ROSSO DI SAN SECONDO, Pier Maria
– Nacque il 30 novembre 1887 a Caltanissetta da Francesco Maria, originario di Terranova e discendente da una famiglia blasonata, il cui stemma risalirebbe agli Altavilla nel Medioevo, e da Emilia Genova Sena, nissena. Primogenito di cinque figli, a Pier Maria seguirono Iole Rosaria Maria (1890), Gabriele Giuseppe (1891), Ugone (1894), da lui prediletto, e Maria Luisa (1894).
Terminato nel 1905 il liceo classico Ruggero Settimo a pieni voti, l’anno dopo si spostò a Roma per frequentare la facoltà di giurisprudenza, laureandosi nel 1909; e fu il suo stampatore universitario Sampaolesi a pubblicare nel 1911 le sue Sintesi, stese a partire dal 1905 e completate nel 1908, dunque prima che il termine si affermasse in ambito futurista. A Roma, Rosso entrò a far parte della cerchia di artisti meridionali e intellettuali riuniti nella redazione di Lirica, e di Nuova Antologia, tra cui Luigi Pirandello che lo prese in grande simpatia. Tuttavia, i rapporti intensi e proficui con il maestro, sbocciati con l’intervista rilasciatagli nel 1909 (ma uscita, poi, solo nel febbraio del 1916 in Nuova Antologia), tesero ad affievolirsi negli ultimi anni, anche a causa dell’ostilità di Marta Abba, sfociando poi nell’impietoso ritratto sbozzato da Rosso nel monologo Inaugurazione (1956), in cui la vedova lo maltratta davanti alla statua che lo celebra.
Fin dalle Sintesi, oscillanti tra genere narrativo e drammaturgico, sorta di ibridazione tipica di tutta la sua carriera, Rosso esibiva una marcata insofferenza verso bozzettismi veristi e psicologismi naturalistici, gusto del frammento e propensione a un’aura metafisica. Tra i pezzi ospitati, in particolare Il re della zolfara, ambientato in una taverna dove lavoratori esasperati lamentano le miserabili condizioni del lavoro. Significativa, per il taglio nervoso e puntillinista, anche La fuga, storia dialogata, in cui una servetta sedotta dal suo innamorato lo vede ben presto sparire non appena gli rivela di non poter disporre della somma che l’altro si aspettava. Come una novella Arianna, verrà rimorchiata dal suo Bacco, nei panni di un astuto e cinico carrettiere sposato. Ma il motivo che intitola il frammento ritorna nel romanzo che segnò l’irruzione dello scrittore nella cultura nazionale, grazie anche alla prefazione entusiastica di Pirandello. Prima c’erano state le novellette raccolte in Elegie a Maryke (Roma 1914) e in Ponentino (Milano 1916), con la sapiente (per l’età) mistura di estenuazione crepuscolare e distacchi ironici sferzanti, il tutto mediato dal flusso interiore della voce narrante.
La fuga (Milano 1917), romanzo uscito per i tipi di Treves e dal sottotitolo «autobiografico lungo», metteva in luce esperienze personali di un Rosso picaresco, flâneur baudelairiano incalzato dalla smania di spostarsi all’estero, dischiudendo l’accidiosa umoralità siciliana al cosmopolitismo mitteleuropeo. Viaggi instancabili, a partire dai Paesi Bassi nel 1907, superando le ansie e i divieti del padre: sulle coste del Mare del Nord, Rosso trovò i primi grandi amori con fanciulle trasognanti, bionde e occhi azzurri, in singolare contrasto con il proprio incarnato. Ma fu la Germania a divenire poi il Paese privilegiato: di qui, il dualismo geografico tra Sud e Nord che caratterizzò molti intrecci nei racconti e nei drammi (nella Fuga emblematizzato nel contrasto tra la bionda moglie, pura e votata alla morte, e la bruna sensuale, zingarella circense, nel finale), forse il più importante dei miti personali di Rosso, fissato con fermezza da Adriano Tilgher in Studi sul teatro contemporaneo (1923).
Il 4 marzo 1918 la compagnia di Virgilio Talli (su pressioni di Pirandello), con Maria Melato e Annibale Betrone varò con successo a Milano Marionette, che passione!, poi apprezzate pure a Parigi nel 1923, con la traduzione di Alfred Mortier, il titolo senza dubbio più rappresentativo dell’autore.
In scena, una città desolata tra uffici postali e ristoranti raggelanti. In sala, una generazione maturata tra i morti della Grande Guerra. Tre derelitti, incalzati da ossessioni amorose e da partner lontani e spietati, tutti senza nome ma designati con colori allusivi a tonalità dell’anima: volpe azzurra la donna, nero e grigio i due uomini.
Il 15 agosto 1919, ancora a Milano e con la medesima compagnia, fu la volta de La bella addormentata, definita dall’autore «avventura colorata», destinata al successo anche in Francia e Germania, evento insolito per i nostri commediografi, con personaggi sempre nominati per elementi di abbigliamento, o pseudonimi sconcianti.
Qui, una prostituta liberata favolisticamente dal Nero della zolfara (quasi un doppio sensuale e selvaggio rispetto alla dimensione borghese-aristocratica del suo creatore), si trasforma in lunare vendicatrice. Significativo il cambio di finale, maturato per le reazioni furibonde del pubblico al debutto, con l’impiccagione del Notaro tremulo, responsabile della prima seduzione della ragazza, morta nella nuova stesura, trasformata in una novella Traviata in attesa del suo Alfredo.
Polemiche e scandali suscitarono altre prime teatrali di Rosso, a partire da Una cosa di carne, con il professore che nel bordello sposa una prostituta per il proprio piacere personale, salvo poi vedersela mutare in donna fiera dei suoi diritti maternali, con relativa censura a Genova nel luglio del 1924 ed esordio in Argentina lo stesso anno. Il fatto è che, pur volendo integrarsi nel circuito commerciale, tramite le ditte più autorevoli e nonostante i ricorsi a ricette da boulevard, Rosso intendeva liberarsi dagli stereotipi della commedia ben regolata. In un’intervista rilasciata da Berlino per la Gazzetta del popolo del 14 aprile 1933, dichiarò che il teatro era morto inneggiando alla poesia.
Del resto, lo scrittore nisseno immise l’influsso pirandelliano nel territorio simbolista, con la tentazione del sogno e l’opzione lirico-favolistica, in contiguità con il grottesco. Non mancarono contaminazioni con altre suggestioni del tempo, dai lirismi claudeliani alla facondia erotica dannunziana in Amara del 1918 (quasi una riedizione de La donna del mare di Henrik Ibsen) e ne L’ospite desiderato del 1921, in cui una femme fatale deve essere eliminata per il ritorno dell’equilibrio e dell’amicizia maschile. Perlopiù, un orizzonte espressionista (quando ormai il movimento, in Europa almeno, aveva esaurito la spinta propulsiva) per la centralità del dolore, la solitudine dell’Io nel mondo, il legame morboso con i morti. Ecco allora Il delirio dell’oste Bassà (1925), con il vedovo inconsolabile incapace di elaborare il lutto dopo la morte della moglie santificata, pertanto inadatta alla sessualità coniugale; con qualche richiamo a L’incendio del teatro dell’opera di Georg Kaiser del 1919, l’oste, per poterle innalzare un altare purificato, eliminerà in un fuoco apocalittico le etere del bordello vicino, una delle quali, Annita, si era invano offerta quale corpo sostitutivo dell’amata. E ancora Lo spirito della morte nel 1929, anno in cui incontrò a Berlino la vedova di Frank Wedekind. Nella ripresa del testo, avvenuta a opera di Anton Giulio Bragaglia, a Roma nel 1942, specie il terzo atto con il senso di apocalisse sembrava sintonizzato ai Climi di tragedia di quei mesi (vedi anche l’omonima raccolta del 1931 che lo contiene). In un certo senso, occorre far morire l’amato per impossessarsene in un culto maniacale, nella scena divenuta una pirandelliana camera in attesa (del ritorno del defunto). Dal maestro agrigentino gli derivarono pure le argomentazioni pro e contro la passione, come ne Le esperienze di Giovanni Arce filosofo del 1926, con la contrapposizione dialettica tra il saggio e la donna tigre. Ma spuntano pure altri profili femminili, con creature tentate dalla castità, forse sulla scia di Otto Weininger. Così nella prosa narrativa i romanzi Le donne senza amore (Roma 1918), e La donna che può capire, capisca (Milano 1923). Voglia di melodramma accompagnò di frequente i plot centrati sul sentimento materno da La scala (1925) a Tra vestiti che ballano (sui profughi russi, del 1926), molto applaudite in terra tedesca. Nei suoi codici linguistici, convivevano parodicamente l’enfasi e la referenzialità pura. Basti rifarsi alla robotizzata lingua da marketing, nel gusto di Achille Campanile, in Da Wertheim (Emporio berlinese), steso durante il prolungato soggiorno nella città tedesca nel 1928.
Negli anni Trenta, Rosso soffrì di un progressivo deperimento organico, sino alla paralisi finale, spiegabile sia con la produzione compulsiva, una quarantina di titoli da un suo calcolo approssimativo nel 1931, sia con le collaborazioni saltuarie a giornali (da L’Idea nazionale a Il Messaggero nel 1918-19, dove conviveva malvolentieri con Federigo Tozzi, da Il Popolo d’Italia nel 1922 e nel 1932, a Romanzo mensile nel 1942-43, a Film nel 1944 al Giornale d’Italia nel 1949), sia infine con la leggendaria fama di seduttore, censurata da Piero Gobetti che lo marchiò «satiro scatenato» (cfr. Il Baretti, 1° gennaio 1926).
Nel 1934, l’assegnazione del premio Mussolini per la letteratura (50.000 lire), su proposta di Pirandello, da parte della R. Accademia d’Italia, gli consentì di acquistare un villino nella Versilia, a Lido di Camaiore. Qui (con frequenti pendolarismi a Roma e sempre più rare escursioni all’estero), si trasferì con una giovane studentessa universitaria, poco più che ventenne, la slesiana Inge Redlich, conosciuta nel 1932 mentre teneva conferenze su teatro e poesia, in francese, al Seminario romanico universitario e con cui si unì in matrimonio il 13 giugno 1934.
Dai registri più cupi e depressivi provò a sollevarsi in favore di un idillismo languoroso, sfornando però un capolavoro come l’opera testamentaria Il ratto di Proserpina, iniziata nel 1932 e mai andata in scena, vivo l’autore, se non alla radio nel 1954, quando il copione venne insignito del premio Melpomene.
Qui, il mito antico veniva rimesso in gioco, con abbassamenti e ammodernamenti non troppo dissimili da Alberto Savinio e Massimo Bontempelli, per trasfigurare la realtà di quegli anni. Testo coreutico con scenari naturisti, emulo del pirandelliano I giganti della montagna, organico alle direttive del ministero fascista a sostegno di una cultura nazional-popolare, cui spesso, sin dall’inizio del regime andò l’orientamento dello scrittore. Forse per la diminuita circolazione dei suoi copioni e il raffreddamento della critica negli anni Trenta, in seguito alla morte nel 1931 di Arnaldo Mussolini, di cui vantava un’amicizia personale, Rosso arrivò a denunciare le plutocrazie ebraico-massoniche, come nella conferenza tenuta al Pen Club berlinese il 14 aprile 1933.
Ne è testimonianza il dramma La signora Falkenstein sulle contese finanziarie e sugli odi da parte di figli ribelli in una ricca famiglia ebraica, allestita nel 1929, e soprattutto Orlando in Brandeburgo. Romanzo di vita berlinese, uscito nel 1937, apparso nella rivista fascista Quadrivio, dove la topica del meridionale trapiantato nella capitale tedesca, qui un giovane squadrista di Giardini, sorta di Sigfrido siculo, appassionato dell’ordine e della sanità morale, gli fa demonizzare la città quale sentina del vizio (la storia è collocata nella cultura weimeriana del 1927), prima dell’avvento delle camicie brune naziste.
Nel 1944-45, nei mesi più duri del conflitto, si trasferì nell’isola veneziana di Burano. Nel 1953 pubblicò, in Scenario, Mercoledì luna piena: farsa bizzarra, forse il testo in cui la lingua, che tanto dispiaceva a Marco Praga, si involve con più torsioni sperimentali, e dove nel personaggio della Preminente esprime l’umiliazione dell’invecchiamento. I registri elegiaci si evidenziarono in particolare nella raccolta Banda municipale (Caltanissetta 1954), specie nella novella omonima, nell’incrocio tra gelaterie e pasticcerie degli eleganti caffè cittadini.
Morì a Lido di Camaiore il 22 novembre 1956.
Il 31 marzo 1960 la salma venne traslata dal cimitero versiliese di Capezzano Pianore a quello della nativa Caltanissetta, dove riposa, assieme alla moglie Inge, deceduta nel 2001.
Opere. L’editore Sciascia di Caltanissetta dal 1991 ha iniziato la pubblicazione dell’intero opus, progetto non completato. Per la parte narrativa, si vedano, rispettigamente: La fuga, a cura di G. Luti, 1991; La morsa, a cura di P.M. Sipala, 1991; La mia esistenza d’acquario, a cura di A. Di Grado, 1991; La donna che può capire, capisca, a cura di F. Gioviale, 1992; Ignazio Trappa maestro di cuoio e suolame, a cura di S. Zappulla Muscarà, 1992; La festa delle rose, a cura di M.L. Patruno, 1992; Novelle 1, a cura di N. Tedesco, 1992; Novelle 5, a cura di F. Orsini, 1993, Riva del vin - Il folle amore, a cura di P.D. Giovanelli, 1993; Incontri di uomini e di angeli, a cura di G. Savoca, 1993; Il minuetto dell’anima nostra, a cura di F. Di Legami, 1993; Concerto nuziale - La signorina senza milioni, a cura di G. Turco, 1993; Lo sdoppiamento di Matteo Derbini, a cura di R. Verdirame, 2003; La contessina Elsa - Sogno d’amore, a cura di A. Bisicchia, 2003; Zagrù, a cura di R. Salsano, 2003; Le donne senza amore, a cura di D. Perrone, 2004; Orlando in Brandeburgo. Romanzo di vita berlinese, a cura di I. Pupo, 2004; Banda municipale, introd. di M.G. Trobia - F. Falci, 2016.
La produzione drammaturgica è riunita nei tre volumi editi da Bulzoni per cura di R. Jacobbi, Teatro, I-III, Roma 1975-1976 (il primo ripresenta con integrazioni la raccolta di testi compresi tra il 1911 e il 1925, a cura di L. Ferrante, introduzione di F. Flora, Bologna 1962). L’editore Sciascia ne ha ristampato una serie, in realtà non esaustiva, a cura di A. Bisicchia, rispettivamente in Tutto il teatro. La dimensione europea, I, Caltanissetta 2008, e Tutto il teatro. Rosso di San Secondo e il teatro del colore, II, Caltanisetta 2009.
Fonti e Bibl.: Carteggi appartenenti a Rosso sono conservati in Roma, Biblioteca nazionale, Archivi Raccolte e Carteggi, mentre un fondo speciale a lui intestato si trova a Camaiore, presso la Biblioteca M. Rosi. Fra i convegni si ricordino almeno: Il teatro di R. di S. S., Atti della tavola rotonda, Grosseto… 1983, a cura di E. Ocello, Firenze 1985; P.M. R. di S. S. nella letteratura italiana ed europea del Novecento, Atti… 1987, a cura di M. Sedita Migliore, Caltanissetta 1989; R. di S. S. nella cultura italiana del Novecento, Atti… 1985, I-II, a cura di E. Bellingeri - A. Pellegrino, Roma 1990. Si vedano inoltre: G. Calendoli, Il teatro di R. di S. S., Roma 1957; L. Ferrante, R. di S. S., Bologna 1959; P. Chiarini, R. di S.S. e il teatro tedesco del Novecento, in Studi germanici, n.s., 1965, n. 1, pp. 90-117; n. 3, pp. 321-355; D. Giovanelli, La critica e R. di S. S., Bologna 1977; A. Barsotti, R. di S. S., Imola 1978; P. Puppa, La morte in scena: R. di S. S., Napoli 1986; F. Orsini, Il teatro espressionista di P. M. R. di S. S, I-II, Foggia 1995; A: Barbina, Elegie ad Amaranta: ricerche e documenti su R. di S. S., Roma 1998; F. Di Legami, Un viandante della notte. La narrativa di R. di S. S., Palermo 2000; R. Salsano, L’immagine e la smorfia. R. di S. S. e dintorni, Roma 2001; M.C. Uccellatore, Dall’urlo alla voce. Studi su R. di S. S., Acireale 2007; M.D. Pesce, Cose di carne. Il femminile nel teatro di R. di S. S., Spoleto 2011. Utile, da ultimo, C. Rotondo, P. R. di S.S. narratore e drammaturgo 1887-1956, Roma 2016.