DELLA TOSA, Rosso (Guidorosso detto Rossellino; Rossellino detto Rosso)
Nacque a Firenze.nel 1234 da Gottifredo ed Ermellina. Abile e spregiudicato uomo politico, fu tra gli esponenti di maggiore spicco di una nobile e antica famiglia, tradizionalmente legata alla famiglia guelfa e alla consorteria dei Visdomini, di cui i Della Tosa o Tosinghi costituivano un potentissimo ramo. Si distinse anche per le sue qualità d'uomo d'arme: nel 1260, come ufficiale dell'esercito, partecipò alla spedizione contro Siena, che si risolse con la sconfitta dei Fiorentini a Montaperti e con il conseguente avvento in Firenze di un regime ghibellino. Durante i sei anni in cui la sua città fu dominata dalla parte avversa, il D., e con lui i suoi più autorevoli familiari, fu costretto all'esilio a Lucca e, per il suo attaccamento alla causa guelfa, subì notevoli danni alle proprietà in città e nel contado. Nel 1269, quando si procedette alla stima dei danni procurati dai ghibellini ai beni dei guelfi, i Della Tosa risultarono una delle famiglie più colpite, ma anche più adeguatamente indennizzate. Su oltre 5.000 libre assegnate a titolo di risarcimento ai vari consorti, ben 1-150 spettarono al solo D., cui erano state danneggiate una casa e una torre in città presso il Mercato Vecchio, nel sesto di Porta Duomo, e un palazzo in contado, nel popolo di S. Maria a Quinto, in quella stessa località dove trent'anni più tardi sarà ricordato come proprietario di terre.
Sempre nel 1269 il D. venne candidato alla podesteria di Volterra; nel 1271 e nel 1274 fu podestà, rispettivamente, a San Gimignano e a Prato, dando inizio in tal modo ad una fortunata e duratura carriera che lo vide per molti anni al centro dei più importanti avvenimenti politici. Membro influente di quella ristretta élite che governò incontrastata Firenze fino al 1280, nel maggio del 1273 presenziò, con gli altri capi delle più potenti famiglie guelfe della città, al testamento del conte Alessandro Alberti, manifestando così quel tradizionale legame che univa la casa albertesca ai Della Tosa e che settant'anni prima aveva condotto l'avo del D., Catalano, a testimoniare nei più importanti atti del conte Alberto, padre di Alessandro.
Secondo le disposizioni contenute nel testamento, di notevole importanza anche dal punto di vista politico-militare, i castelli di Mangona nel Mugello e di Vernio e Montaguto nella Val di Bisenzio vennero affidati dagli Alberti alla protezione della Parte guelfa, consentendo in sostanza ai guelfi fiorentini un migliore controllo dei valichi appenninici verso la Romagna, dove si erano acquartierati i ghibellini.
Verso la fine dell'ottavo decennio del secolo si verificò in seno all'oligarchia guelfa una divisione, destinata a durare a lungo e foriera di ben più gravi discordie, tra i guelfi "moderati", più fedeli alla corte pontificia e guidati dagli Adimari e i guelfi "intransigenti", facenti capo alle famiglie dei Della Tosa, dei Donati e dei Pazzi e maggiormente legati alla politica di Carlo d'Angiò, che nel 1267,come paciere generale in Toscana, aveva restaurato il guelfismo a Firenze. Per porre fine a questi contrasti interni e consentire il rientro in patria dei ghibellini banditi dalla città nel 1268,il pontefice Niccolò III inviò a Firenze un suo legato, il cardinale Latino dei Frangipani, con il compito di ristabilirvi la pace e ridurre l'eccessiva ingerenza angioina. Gli atti di pacificazione tra guelfi e ghibellini, stipulati agli inizi del 1280, vennero preceduti dalla riconciliazione, rivelatasi in seguito del tutto effimera, tra gli Adimari e il gruppo dei Della Tosa, dei Donati e dei Pazzi.
Nei documenti relativi alla pace del cardinale Latino il D. compare in una quadruplice veste: come cavaliere "aureato" della Parte guelfa; come fideiussore, insieme con i principali esponenti guelfi, delle clausole della pace; come mallevadore in solido della nobiltà ghibellina; come membro, infine, della suprema magistratura dei Quattordici buoni homini - unica carica ufficiale a livello esecutivo che egli abbia ricoperto nella sua città durante la lunga carriera politica.
Nei venti anni successivi, com'era d'uso per una personalità di rango cavalleresco, il D. fu chiamato più volte alla carica di podestà in vari Comuni della Toscana e dell'Italia centrosettentrionale: a Reggio Emilia, nel 1280; a Volterra, tra il 1281 e il 1282; a Colle di Val d'Elsa, nel 1283; a Borgo Sansepolcro, tra il 1285 e il 1286; a Città di Castello, nel 1290; a Bologna, nel 1292; a Forlì, nel 1294; a Faenza, nel 1295; a Brescia, nel 1297. Nello stesso periodo, fino al 1293, continuò a prendere parte alle sedute dei Consigli fiorentini, intervenendovi soprattutto come savio o esperto su questioni di carattere militare e diplomatico. In questo ambito il ruolo del D. e degli altri eminenti personaggi della città, sempre più frequentemente designati con il nuovo termine di magnati, acquistò un rilievo notevole durante i conflitti che, dopo il 1288, coinvolsero le più importanti città della Toscana ed in particolare la guelfa Firenze e la ghibellina Arezzo. Come uomo d'arme il D. ebbe modo di distinguersi non solo in occasione della battaglia di Campaldino, l'11 giugno 1289, nella quale furono impegnati i più illustri nomi del guelfismo fiorentino e che si risolse con una sconfitta, non definitiva, degli Aretini; ma soprattutto nell'assedio di Anghiari, un anno più tardi. Nel 1290, mentre era podestà a Città di Castello, fu chiamato infatti - al fianco di Aimeric, visconte di Narbona, e di Gentile Buondelmonti - a comandare le truppe fiorentine che bloccarono per tre mesi e mezzo, espugnarono e distrussero quel caposaldo degli Aretini.
Nonostante fossero già da tempo in vigore alcuni provvedimenti antimagnatizi - nel 1281 e nel 1286 erano state emanate disposizioni sempre più restrittive sul sodamento, consistente in una promessa di tregua, cui erano sottoposti anno per anno i magnati, al fine di ridurre l'uso della guerra privata - le necessità dei conflitti in atto che reclamavano il ricorso a esperti uomini d'arme, e l'orgoglio per vittorie come quella di Campaldino accrebbero l'arroganza dei grandi della città. Lo stesso D., quale tipico esponente di un ceto che aveva come tratti distintivi la "grandigia", la "potenza" e la "tirannia", contribuì certamente, insieme con i suoi familiari, a turbare la quiete cittadina, se nel 1289 fu costretto a far pace con un membro della famiglia dei Rossi con cui da tempo doveva essere in lite; e se il Comune, nel 1290, dovette stanziare 2.000 libre per riconciliare i Della Tosa con il casato ghibellino dei Lamberti.
La perdurante abitudine dei magnati alla prepotenza e alla violenza e la loro ingerenza, ancora molto forte, nel governo della città, causarono altresì, agli inizi del 1293, la promulgazione degli ordinamenti di giustizia, che escludendoli di fatto dalla realtà del potere e da tutte le cariche pubbliche, rappresentavano la logica conclusione di un processo politico che si era iniziato nel 1282 con l'istituzione del priorato delle arti e che aveva sancito l'affermazione del ceto dei mercanti e degli artigiani alla guida del Comune. Tuttavia nemmeno le nuove e rigorose disposizioni legislative frenarono certi eccessi dei magnati, poiché subito dopo la promulgazione degli ordinamenti di giustizia alcuni Della Tosa, memori di antiche e mai sopite discordie, aggredirono sulla pubblica via, in pieno centro cittadino, un cavaliere, Gozzo Adimari, e suo figlio Filigno.
Esecutori materiali dell'agguato, furono tre familiari del D., Rossellino. Odaldo e Baldo; ma, come il successivo processo dimostrò, proprio il D., che aveva assistito a cavallo al fatto di sangue, era stato il principale istigatore del loro gesto delittuoso e come tale fu condannato.
Nel maggio del 1295 Della Tosa e Adimari conclusero un'altra inutile riconciliazione, ma ormai ben più gravi rivalità stavano per furiestare la vita cittadina. Pochi mesi prima, componendo temporaneamente le loro inimicizie i magnati erano riusciti, grazie anche all'aiuto esterno di papa Bonifacio VIII e all'appoggio interno di elementi Popolari a loro vicini - come quel Dino Pecora, il protetto dei Della Tosa detto "il gran beccaio" per la sua attività di commerciante di carni -, ad esiliare pretestuosamente Giano Della Bella, liberandosi così dell'ingombrante presenza di colui che era stato il vero fautore degli ordinamenti di giustizia e il più convinto sostenitore del governo popolare. Tuttavia la tregua tra i magnati non solo non sortì alcun mutamento istituzionale, ma ebbe comunque breve durata, poiché ben presto si creò in seno alla Parte guelfa una nuova frattura che in parte ricalcava l'antica divisione tra "intransigenti" e "moderati", associando pero ad essa sia ragioni economiche - collegate alla clientela pontificia, ambita da molti banchieri fiorentini -, sia motivazioni di carattere sociale che contrapponevano elementi magnatizi dalle antiche tradizioni, come i Donati, alla "gente nova dai subiti guadagni", come i Cerchi. Le due fazioni - che sul modello di una analoga scissione verificatasi poco prima tra i guelfi pistoiesi avrebbero preso il nome di "bianca" e "nera" - provocarono divisioni tanto profonde da contrapporre tra loro anche membri di uno stesso gruppo familiare, come avvenne tra i Della Tosa.
Alla parte nera capeggiata da Corso Donati - il quale aveva avuto una parte di rilievo nella cacciata di Giano Della Bella ed era molto legato a Bonifacio VIII - aderì, assieme col fratello Arrigo e con altri consorti, anche il D., che si mise subito in luce come una delle figure di maggiore rilievo e più incline alla violenza. Con i bianchi, che avevano il loro esponente in Vieri dei Cerchi, si schierarono invece altri suoi familiari, come Biligiardo, Baldo e Baschiera Della Tosa - quest'ultimo proprio in odio al D., che aveva sempre cercato di tenerlo ai margini della vita pubblica, usurpandogli anche legittimi diritti ereditari -. I sanguinosi incidenti verificatisi fra giovani delle opposte fazioni la sera di calendimaggio del 1300 fecero precipitare la situazione interna della città.
Il 23 giugno, giorno della vigilia di S. Giovanni patrono di Firenze, i grandi, uniti per l'occasione contro il popolo, osarono assalire i Priori, rivendicando i meriti militari della propria casta e la parte avuta nella vittoria di Campaldino. I Priori, tra i quali si trovava in quel periodo anche Danfe e che appartenevano alla parte bianca, ritennero allora opportuno esiliare gli elementi più turbolenti delle due fazioni. I bianchi condannati in tal modo al confino - tra di loro si trovava anche Baschiera Della Tosa - obbedirono subito alle disposizioni del governo e nel giro di poche settimane poterono rientrare in città dopo un breve esilio a Sarzana.
Il D. - e come lui fecero gli altri esponenti di parte nera, tra cui il nipote Rossellino, figlio di suo fratello Arrigo - in un primo momento si rifiutò di partire: solo dopo le minacce di più gravi sanzioni accettò di recarsi al confino a Castel della Pieve (oggi Città della Pieve, in Umbria), dove rimase per un anno intero. Nel giugno del 1301, comunque, si trovava di nuovo a Firenze dove partecipò, nella chiesa di S. Trinita, ad un convegno segreto convocato da Corso Donati per discutere i metodi di lotta contro il governo dei bianchi.
Il convegno di S. Trinita (che secondo il Davidsohn, Storia di Firenze, IV, p. 151, si sarebbe tenuto invece una settimana dopo il calendimaggio del 1300 e avrebbe avuto come conseguenza diretta i confinamenti di Sarzana e Castel della Pieve) ebbe l'unico risultato di causare ulteriori provvedimenti contro i neri, che furono costretti a rimanere lontani dalla città ancora per qualche mese. Solo con l'arrivo di Carlo di Valois, il fratello dei re di Francia inviato da Bonifacio VIII che da tempo mirava ad impadronirsi di Firenze, la situazione volse a favore dei seguaci di Corso Donati. Entrato in città il giorno di Ognissanti del 1301 con quella stessa carica di paciere generale in Toscana che trentaquattro anni prima aveva ricoperto il prozio Carlo d'Angiò, il Valois favorì con ogni mezzo la parte nera, consentendo il rientro in città di Corso Donati e degli altri capiparte. Dopo una ambigua proposta di pacificazione con i bianchi avanzata, tra gli altri, dallo stesso D. nei confronti di Baschiera, i neri si scatenarono per diversi giorni contro le famiglie di parte bianca in ogni sorta di violenza.
Durante i disordini cittadini, cui partecipò attivamente con i consorti di parte nera, il D. dovette fronteggiare un tentativo di assalto alla propria casa compiuto da Baschiera, unico tra i bianchi che avesse allora cercato di opporsi con le armi alla dilagante violenza della fazione avversa. Una masnada assoldata dai Tosinghi di parte nera si mise in evidenza invece per l'assalto e il saccheggio delle case dei propri vicini, i ghibellini Strinati, con i quali era stata conclusa nel 1267 una delle tante e inefficaci riconciliazioni cittadine. Contro gli Strinati il D. si accanì anche dopo il trionfo della propria fazione, quando, abusando della sua carica di ufficiale sopra i ribelli, insieme col fratello Arrigo fece distruggere alcune loro case in città e la loro villa di Scandiccì dalla quale fece asportare, appropriandosene, ogni cosa d'un qualche valore.
Nell'aprile del 1302, dopo la partenza di Carlo di Valois e l'esilio dei principali esponenti bianchi, il governo di Firenze rimase in mano ad una élite di magnati neri, nella quale il D. primeggiava assieme con Corso Donati - anche se l'accesso alle massime cariche del Comune, in forza dei mai aboliti ordinamenti di giustizia, sarebbe stato consentito soltanto ai membri della borghesia mercantile iscritti alle arti -. D'altro canto, nell'estate del 1303, al ritorno da una delle numerose spedizioni contro i bianchi, cominciò a palesarsi in seno alla fazione nera una ulteriore divisione che oppose tra loro i due personaggi più illustri e ambiziosi: Corso Donati, che si considerava il vero trionfatore sui bianchi, ma che non si riteneva sufficientemente onorato per i suoi meriti; e il D., che, sebbene settantenne, era sospettato di ambire al governo della città "a guisa de' signori di Lombardia" (Compagni, Cronica, III, cap. 2).
Con Corso - il quale in odio al popolo grasso e al D., che appunto al popolo grasso si appoggiava, cercava demagogicamente il favore del popolo minuto promuovendo provvedimenti contro le irregolarità commesse dai ricchi popolani nell'amministrazione del Comune -, si schierarono più di trenta grandi famiglie, tra cui gli stessi Della Tosa di parte bianca, come il vescovo di Firenze Lottieri e suo nipote Baldo. Il D. si serviva, dal canto suo, di elementi del popolo grasso, che egli usava, secondo l'espressione di Dino Compagni (ibid.), come "tanaglie per pigliare il ferro caldo" facendo attaccare il Donati nei Consigli cittadini.
Il 4 febbr. 1304 le rivalità tra la "parte del vescovo" e la "parte del popolo" sfociarono nella lotta armata. Corso Donati diede l'assalto al nuovissimo palazzo dei Priori, che era difeso dal D. e dai suoi seguaci, tentando di appiccarvi il fuoco. Seguirono scontri sanguinosi che si protrassero per giorni senza che nessuna delle due parti riuscisse a prevalere. In questa incandescente congiuntura, il 10 marzo giunse in città il cardinale Niccolò da Prato, nuovo legato pontificio -"segretamente domandato da' Bianchi e ghibellini di Firenze" (ibid., III, cap.4) - inviato da Benedetto XI, il papa da pochi mesi succeduto a Bonifacio VIII.
Suo scopo era quello di porre fine, una volta per sempre, a tutte le discordie cittadine, comprese quelle, originarie, tra guelfi e ghibellini. Inizialmente il prelato sembrò riuscire nell'intento, riconciliando innanzitutto il D. con il vescovo Lottieri, sebbene quest'ultimo avesse fatto assaltare le case del primo durante gli scontri del febbraio. Nell'aprile altre paci tra famiglie rivali furono concluse, ma a questo punto ai magnati neri sembrò che la riappacificazione generale travalicasse le loro reali intenzioni e minacciasse il loro potere in città. Mettendo da parte temporaneamente gli odi e i rancori personali, il D., Corso Donati e gli altri capi dei neri cominciarono ad ostacolare con l'intrigo l'azione riconciliatrice del cardinale, dapprima convincendolo della necessità di pacificare anche la vicina Pistoia e allontanandolo con tale pretesto da Firenze, quindi aizzandogli contro la natia Prato. Siffatti maneggi provocarono l'ira e la reazione sdegnata di Benedetto XI, che alla fine di maggio richiamò i Fiorentini, con la minaccia di interdetto, ai loro doveri nei confronti del cardinale paciere.
Tornato a Firenze e rinfrancato dall'ammonimento pontificio, Niccolò da Prato convocò in città una delegazione costituita da dodici tra i capi dei bianchi e dei ghibellini fuorusciti: essa avrebbe dovuto discutere i termini di un accordo generale con una delegazione analoga per numero, formata dai capi dei neri. Fra i bianchi spiccava ancora una volta l'antico rivale del D., Baschiera, che onorò il vecchio parente e gli espresse il proprio desiderio di riconciliazione. Ma i neri erano ormai sempre più intenzionati a far fallire la pace ed ebbero buon gioco nello sfruttare l'atteggiamento esitante della famiglia dei Cavalcanti. Questi infatti, pur essendo molto favorevoli alla pace, anche per odio contro il D. e contro i neri che avevano mandato a morte il loro congiunto Masino nel gennaio del 1303, si erano rifiutati di cedere ai bianchi e ghibellini le proprie case, da dove la delegazione dei fuorusciti contava di continuare le trattative, in posizione di più sicura difesa. Vista la piega sfavorevole degli avvenimenti e i nuovi tumulti suscitati dai neri, l'8 giugno i dodici capi dei bianchi e dei ghibellini facenti parte della delegazione preferirono abbandonare la città, seguiti due giorni dopo dallo stesso cardinale legato, che lasciò segretamente Firenze, proclamandovi l'interdetto. La fazione nera, di nuovo padrona della città, si vendicò dei Cavalcanti scatenando contro di loro e contro altri grandi famiglie di parte bianca un'altra feroce serie di violenze, alle quali il D., come era suo costume, prese parte attiva.
Durante i disordini, infatti, egli si distinse contribuendo ad appiccare il fuoco alle ricche botteghe e ai fondaci di via Calimala, i cui alti fitti costituivano per i Cavalcanti la principale fonte di guadagno. L'incendio, propagatosi per tutto il centro cittadino, ridusse in cenere quasi tutto il quartiere di Mercato Vecchio e circa un decimo di tutti gli edifici cittadini. A causa di tali luttuosi avvenimenti il D. fu convocato a Perugia da Benedetto XI, adiratissimo per i misfatti dei neri: dinnanzi a lui avrebbe dovuto rispondere dei delitti compiuti insieme con altre undici personalità di parte nera -tra cui lo stesso Rossellino Della Tosa, nipote del D. - che il papa riteneva essere gli effettivi promotori dei moti e i responsabili del fallimento della missione di Niccolò da Prato. I dodici inquisiti, per dimostrare un'obbedienza almeno formale, si recarono dal pontefice, ma nel farlo vollero ostentare anche tutta la loro potenza ed arroganza: si presentarono infatti a Perugia accompagnati da una forte scorta di centocinquanta seguaci a cavallo. Né il D., né i suoi colleghi vennero comunque processati: Benedetto XI morì infatti prematuramente, il 7 luglio 1304. La scomparsa, misteriosa nelle sue cause e improvvisa, fece sospettare una responsabilità diretta del D. e degli altri capi di parte nera.
Dopo l'ultimo, disperato tentativo di riconquistare il potere a Firenze, messo in atto da un gruppo di fuorusciti bianchi e ghibellini e fallito miseramente il 20 luglio a La Lastra, nei pressi della città, il D., ormai in posizione di assoluta preminenza, insieme con i cavalieri Betto Brunelleschi, Geri Spini, Pazzino de' Pazzi e Bernardo dei Rossi, fece parte di quel ristretto gruppo di persone che, dietro la facciata del priorato delle arti, si insediò stabilmente al potere e diresse per alcuni anni la Repubblica fiorentina, anche attraverso la Parte guelfa, con una sagacia pari solo alla mancanza di scrupoli, attuando per quanto possibile una politica tipicamente magnatizia, da un lato cercando di sminuire il ruolo delle arti minori, mal sopportate anche dal popolo grasso, dall'altro promuovendo una serie di spedizioni militari contro le roccaforti della fazione avversa. All'interno della pur ristretta oligarchia dominante rimasero comunque perenni contrasti alimentati, come sempre, da Corso Donati, che venne tenuto in disparte dagli altri capi neri. Proprio motivandolo con la necessità di difendersi da possibili attentati, il D. ottenne più volte, tra il 1304 e il 1306, il privilegio di farsi accompagnare da una scorta di sei armati. Ogni tanto una pace tra grandi famiglie, come quella conclusa dal D. e altri quindici suoi familiari con gli odiati Cavalcanti nel settembre del 1307, sembrava allentare la tensione cittadina, ma la catena di rancori era troppo forte e antica per essere eliminata del tutto. Nell'ottobre del 1308 si chiuse invece la partita tra Corso Donati ed i suoi avversari all'interno della stessa fazione. Il D. con gli altri oligarchi, seppe abilmente prevenire una congiu ra preparata da tempo dal Donati, che, processato, fu condannato a morte e ucciso durante un tentativo di fuga.
Ma l'uomo che poteva ormai considerarsi il più potente della città, colui che da oltre un quarantennio era al centro degli avvenimenti politici, sopravvisse a Corso di pochi mesi. Il D. morì infatti l'11 luglio 1309, a Firenze, per una caduta accidentale, all'età di settantacinque anni.
Lasciava quattro figli - Simone, Gottifredo, Ranieri e Giovanni -, avuti dalla moglie Orrabile. Il suo corpo fu sepolto con grandi onoranze; alla cerimonia parteciparono anche rappresentanze di altri Comuni guelfi. In considerazione dei servizi dal D. resi alla patria, per deliberazione consiliare due dei suoi figli, Simone e Gottifredo e un altro parente, Pino detto Pinuccio, furono armati "cavalieri del popolo" (ma vennero subito soprannominati per scherno dai Fiorentini "cavalieri dei filatoio", perché gli onori che le autorità avevano tributato al padre erano stati pagati in parte con i proventi derivanti dalle tassazioni imposte alle filatrici).
È probabilmente da individuarsi nel D. il personaggio ricordato dal Sacchetti (Il Trecentonovelle, nov. 126), quel Rossellino divenuto padre, più volte, in età avanzata, che seppe ribattere con arguzia agli offensivi dubbi sulla sua paternità avanzati da Bonifacio VIII.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Capitoli, XXIX, cc. 335r, 342v; Ibid., Diplomatico, Ss. Annunziata, 1° febbr. 1264; Ibid., Notarile, Attaviano di Chiaro, c. 30v; Ibid., Diplomatico, Adespote, 18 marzo 1294; Ibid., Provvisioni, XIII, c. 129r; Firenze, Bibl. Riccardiana, Manoscritti Lami, XXXVI, p. III, c. 1; D. Compagni, Cronica delle cose occor. ne' tempi suoi, in Rer. Ital. Script., 2 ed., IX, 2, a cura di I. Dei Lungo, ad Indicem; Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, ibid., XXX, 1, a cura di N. Rodolico, p. 92; S. Della Tosa, Annali, in Cronichette antiche di variscrittori..., a cura di D. M. Manni, Firenze 1733, pp. 158 s.; N. Strinati, Cronichetta, Firenze 1753, pp. 116 s.; P. Pieri, Cronica delle cose d'Italia dall'anno 1080 all'anno 1305, Roma 1755, p. 68; G. Villani, Cronica, a cura di A. Racheli, Trieste 1857, pp. 185, 201 s., 216; Il libro di Montaperti, a cura di C. Paoli, Firenze 1889, p. 3; Le Consulte della Repubblica fiorentina, a cura di A. Gherardi, Firenze 1896-98, ad Indicem; Cronichetta ined. della prima metà del sec. XIV, in P. Santini, Quesiti e ricerche di storiografia fiorentina, Firenze 1903, p. 123; Consigli della Repubblica fiorentina, a cura di B. Barbadoro, Bologna 1921-1930, ad Indicem; Docum. delle relazioni tra Carlo I d'Angiò e la Toscana, a cura di S. Terlizzi, Firenze 1950, pp. 64, 66; Liber extimationum, a cura di O. Brattö, Göteborg 1956, pp. 80, 89; F. Sacchetti, Il Trecentonovelle, a cura di E. Faccioli, Torino 1970, p. 329; G. Lami, S. Ecclesiae Florentinae monumenta, II, Florentiae 1758, pp. 1022 s.; Delizie degli eruditi toscani, IX (1777), pp. 83, 94, 104; I. Del Lungo, Dino Compagni e la sua Cronica, Firenze 1879-1880, ad Indicem; R. Davidsohn, Forschungen zur Gesch. von Florenz, II, Berlin 1900, pp. 173, 175; III, ibid. 1901, p. 286; IV, ibid. 1908, ad Indicem; P. Villari, I primi due secoli della storia di Firenze, Firenze s.a., ad Indicem; G. Masi, La struttura sociale delle fazioni politiche fior. ai tempi di Dante, in Giornale dantesco, XXXI (1928), pp. 25 ss.; Id., I banchieri fiorentini nella politica della città sulla fine del Dugento, in Archivio giuridico, CV (1931), p. 11 s.; R. Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze 1956-1965, ad Indicem; N, Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento, Torino 1962, pp. 9 n., 158 n., 174 n.; G. Salvernini, La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze e altri scritti, Milano 1972, p. 170; S. Raveggi-M. Tarassi-D. Medici-P. Parenti, Ghibellini guelfi e popolo grasso..., Firenze 1978, pp. 113 n., 169 n., 320 n.; I. Lori Sanfilippo, La pace del cardinale Latino a Firenze nel 1280..., in Bull. dell'Ist. storico it. per il Medio Evo e Arch. muratoriano, LXXXIX (1980-1981), pp. 241, 252-55.