ROMEO, Rosario
– Nacque l’11 ottobre 1924 a Giarre (Catania), da Salvatore, notaio, e da Teresa Patanè.
Presa la maturità presso il liceo di Acireale, si iscrisse nel 1942 alla facoltà di scienze politiche dell’Università di Roma. Mostrava già uno spiccato interesse per la storia, e alla Sapienza ebbe modo di seguire Gioacchino Volpe. L’anno dopo, a causa del precipitare degli eventi bellici, continuò gli studi a Catania. Qui, nel febbraio del 1945, guidato da Nino Valeri, iniziò lo studio del Risorgimento siciliano, laureandosi nell’autunno del 1947 con una tesi di cui fu relatore Matteo Gaudioso. Poche settimane più tardi, presentato dallo stesso Valeri come il miglior alunno che gli fosse mai capitato (Archivio IISS), ottenne una borsa di studio presso l’Istituto italiano per gli studi storici, a Napoli.
Benedetto Croce aveva fondato l’Istituto nel 1946, con l’intento di superare l’eredità culturale del fascismo, che aveva lasciato dietro di sé, come egli stesso aveva scritto nel 1944, «una gioventù non educata o mal educata» (Taccuini di lavoro, V, 1944-1945, 1987, p. 148). Alla fine della guerra, avrebbe ricordato molti anni dopo l’antichista Marcello Gigante – allievo dell’Istituto nel 1947-48 – in una testimonianza resa a Frédéric Attal, «noi eravamo tutti [...] senza una bussola» (cit. in L’Institut Croce, la revue “Nord e Sud” et la diplomatie culturelle des fondations américaines, 1946-1964. Histoire, sciences sociales et ‘guerre froide culturelle’ dans le Mezzogiorno italien, in Storiografia, XIV (2010), p. 39). Per un’intera generazione, palazzo Filomarino fu quella bussola. Croce la volle non ideologica e non esclusiva. Sebbene storicismo e liberalismo la facessero da padroni, non pochi furono, per esempio, i borsisti di formazione marxista. L’Istituto, del resto, era la creatura dell’anziano filosofo, ma anche il regno di Federico Chabod, che lo diresse fino al 1960, l’anno della sua morte. E Chabod non fu un cultore passivo del crocianesimo. Aveva debiti intellettuali con Volpe e con Gaetano Salvemini, era diffidente nei confronti delle storie generali, insisteva sull’importanza del momento dell’analisi e della scelta delle fonti, teneva in conto la dimensione economica del passato. E il suo rapporto con i giovani borsisti fu intenso, quotidiano, maieutico. L’Istituto stava diventando il vivaio della storiografia postfascista.
Nei suoi locali, Romeo poté incontrare una schiera di giovani che andava da Vittorio De Caprariis a Ettore Lepore, Cinzio Violante, Giuliano Procacci, Pasquale Villani, Giuseppe Giarrizzo, Girolamo Arnaldi, Giuseppe Galasso, Sergio Bertelli, Brunello Vigezzi. E altri se ne potrebbero citare. Lo studioso siciliano si immerse fruttuosamente in quella comunità. Il 18 febbraio 1953, scrivendo al banchiere e finanziatore Raffaele Mattioli, Chabod avrebbe detto che, di tutti i borsisti seguiti negli anni, «due o tre si distaccano decisamente dagli altri, non solo per capacità scientifica, ma […] perché ‘sentono’ di più l’Istituto, si immedesimano meglio con esso, con il suo spirito», e il primo nome che fece fu quello di Romeo (cit. in G. Sasso, Sulla genesi dell’Istituto. La ricerca del primo direttore, in L’Istituto italiano per gli studi storici nei suoi primi cinquant’anni, 1946-1996, a cura di M. Herling, 1996, p. 63). A Napoli il giovane visse fino al 1950, e vi tornò poi dal 1953 al 1956, in qualità di segretario dell’Istituto, dopo aver trascorso un triennio a Roma come redattore del Dizionario biografico degli Italiani. Nel 1956, vinto un concorso a cattedra di storia del Risorgimento, fu chiamato a ricoprirne l’insegnamento dal Magistero dell’Università di Messina, dove trovò tra i colleghi Giorgio Spini, Luigi Firpo e Ruggero Moscati.
Frattanto, ebbe modo di farsi conoscere dalla comunità scientifica. Nel 1950 – all’età di venticinque anni –, concludendo gli studi iniziati per la tesi di laurea, aveva pubblicato presso l’editore Laterza di Bari Il Risorgimento in Sicilia. La sua opera prima e, subito, la prova di una sorprendente vivacità intellettuale. «Un grande classico», avrebbe affermato molti anni dopo Giarrizzo, «il più bel libro che Romeo abbia scritto» (in Rosario Romeo e “Il Risorgimento in Sicilia”, 2002, p. 14).
Nel clima del separatismo isolano, riemerso all’indomani dello sbarco alleato del 1943, il giovane studioso aveva inteso collocare all’interno dell’Italia e dell’Europa la storia della Sicilia tra Settecento e 1860. Ne aveva ricostruito la triangolazione fra aristocrazia locale, monarchia borbonica e una società segnata dall’arretratezza del contadiname e, per altro, dai germi di una vivace élite agraria, presente soprattutto nell’area etnea. Non il crociano ceto colto, che nell’isola appariva debole, ma una moderna borghesia la quale s’insinuava nella crisi del baronaggio e, con il 1848, si collocava nell’alveo del liberalismo moderato. Della Sicilia, grazie a una quantità di archivi privati e notarili, Romeo era in grado di illustrare il regime fondiario, le scelte agronomiche, la trama della società. Un vero e proprio cantiere di storia strutturale, che, ai tempi, apparve fortemente innovativo e perciò problematico. Panfilo Gentile giudicò il libro influenzato dal marxismo, stroncandolo (Il “Risorgimento in Sicilia”, in Il Mondo, 3 gennaio 1951, p. 8). Carlo Antoni, in una lettera a Croce del 29 gennaio 1951, affermò di avervi notato un’eccessiva vicinanza alla storiografia economica (in Carteggio Croce-Antoni, a cura di M. Mustè, 1996, p. 132); anche Ernesto Sestan, fece rilevare, era rimasto perplesso. Era stato proprio Croce, in una lettera ad Antoni scritta quattro giorni prima, il 25, a difendere il giovane Romeo, parlando di «un’ottima trattazione del problema siciliano» (p. 129). L’analisi dei fenomeni economici, del resto, nulla toglieva alla convinzione di Romeo che fosse comunque la politica – le scelte politiche – a governare una struttura sociale.
Fin dagli inizi, lo studioso mostrava un profilo intellettuale ricco, non facile da schematizzare. Walter Maturi – nel corso di lezioni tenuto all’Università di Torino nel 1959-60 – lo collocò «tra Croce e Marx» (cit. in Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, 1962, p. 665); Galasso (1995, p. 15) tra Croce e Volpe, ma senza dimenticare Antonio Gramsci. Di Volpe, dice Guido Pescosolido (1990, p. 6), Romeo fu «l’unico autentico allievo». Ne aveva ammirato giovanissimo il Medioevo italiano (1923), poi l’aveva ascoltato alla Sapienza, e si era formato sulle letture che lo storico abruzzese gli consigliava, come il vasto affresco di Werner Sombart Der moderne Kapitalismus (I-II, 1902). Volpe, avrebbe detto Romeo in un’intervista di molti anni dopo, era in grado di coniugare «nel quadro generale della cultura idealistica [...] non solo l’analisi dei fatti e delle idee ma anche un’immagine della società nel suo insieme», pervenendo a «una forma così compatta di descrizione storica» quale «nessuno in Italia e forse anche altrove raggiunse» (Andiamo ancora a lezione da Cavour, intervista a Giuseppe Dall’Ongaro, in Il Settimanale, 29 giugno 1977, cit. in Pescosolido, 1990, p. 6). Un giudizio forte. Da Volpe, sul piano metodico, Romeo derivò l’approccio realistico e l’interesse per una storia sociale ben innervata nella storia politica.
L’altra stella polare fu Croce. Come avrebbe ricordato Romeo nell’intervista prima citata: «Croce era tutto: non solo un maestro di storia, ma un maestro di cultura nel senso più ampio, quale raramente è dato incontrare nella storia di un Paese» (p. 9). E il filosofo lo apprezzava: «è un giovane carissimo e serissimo, da me molto stimato», aveva scritto nella sopra citata lettera ad Antoni del 25 gennaio 1951 (in Carteggio Croce-Antoni, cit., p. 129). Di Croce, Romeo tenne sempre fermi il liberalismo, la dimensione etico-politica, l’umanesimo storicista, lo studio del passato per intendere il presente. Sebbene tra i due non fossero poche le valutazioni storiche divergenti – un giudizio più articolato sull’Italia liberale, una lettura critica del giolittismo, una dissociazione meno netta tra età liberale e fascismo –, la filiazione è indubitabile. Naturalmente, con tutti i distinguo che rendono fecondo il rapporto tra padri e figli. Erano ascendenze complesse, quelle romeiane, e lui seppe calarle nel proprio contesto culturale e politico, rielaborandole. «Farà fruttare il meglio e di Salvemini e di Volpe», scrisse Delio Cantimori, «ma sarà un’altra cosa [perchè Romeo] non è successore di nessuno, è autonomo intellettualmente» (Prefazione a L. Febvre, Studi su Riforma e Rinascimento, 1966, p. XXIX).
Il giovane siciliano, peraltro, non si accontentava di Clio. O meglio concepiva la storia come intrecciata profondamente alla contemporaneità politica. Spostandosi tra Napoli e Roma, partecipò alla vita culturale delle piccole, ma influenti formazioni di matrice liberale, segmenti del filone azionista, repubblicani, radicali, in seguito socialisti democratici. Frequentò Francesco Compagna e il gruppo di Nord e Sud, periodico nato nel 1954 e destinato a essere voce autorevole del dibattito pubblico.
Appartenne a un giovane meridionalismo liberale che in quegli anni costruiva qualificate reti intellettuali, rapporti con la stampa e la politica, legami con riviste come lo Spettatore italiano di Raimondo Craveri, il bolognese Mulino, il Mondo di Mario Pannunzio, il Tempo presente di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte. E che talvolta godeva delle risorse delle grandi fondazioni statunitensi, come la Rockefeller e la Ford. Il confronto tra cultura liberale e cultura marxista stava diventando un tassello della guerra fredda. Romeo fu esponente di spicco di quest’area neoliberale, che univa «all’antifascismo maturato negli anni della dittatura un vivace e costante anticomunismo, di carattere politico e culturale» (Pertici, 2003, p. 321).
E su Nord e Sud pubblicò nel 1956 La storiografia politica marxista (II, 21, pp. 5-37, e 22, pp. 16-44), un aspro attacco alla cultura storica vicina al Partito comunista italiano (PCI), e nel 1958 Problemi dello sviluppo capitalistico in Italia dal 1861 al 1887 (IV, 44, pp. 7-60, e 45, pp. 23-57), critica serrata alla lettura gramsciana del Risorgimento e dello Stato liberale. I due articoli furono poi raccolti nel 1959 nel volume Risorgimento e capitalismo, pubblicato da Laterza. Ha scritto Roberto Pertici (2003): «Gli esponenti [neoliberali] più combattivi non si limitarono a un’azione in qualche modo ‘difensiva’ di una tradizione di pensiero, ma cercarono di imporre temi e problemi nuovi alla stessa cultura avversaria: gli esempi più brillanti di questa azione antiegemonica furono [...] i saggi di Rosario Romeo, [...] che segnarono una svolta nel dibattito storiografico e imposero un terreno nuovo di confronto agli stessi storici marxisti» (p. 323).
Nell’articolo del 1956, il giovane siciliano prendeva di petto gli studiosi di area comunista, sebbene non pochi fossero, come disse lui stesso, suoi amici. Fu durissimo con i saggi di Giuliano Procacci sull’antico regime francese, accusati di «pesante dottrinarismo» e «asserzioni destituite di qualsiasi prova» (in Risorgimento e capitalismo, cit., pp. 15 s.). Stigmatizzò la «mancanza di ricerche originali» e le semplificazioni del Capitalismo nelle campagne (1947) di Emilio Sereni (p. 20). Rimproverò a Giorgio Candeloro la lettura in chiave classista del movimento cattolico (pp. 71 ss.). E così via. Ma fu impietoso soprattutto sulle motivazioni che a suo parere guidavano gli intellettuali della sinistra. «Se all’origine di molte adesioni al marxismo sono stati i successi politici del Partito comunista», scrisse all’indomani del drammatico 1956, «l’abbandono del Partito e dello stesso marxismo da parte di un gran numero di intellettuali [...] al quale abbiamo di recente assistito è anch’esso dipeso essenzialmente da fatti politici, che hanno indotto per la prima volta a dubitare della validità di formule ripetute per anni con cieca fiducia. Ora, per quanto rispettabile sia stato il travaglio interiore che ha condotto molti studiosi all’abbandono delle file comuniste […], noi non possiamo rassegnarci ad ammettere di dover cambiare la nostra visione della storia d’Italia ad ogni rivolta ungherese» (pp. 89 s.).
Nel secondo articolo, confutando l’interpretazione gramsciana del Risorgimento, Romeo sfidò gli studiosi marxisti sul loro stesso terreno dell’analisi economica e sociale. Grazie a un ampio riferimento alla letteratura internazionale (Simon Kuznets, Arthur Lewis, Ragnar Nurske, Joan Robinson ecc.) e a molto materiale documentario, negò la tesi di un’unificazione compromessa dall’egemonia moderata e dal mancato coinvolgimento delle masse contadine. L’applicazione al caso italiano del modello rivoluzionario francese, argomentò Romeo, avrebbe impedito quel processo di accumulazione capitalistica che si era verificato proprio in grazia del sacrificio delle campagne e del trasferimento di risorse dal settore agricolo a quello manifatturiero. Un trasferimento mediato dai governi liberali attraverso la leva fiscale, che aveva permesso di dotare il Paese delle infrastrutture indispensabili per la futura industrializzazione.
Risorgimento e capitalismo – al quale fece seguito una Breve storia della grande industria in Italia, 1861-1961 (1963) – ebbe larga risonanza, provocando un dibattito sulla storia economica italiana che per circa vent’anni vide cimentarsi studiosi come Luciano Cafagna, Alexander Gerschenkron, Giorgio Mori, Franco Bonelli. E che confrontò dati empirici e ricerche concrete, liberandosi dalle ipoteche ideologiche iniziali. Romeo aveva sconfitto sul campo quanti avevano letto la storia d’Italia – così avrebbe scritto molti anni dopo – come «storia di una classe dirigente reazionaria, esclusivamente preoccupata di sbarrare, e con successo, il cammino del paese sulla via della modernità e del progresso» (Potere, classi sociali, sviluppo economico, in L’Italia unita nella storiografia del secondo dopoguerra, a cura di N. Tranfaglia, 1980, p. 294). L’attacco al gramscismo, del resto, era avvenuto quando all’interno della stessa cultura comunista stavano montando diffuse insoddisfazioni verso la storiografia marxista emersa dopo il fascismo. Ne prese le distanze l’autorevole Cantimori. Espresse dubbi lo stesso Palmiro Togliatti.
Ma gli anni Cinquanta sono importanti, nella vicenda romeiana, per un altro motivo. Nel 1955, su indicazione di Chabod, l’associazione Famija piemontèisa gli chiese una biografia di Camillo Benso conte di Cavour. Anni dopo, nella prefazione all’opera, Romeo si compiacerà che la scelta di Famija piemontèisa e del valdostano Chabod fosse caduta su uno studioso siciliano: «manifestazione, piccola quanto si vuole, della vivente realtà in cui si è tradotta l’opera di colui che proclamò Roma capitale acclamata dagli italiani» (Cavour e il suo tempo, I, 1969, p. IX). Il progetto cavouriano, d’altronde, dava ulteriore spessore ai suoi precedenti interessi di studio, permettendogli di toccare con mano i grandi processi politici, geopolitici e strutturali che avevano segnato la storia italiana ed europea nel XIX secolo. Certo è che Romeo aprì un cantiere al quale avrebbe lavorato per trent’anni. Le quasi 2700 pagine di Cavour e il suo tempo furono pubblicate da Laterza in tre volumi, il primo (dedicato al 1810-42) nel 1969, il secondo (1842-54) nel 1977, il terzo (1854-61) nel 1984. Avevano preceduto l’opus magnum due scritti di chiara influenza chabodiana come Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento (in Rivista storica italiana, LXV (1953), 3, pp. 326-379) e La signoria dell’abate di Sant’Ambrogio di Milano sul comune rurale di Origgio nel secolo XIII (in Rivista storica italiana, LXIX (1957), 3, pp. 340-377, e 4, pp. 473-507) e un saggio ben intrecciato ai suoi interessi risorgimentisti, Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale (1963).
Oltre agli scritti editi dello stesso Cavour, ai volumi a stampa delle relazioni diplomatiche europee e alla pubblicistica coeva, la biografia utilizza un’imponente documentazione archivistica che va dall’archivio della famiglia Cavour a Santena alle serie dell’Archivio di Stato di Torino, dell’Archivio centrale di Roma, dell’archivio del ministero degli Affari esteri francese, dello Staatsarchiv di Vienna, dei vari musei del Risorgimento e via dicendo. È grazie a questa straordinaria ampiezza di fonti che Romeo fu in grado di costruire un quadro interpretativo capace di mantenere la sua rilevanza a decenni dalla pubblicazione. L’opera, del resto, oltrepassa continuamente la dimensione biografica, intrecciando e moltiplicando piani ermeneutici, contesti territoriali, generi storiografici.
È storia di famiglia. Illustra le parentele, le scelte professionali, i network privati e pubblici che, grazie anche al ramo materno del conte, innervano i Cavour nel cuore dell’Europa liberale. Ricostruisce le vicende di un ragguardevole patrimonio privato, la sua struttura, i criteri di gestione, la specifica esperienza del manager Camillo, diventando un case study delle classi dirigenti italiane tra modernizzazione civile e trasformazione politica. Ed è, non di meno, storia di un’economia regionale. Del Piemonte primo-ottocentesco, Romeo descrive realtà produttive, distribuzione della ricchezza, regime fondiario, reti commerciali, fenomeni associativi. Strutture di mercato, società e politica si mescolano, spiegando il senso delle politiche pubbliche in materia economica e sociale e il loro dispiegarsi tra ‘esperimento liberista’, ‘ripresa conservatrice’ e ‘controffensiva liberale’. E il Piemonte del giovane ministro Cavour è sempre collocato all’interno del suo contesto internazionale. L’opera è anche storia d’Europa, delle sue dinamiche diplomatiche, del suo pensiero politico, di un liberalismo che si afferma in un ambiente postnapoleonico popolato da reazionari e giacobini, clericali e democratici, e che ora viene sfidato dalle tensioni di tipo nazionale.
Infine, la biografia di Cavour è il Risorgimento. L’imponente terzo volume, dedicato al periodo 1854-61, costituisce un saggio minuzioso di storia politica e geopolitica, che sfronda la vicenda dell’unificazione italiana dei molti giudizi sommari che gli studi e ancor più il discorso pubblico le avevano inflitto già all’indomani del 1861. Il profilo di Cavour ne esce sottolineato per la straordinaria capacità di decisione e mediazione, ma non glorificato. La sua partita politica appare difficile, talvolta prometeica, sul piano interno – nei rapporti spesso conflittuali con il re Vittorio Emanuele II, Giuseppe Garibaldi, i democratici – e non di meno sul piano europeo – nel confronto con le grandi potenze, tutte, in diversa misura, sospettose di fronte alla nascita del nuovo Stato. Quanto al futuro, scrisse Romeo concludendo l’opera, consolidare l’azione delle minoranze che avevano costruito il Paese e radicarlo nel contesto del mondo moderno si rivelò un obiettivo arduo. Ma comunque fu questa la speranza «fino a quando le vicende della prima metà del Novecento, con le due guerre mondiali e l’avventura totalitaria, portarono alla totale dissoluzione dell’eredità del Risorgimento, ormai sostituita, nella guida della vita italiana, da tutt’altri principi e tutt’altri criteri» (p. 950). Una chiusa amara e dubbiosa, come si vede.
Intanto, il 18 settembre 1963 Romeo si era sposato a Roma con Elsa Martucci, dalla quale ebbe una figlia, Ilaria.
Romeo fu innovatore di temi e metodiche. Ma questo non significò un’adesione acritica alle tendenze storiografiche che con più forza si andavano affermando a metà del Novecento e che fatalmente sollecitavano il suo sospetto per quanto potesse apparirgli come conformismo intellettuale. È il caso delle francesi Annales. Romeo ne apprezzò il rinnovamento dei temi, delle fonti, delle parentele disciplinari, ma le ritenne segnate da gravi debolezze teoriche. Non lo convinceva un rapporto con le scienze sociali che rischiava di dissolvere la storia nei loro paradigmi. Né la braudeliana ‘lunga durata’, al cui interno si perdevano le scansioni della storia politica. Non accettava lo sbiadire del rapporto tra eventi e strutture, individuale e generale. Sottolineava la necessità «di una narrazione che sia essa stessa strumento dell’analisi, e di un’analisi che ad ogni passo sostenga ed illumini la narrazione» (Cavour e il suo tempo, III, cit., p. V). Assunse cioè posizioni scientifiche che spesso non si collocavano nel mainstream della cultura italiana ed europea medionovecentesca. La stessa verve polemica lo mise al centro della scena. La sua personalità era destinata a non passare sotto silenzio. Oppure fu un silenzio paradossale. Quando arrivarono in libreria i tomi della bellissima biografia cavouriana, la reazione della comunità scientifica fu sorprendente. «Non poche delle maggiori riviste storiche nazionali preferirono non recensir[la]» (Pescosolido, 1990, p. 49). Una sorta di rimozione. Oppure – come ebbe a confidarmi anni fa Pasquale Villani – la scarsa consapevolezza che, assieme a Franco Venturi, Romeo fosse probabilmente il maggiore tra gli storici italiani del tempo.
Per di più, lo studioso siciliano giocava sul doppio registro della cultura e della politica. Nel 1964, commemorando Vittorio De Caprariis, ne ricordò – assieme all’assidua presenza nel dibattito pubblico e agli «interventi puntuali e continui nella polemica giornalistica» – la riluttanza «alle suggestioni e alle mode correnti»: ovvero «il coraggio dell’impopolarità» (Storia e politica congiunte nell’opera di De Caprariis, in Corriere della sera, 18 giugno, p. 5). Stava parlando dell’amico scomparso, ma anche di sé stesso. Romeo fu appassionatamente partecipe della cronologia del suo tempo. Mai zona grigia. Oltre che ricercatore e accademico, fu opinion leader, editorialista, uomo di parte. E non tenne separati i due piani. Al contrario, mischiò storiografia, convincimenti ideali e opzioni politiche. Non c’è alcuna serenità da torre d’avorio nei suoi saggi di ricerca. Né si avverte, di converso, l’ombra del senso comune nella sua attività pubblica, perché essa fu sempre intrecciata allo sguardo lungo dello storico.
Negli anni della maturità, mentre lavorava al Cavour, accentuò il proprio impegno nel dibattito politico. Era diventato un romano di adozione, essendosi trasferito nel 1962 da Messina alla Sapienza, dove insegnò storia del Risorgimento al Magistero e, dall’anno successivo, storia moderna nella facoltà di lettere e filosofia. Prese a collaborare con il Corriere della Sera, con La Stampa e poi con Il Giornale nuovo di Indro Montanelli. Dalla metà degli anni Settanta la sua attività pubblica era diventata intensa. Fu intellettuale di punta del Partito repubblicano, che al tempo era guidato dal siciliano Ugo La Malfa, entrando nella Direzione nazionale.
Liberale aperto alle istanze sociali, keynesiano più che liberista, finì spesso in rotta di collisione con le culture politiche dominanti e con i grandi partiti. Restò sempre aspramente anticomunista. Una vittoria elettorale del PCI, scrisse nel 1974, rischierebbe di innescare «il classico ciclo repressione-reazione-terrore, di cui è intessuta la storia di tutti i partiti comunisti che finora sono giunti al potere» (Se vanno al potere, in Il Giornale nuovo, 1° settembre 1974, poi in Scritti politici 1953-1987, 1990, p. 16). Ma neppure aveva fiducia nella Democrazia cristiana (DC), che sempre meno era il partito del capitalismo concorrenziale, dell’europeismo postnazionalista, della ferma gestione dei conflitti sociali. Dopo Alcide De Gasperi, la DC gli appariva incapace di ricoprire il suo storico ruolo di erede dei vecchi partiti moderati e di diga anticomunista. Romeo soffrì progressivamente un quadro politico di cui non vedeva tuttavia alternative realistiche. Era contrario al bipartitismo DC-PCI e al ‘compromesso’ cattolico-comunista. Ma sapeva che era questa la tenaglia che soffocava storicamente un’area liberale sempre esigua sul piano del consenso. Nel frattempo, fu ostile alle ideologie del Sessantotto e agli umori irrazionalistici che vi scorgeva, e più volte stigmatizzò l’università di massa come un inganno. Era angosciato dal dilagare della violenza politica e dalle collusioni che essa trovava nei ranghi della cultura. Stigmatizzando la mancanza di qualsiasi reazione in coloro che avevano assistito all’omicidio del professor Vittorio Bachelet – avvenuto in pieno giorno, il 12 febbraio 1980, all’Università di Roma –, parlò di «un disarmo morale agghiacciante» (Lutto e arroganza: le pompe funebri della sinistra, in Il Giornale nuovo, 16 febbraio 1980, poi in Scritti politici, cit., p. 210).
Erano posizioni impopolari e perfino rischiose, nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta. Nel 1977 fu minacciato con una pistola alla tempia all’interno stesso della Sapienza. Romeo la lasciò e, dopo un breve periodo di insegnamento presso l’Istituto universitario europeo (1977-78), approdò alla LUISS (Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli), della quale fu rettore dal 1978 al 1984. Non venne meno, frattanto, l’impegno politico e pubblicistico, ma, durante la lunga stagione del ‘consociativismo’ e del patto sindacale tra grande impresa e lavoro, la sua voce diventò una deprecatio temporum destinata a rimanere sterile. Nel 1979, candidato del Partito repubblicano italiano (PRI) alle prime elezioni europee nella circoscrizione dell’Italia insulare, non venne eletto. Ripresentatosi nel 1984 – nella circoscrizione dell’Italia meridionale – all’interno delle liste congiunte tra il PRI e il Partito liberale italiano (PLI), raccolse oltre 70.000 voti ed entrò nel Parlamento di Strasburgo, lasciando l’università. A Strasburgo si batté per un’Europa federalista, capace di integrare all’interno di una forte comunità politica anche le aree periferiche del continente, come lo era il suo Sud. Altre aspirazioni che si sarebbero rivelate inattuali.
Direttore dell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia e socio dell’Accademia dei Lincei, morì improvvisamente il 16 marzo 1987.
Fonti e Bibl.: Archivio IISS (Istituto Italiano per gli Studi Storici), Dossier Rosario Romeo.
G. Pescosolido, R. R., Roma-Bari 1990; G. Busino, R. R. tra storiografia e impegno politico, in Rivista storica italiana, CVII (1995), 2, pp. 387-477; G. Galasso, R. nella storiografia del Novecento, in Il rinnovamento della storiografia politica. Studi in memoria di R. R., a cura di G. Pescosolido, Roma 1995, pp. 16-19; Id., R. R. (1924-1987), in Journal of modern Italian studies, IV (1999), 2, pp. 256-272; R. Pertici, Storici italiani del Novecento, n. monografico di Storiografia, III (1999), in partic. pp. 43 s., 49 s.; R. R. e “Il Risorgimento in Sicilia”. Bilancio storiografico e prospettive di ricerca, a cura di S. Bottari, Soveria Mannelli 2002 (in partic. G. Giarrizzo, R. R. e “Il Risorgimento in Sicilia”, pp. 7-14); R. Pertici, Il vario anticomunismo italiano (1936-1960): lineamenti di una storia, in Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, a cura di L. Di Nucci, E. Galli della Loggia, Bologna 2003, pp. 263-334; G. Galasso, R. R., in Id., Storici italiani del Novecento, Bologna 2008, pp. 235-257.