riforme tese a rendere il paese una destinazione appetibile per gli investitori esteri: per aprire un’attività in Ruanda oggi occorrono solamente due passaggi burocratici e due giorni di tempo.
Le privatizzazioni di grandi imprese agricole e di servizi, assieme alla riforma dell’amministrazione pubblica, hanno ridotto la corruzione: secondo Transparency International, nel 2014 il Ruanda si è collocato al 55° posto su 175 paesi. Fino al 2014 c’è stata una notevole riduzione dell’inflazione, scesa dal 22% del 2008 all’1,8% grazie a una accorta politica monetaria. Tra i principali capitoli di spesa si collocano l’istruzione, l’amministrazione pubblica e la difesa.
Almeno il 28% della popolazione ruandese non raggiunge il livello minimo di sicurezza alimentare. L’economia informale è molto estesa, contribuendo al 48% del pil (nel 2008), con conseguenze negative dirette sulla capacità del sistema di tassazione.
Kenya e Uganda, oltre che alleati politici, sono anche tra i maggiori partner commerciali. A questi si è aggiunta in anni recenti la Cina, che vede nel Ruanda l’opportunità di delocalizzare delle imprese manifatturiere. Nel 2014, il governo ruandese ha firmato un accordo da 10 milioni di dollari con un’azienda cinese per la costruzione di uno stabilimento tessile in Ruanda.
Dopo il ritiro ufficiale delle forze ruandesi dal Congo nel 2002, il governo ha inaugurato un ambizioso piano di riordino dell’esercito che ha portato in dieci anni a smobilitare migliaia di soldati e a formare un esercito d’élite di circa 33.000 effettivi. Il Ruanda, con uno stanziamento di circa 5000 soldati, è un importante sostenitore delle missioni Un. Dopo aver ospitato durante la guerra civile la missione Unamir, che ha coinvolto una dozzina di paesi e oltre 200 organizzazioni non governative, ha partecipato con un proprio contingente alla missione di pace delle Nazioni Unite in Congo. Oggi truppe ruandesi partecipano alle missioni in Sudan (Unamid), Sud Sudan (Unmiss) e Repubblica Centrafricana (Minusca).
La guerra civile e il genocidio dei primi anni Novanta in Ruanda ebbero importanti ripercussioni nei paesi vicini, in particolare in Repubblica Democratica del Congo (Rdc). Le milizie hutu, responsabili del genocidio, infatti, utilizzarono come basi contro il governo tutsi i campi profughi nello Zaire orientale. Nell’ottobre 1996 le truppe ruandesi entrarono nella Rdc, scatenando la cosiddetta Prima guerra del Congo. L’esercito ruandese appoggiò l’opposizione congolese guidata da Laurent-Désiré Kabila contro il governo di Mobutu Sese Seko per distruggere le basi hutu in Congo. Al contempo tentò di acquisire il controllo dello sfruttamento delle importanti risorse naturali delle province orientali del paese. Il tentativo di Ruanda e Uganda di estendere la loro influenza sul nuovo governo congolese portò alla rottura tra Kabila e i suoi alleati e innescò un’ulteriore fase del conflitto (la Seconda Guerra del Congo) che coinvolse Angola, Zimbabwe e Namibia a sostegno del governo congolese. Dopo gli accordi di pace siglati nel 2003 a Sun City (Sudafrica), le truppe ruandesi e ugandesi si ritirarono dal paese tra il 2002 e il 2003. Ma il Ruanda ha continuato ad appoggiare l’attività militare del Congrès National pour la Défense du Peuple (Cndp), gruppo oppositore del governo di Joseph Kabila, figlio di Laurent-Désiré. L’esercito ruandese ha inoltre continuato a operare incursioni oltreconfine contro le Forces Démocratiques de Libération du Rwanda (Dflr), movimento hutu avverso a Paul Kagame.
Nel 2012 i rapporti tra Ruanda e Rdc si sono ulteriormente deteriorati per le reciproche accuse di sostegno ai gruppi ribelli. Se Kinshasa incolpava il Ruanda di finanziare, per motivi etnici ed economici, la nuova milizia ribelle congolese nota come M23, Kigali sosteneva che la Rdc non facesse abbastanza per colpire il Dflr. La tensione è aumentata per la pubblicazione di un rapporto della Monuc (United Nations Organization Mission in the Democratic Republic of the Congo) che ha rivelato il coinvolgimento di Ruanda e Uganda nel sostegno all’M23. Kigali ha respinto le insinuazioni sottolineando che era piuttosto Kinshasa a proteggere i reduci degli Interahamwel, le milizie estremiste hutu responsabili del genocidio ruandese del 1994. Il gruppo M23, guidato prima dal generale Bosco Ntaganda, accusato dall’Aia di crimini contro l’umanità, e poi da Sultani Makenga, è stato fermato dalle forze armate congolesi (Fardc, Forces Armées de la République Démocratique du Congo) affiancate dalle truppe Un della missione Monusco (ex Monuc). Nel novembre 2013 il gruppo ribelle è stato sconfitto a Goma.
Ancora oggi la tensione tra Ruanda e Rdc resta alta sia per questioni territoriali, alimentate dai confini porosi, che per lo scarso impegno del Ruanda nel consegnare alle autorità congolesi i membri dell’M23 e per i lenti progressi del governo di Kinshasa nel disarmare il Dflr.
Tuttavia i gruppi ribelli rappresentano una minaccia per entrambi gli stati ed è auspicabile una maggiore collaborazione tra le forze dei due paesi. Il 2 gennaio 2015 è scaduto il termine concesso dai leader regionali alle forze del Dflr per deporre le armi. A febbraio Kinshasa ha avviato un’offensiva contro il gruppo ruandese. L’operazione, che inizialmente avrebbe dovuto essere sostenuta dall’Un, è principalmente eseguita dalle Fardc. La carenza di sostegno internazionale, unita al difficile territorio e alla tendenza del Dflr a colpire i civili per vendicarsi degli attacchi fa pensare che l’intervento si prolungherà nel tempo.
Non sono da escludere nuove escalation, anche violente, tra Ruanda e Rdc. In particolare un fallimento delle forze congolesi nella lotta al Dflr ed una riorganizzazione in un nuovo gruppo degli ex ribelli dell’M23, molti dei quali sono ora in Ruanda, porterebbero a un veloce deteriorarsi dei rapporti.