ROSA
(de Rosis). – Famiglia di pittori bresciani del Cinquecento pionieri nel campo dell’illusionismo prospettico, un genere che, a partire dal XVII secolo, fu definito quadratura. Figli di Maffeo de Rosis, appellato talvolta «Barbobus» a suggerire una provenienza dalla zona del fiume Oglio, proprietà dei conti Barbò, Cristoforo e Stefano riscontrarono un successo considerevole già in vita, amplificato dalle lodi di Giorgio Vasari (1568, 1881, pp. 509-511) e Daniele Barbaro (1568, p. 177). Per Carlo Ridolfi (1648, 1914, pp. 272 s.) furono «valorosi nelle prospettive e nelle cose de’ soffitti», mentre Marco Boschini (1660, 1966, pp. 253 s.) li definì «patroni della prospettiva». Pietro, figlio di Cristoforo, fu invece un pittore di figura, allievo di Tiziano e attivo dalla fine del settimo decennio del XVI secolo.
Nati rispettivamente nel 1517-18 e nel 1524-25, poco o nulla è dato sapere sulla formazione di Cristoforo e Stefano (resta valido lo studio di Juergen Schulz, 1961). È possibile, sebbene in merito non vi siano certezze, che il più anziano avesse intrapreso una strada diversa da quella artistica, trovando impiego presso alcuni notai; del resto anche un altro fratello, Giuliano, era attestato in qualità di «nodaro», sebbene «infermo et senza utile» (Piazza, 2016a, p. 194). Questa iniziale occupazione pare confermata dal fatto che, proprio nell’ambito della professione notarile, Cristoforo strinse un legame con Girolamo Romanino, nella cui bottega Stefano avrebbe prestato servizio come garzone.
Per quanto è dato sapere, l’opera d’esordio di Cristoforo è la decorazione del quadrante secondario dell’orologio di piazza della Loggia, attestata grazie alla documentazione reperita dall’erudito Camillo Baldassarre Zamboni (1778, p. 90) e oggi interamente perduta. Più indicativo per inquadrare gli inizi del pittore è l’incarico di trasporre su «grandi tavoloni» il progetto relativo al completamento del secondo ordine della loggia, approntato da Jacopo Sansovino in occasione del suo soggiorno a Brescia nel maggio 1554. In questo caso Cristoforo lavorò al fianco del padre di sua moglie Isabetta (Archivio di Stato di Brescia, Polizze d’estimo, b. 116A), Agostino Scalvini, pittore di cui non si conosce alcunché, ma che probabilmente rappresentò il suo primo maestro (Piazza, 2016a, pp. 196 s.). Un documento scoperto recentemente permette di aggiungere un ulteriore tassello all’attività inziale di Cristoforo: il 1° dicembre 1554, infatti, il pittore bresciano fu pagato 12 scudi d’oro «pro resto et completa solutione mercedis picturarum» realizzate nell’abitazione dei fratelli Lorenzo e Giovanni Coradelli, sita in contrada S. Antonio (pp. 197 s.).
Per quanto riguarda Stefano, il giovane è attestato per la prima volta nel 1548, quale garzone nella bottega di Romanino (Buganza - Passoni, 2006, p. 420, doc. 126). È probabile che poco dopo partecipasse alla decorazione della sala del Collegio dei giudici, una palazzina che comunica con la loggia (Piazza, 2016a, pp. 198-202). La presenza del pittore in questo luogo venne rilevata da Francesco Paglia nella prima versione del Giardino della pittura, salvo poi essere rivista in favore di Antonio Campi (1660-1701, 1967, pp. 283-290), cui invece effettivamente spettano, in collaborazione con il fratello Giulio, le otto tele un tempo inserite nelle nicchie alle pareti e oggi divise tra la Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia e lo Szépművészeti Múzeum di Budapest (Casero, 2007, pp. 112-150).
Nell’impresa fu coinvolto, come procuratore di Giulio Campi, il cartografo veronese Cristoforo Sorte, che più tardi avrebbe ammesso di essere stato per i Rosa «il primo loro principio e fondamento di illuminarli in questa professione di prospettiva in scurzo, aggiuntovi il loro giudicio et una loro naturale inclinazione di operare» (Sorte, 1580, 1960, p. 287). Il ruolo di Sorte nella formazione dei Rosa è ancora da precisare, ma sembra verosimile immaginare che la sua preparazione nel campo della misurazione cartografica, e probabilmente la sua abilità di pittore di prospettive, devono aver avuto un peso determinante.
L’esecuzione degli affreschi del Collegio dei giudici fu seguita a breve distanza dalla volta del refettorio del convento di S. Pietro in Oliveto a Brescia. L’attribuzione in favore dei Rosa di questo ciclo, tramandata anch’essa da Paglia, trova sostanza nei lacerti superstiti, che propongono l’alternanza di semplici decorazioni ed elementi illusionistici. Il lavoro cade prima dell’aprile 1556, dal momento che in tale data Stefano (certamente insieme a Cristoforo) era già a Venezia, documentato nel monastero della Madonna dell’Orto, anch’esso appartenente alla congregazione di S. Giorgio in Alga, al cui vertice siedeva il bresciano Leone Bugatto, probabile artefice della convocazione in laguna dei due fratelli (Piazza, 2016a, pp. 203-205).
Nulla resta purtroppo dell’originario soffitto ligneo della chiesa veneziana, sostituito dopo la metà del XIX secolo; Vasari ebbe però modo di ammirare e descrivere «certi mensoloni che sportano in fuori [...] facendo in quella chiesa un superbo corridore con volte a crociera intorno intorno: ed ha quest’opera la sua veduta nel mezzo della chiesa con bellissimi scorti, che fanno restar chiunche la vede maravigliato, e parere che il palco, che è piano, sia sfondato» (Vasari, 1568, 1881, pp. 509 s.). Ancora da verificare è la suggestiva ipotesi di Wolfgang Wolters (2000, trad. it. 2007, p. 202) di riconoscere una rappresentazione del soffitto in un abbozzo eseguito da un viaggiatore tedesco di passaggio a Venezia nel 1600.
Il 20 settembre 1557 i procuratori di S. Marco de supra affidarono a Cristoforo l’incarico di dipingere il palco ligneo del vestibolo della Libreria Marciana (Piazza, 2016b, pp. 99-106). L’opera, pur essendo in uno stato di conservazione non ottimale, consente comunque di apprezzare l’effetto illusorio delle prospettive. È il primo caso a Venezia di decorazione svincolata dai virtuosistici scorci delle figure, «secondo la prassi del ‘soffitto alla veneziana’» (Schulz, 1968) resa celebre da Paolo Veronese e da Tiziano, bensì rappresentata soltanto da finte architetture.
La difficoltà di imitare tale modello ne ha sancito al tempo stesso la scarsa fortuna, anche se l’apprezzamento dei contemporanei per l’opera marciana è dimostrato dal fatto che Sansovino e Tiziano nel 1560 la valutarono 310 scudi d’oro, una somma decisamente elevata rispetto a quella riservata agli autori delle tele della vicina sala di lettura della Libreria. Tiziano, a riprova di quanto si va dicendo, accettò inoltre di realizzare una tela ottagonale con l’Allegoria della sapienza da inserire al centro del soffitto dei Rosa.
Il 18 dicembre 1560 Cristoforo ricevette 12 scudi d’oro dai deputati alle fabbriche del Comune di Brescia «causa picturae faciendae in soffitta pallatii novi» (Zamboni, 1778, p. 76 nota 28). L’incarico, relativo alla decorazione del soffitto del salone della Loggia fu formalizzato soltanto il 12 maggio 1563, impegnando il pittore, insieme a Stefano, sino al 1568. I due fratelli realizzarono un apparato di finte architetture disposte su tre ordini di colonne che coprivano il «volto, o cielo, di questa regia sala» (Spini, 1585, p. 331). L’impresa, distrutta da un incendio nella notte del 18 gennaio 1575, sancì la consacrazione dei Rosa al fianco di Tiziano, chiamato nell’ottobre del 1564 a realizzare tre tele di soggetto allegorico da inserire al centro del soffitto. Nella complessa vicenda che vide Tiziano opposto in una lunga controversia ai deputati del Comune bresciano Cristoforo ricoprì un fondamentale ruolo di mediazione, godendo della piena fiducia del pittore, che lo considerava un suo confidente (Passamani, 1995, pp. 211-239). Ciò era giustificato da un rapporto parentale che coinvolse anche i figli di Cristoforo: infatti nel 1568 Valeria sposò Giacomo Vecellio, un lontano cugino di Tiziano residente a Brescia, mentre cinque anni prima Pietro, «de anni 22», era andato «ad imparar a dipingere da m(esser) Ticiano» (Tagliaferro - Aikema, 2009, pp. 183 s. nota 181).
È questa la prima notizia che riguarda il giovane Pietro, nato intorno al 1541. Sebbene sia difficile seriare la sua attività, una certezza è fornita dalla data 1574 vergata sulla tela raffigurante Gesù invia gli apostoli nel mondo della Congrega della Carità a Brescia, dove si può cogliere la portata dell’alunnato nella bottega tizianesca (Begni Redona, 1986, p. 252). Testimonianza utile a comprendere la formazione del pittore è anche la S. Barbara della chiesa di S. Maria delle Grazie a Brescia, una «delle prime prove», secondo Paglia (1660-1701, 1967, pp. 174 s.), che manifesta «un raggio di quel’insigne cavaliere Vecellio». In questi anni il pittore collaborò con il padre e lo zio; gli storiografi gli riferiscono un perduto ciclo nella palazzina Avogadro sul Cidneo, dove ancora sopravvive una volta affrescata da Cristoforo e Stefano insieme a un anonimo figurista (Piazza, 2016a, p. 288). In palazzo Martinengo da Barco, sede della Pinacoteca Tosio Martinengo, è stato individuato un brano pittorico corrispondente alla descrizione proposta da alcuni osservatori antichi, che ricordano «istoriette [...] che rappresentano altra metamorfosi di Ovidio toccate da Pietro Rosa, con il chiaroscuro di Stefano e Cristoforo» (Lucchesi Ragni - Stradiotti, 2007, p. 24 nota 42).
Durante l’ultima fase di attività dei due Rosa seniori, trascorsa per entrambi nelle cattedrali bresciane, se si eccettua nel 1574 un breve soggiorno a Padova di Cristoforo (Piazza, 2016b, pp. 124-133), non c’è più traccia della presenza di Pietro tra i loro collaboratori. È dunque verosimile che in questi anni vada collocato il suo viaggio in Tirolo attestato dalle fonti (chi scrive non ha però trovato conferma della data 1571 riportata dalla storiografia), che registrano una sala affrescata e una serie di ritratti presso il castello di Ambras, al servizio dell’arciduca Ferdinando II (cfr. Begni Redona, 1986, p. 252). Forse per tale motivo – e non per una supposta morte per avvelenamento – il suo nome non compare tra gli eredi di Cristoforo, che il 31 gennaio 1578 pretesero di ricevere il saldo di alcuni lavori eseguiti dal defunto pittore (Schulz, 1961, p. 97 nota 24). Del resto, che Pietro fosse rimasto in attività anche dopo la scomparsa del padre e dello zio (Stefano è documentato per l’ultima volta il 26 novembre 1573) è dimostrato dai dati stilistici di alcune opere: è già stato osservato, per esempio, che il Cristo spogliato dalle vesti della Pinacoteca Tosio Martinengo in parte replica una tela del ciclo bassanesco un tempo nel presbiterio della chiesa bresciana di S. Antonio, realizzato nel nono decennio del Cinquecento (Fisogni, 2014, p. 292). Negli anni seguenti Pietro sfodera un linguaggio che rispecchia la sintesi di istanze artistiche differenti, segno di un eclettismo culturale percepibile, per esempio, nell’uso delle stampe quali modelli per il Gesù tra i discepoli a Emmaus della chiesa di S. Maria della Pace (Begni Redona, 1995, p. 162). Tra le varie opere riconosciutegli e a lui attribuibili con un certo margine di sicurezza vanno ricordati il S. Michele arcangelo di S. Francesco a Brescia (Begni Redona, 1994, p. 118; sulla tela è presente uno stemma forse relativo alla famiglia Gambara), la Visione di s. Eustachio della chiesa di S. Maria Immacolata sempre a Brescia (Rosa Barezzani, 2013, pp. 214-217) e una pala con la Madonna e santi nella parrocchiale di Bagolino (Begni Redona, 1964, p. 585). Da segnalare è il tentativo di allinearsi agli esiti della coeva pittura bresciana, come dimostra la tela con S. Martino e il povero del duomo di Brescia, datata sul retro 1619 e ultimo riferimento cronologico che lo riguarda (non è possibile, tuttavia, appurare l’attendibilità di questa scritta, coperta dalla foderatura; cfr. Frangi, 1988, p. 824).
Tra gli altri dipinti attribuiti a Pietro, non rintracciabili nelle chiese bresciane: alle Grazie due ante d’organo con Augusto e la sibilla Tiburtina (Savy, 2015, p. 10), alla Misericordia due tele raffiguranti Abramo con tre angeli e la Natività (Faino, 1630-1669, 1961, p. 137), a Ognissanti un «Cristo incontrato da S(an)ta Veronica» (Boselli, 1960, p. 297 nota 22), in S. Maria in Calchera «un confaloncino della Visita di S(an)ta Elisabetta» (Paglia, 1660-1701, 1967, p. 568), vari quadri nella collezione Averoldi, e infine affreschi nel Broletto (Panazza, 1970, p. 218). Paglia dedicò al pittore alcuni versi in rima (1660-1701, 1967, pp. 689 s.).
Fonti e Bibl.: D. Barbaro, La pratica della perspettiva..., Venezia 1568, p. 177; G. Vasari, Le vite... (1568), a cura di G. Milanesi, VI, Firenze 1881, pp. 509-511; C. Sorte, Osservazioni nella pittura (1580), in Trattati d’arte del Cinquecento. Fra Manierismo e Controriforma, a cura di P. Barocchi, I, Bari 1960, pp. 271-301; P. Spini, Delle Historie bresciane di m. Helia Cavriolo..., Brescia 1585, p. 331; B. Faino, Catalogo delle chiese di Brescia. (Manoscritti Queriniani E.VII.6, E.I.10) (1630-1669), a cura di C. Boselli, in Supplemento ai Commentari dell’Ateneo di Brescia, 1961, p. 137; C. Ridolfi, Le meraviglie dell’arte (1648), a cura di D. von Hadeln, I, Berlino 1914, pp. 272 s.; M. Boschini, La carta del navegar pitoresco (1660), a cura di A. Pallucchini, Firenze 1966, pp. 253 s.; F. Paglia, Il giardino della pittura (Manoscritti Queriniani G.IV.9 e Di Rosa 8) (1660-1701), a cura di C. Boselli, in Supplemento ai Commentari dell’Ateneo di Brescia, 1967, pp. 174 s., 283-290, 568, 689 s.; B. Zamboni, Memorie intorno alle pubbliche fabbriche più insigni della città di Brescia, Brescia 1778, pp. 76 nota 28, 90; C. Boselli, Gli elenchi della spoliazione artistica nella città e nel territorio di Brescia nell’epoca napoleonica, in Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1960, pp. 275-330; J. Schulz, A forgotten chapter in the early history of quadratura painting: the fratelli Rosa, in The Burlington Magazine, 1961, vol. 103, n. 696, pp. 90-102; P.V. Begni Redona, La pittura manieristica, in Storia di Brescia, III, La dominazione veneta (1576-1797), Brescia 1964, pp. 529-588; J. Schulz, Venetian painted ceilings of the Renaissance, Berkeley-Los Angeles 1968; G. Panazza, Pitture e sculture nel Broletto di Brescia, con particolare riguardo ai secoli XVI, XVII, XVIII e XIX, in Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1970, pp. 213-236; P.V. Begni Redona, Cristoforo e Stefano Rosa. Biografie, in Pittura del Cinquecento a Brescia, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo 1986, pp. 243 s., 252; F. Frangi, R., Pietro, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, a cura di G. Briganti, II, Milano 1988, pp. 824 s.; D. Sciuto, I R. a Piazza San Marco, in Critica d’arte, LVI (1991), 5-6, pp. 57-62; E. Feinblatt, Seventeenth-Century Bolognese ceiling decorators, Santa Barbara (Cal.) 1992, p. 8; D. Sciuto, La fortuna di due pittori bresciani nel secolo del Tiziano, in Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1993, pp. 137-154; P.V. Begni Redona, Pitture e sculture in San Francesco, in La chiesa e il convento di San Francesco d’Assisi in Brescia, Brescia 1994, pp. 83-202; Id., Pitture e sculture in Santa Maria della Pace, in La chiesa di Santa Maria della Pace in Brescia, Brescia 1995, pp. 111-192; B. Passamani, La decorazione pittorica del salone, in V. Frati - I. Gianfranceschi - F. Robecchi, La Loggia di Brescia e la sua piazza, II, Brescia 1995, pp. 211-239; W. Wolters, Architektur und Ornament, Monaco 2000 (trad. it. Verona 2007, p. 202); S. Buganza - M.C. Passoni, Regesto e cronologia, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano (catal., Trento), a cura di L. Camerlengo et al., Cinisello Balsamo 2006, pp. 398-431; A.L. Casero, Le Storie di giustizia di Giulio e Antonio Campi per il palazzo della Loggia, in Brescia nell’età della Maniera. Grandi cicli pittorici della Pinacoteca Tosio Martinengo (catal., Brescia), Cinisello Balsamo 2007, pp. 112-150; E. Lucchesi Ragni - R. Stradiotti, Brescia nell’età della Maniera. Testimonianze in città e nella Pinacoteca Tosio Martinengo, ibid., pp. 11-25; G. Tagliaferro - B. Aikema, Le botteghe di Tiziano, Firenze 2009, pp. 183 s. nota 181; M.T. Rosa Barezzani, Eustachio e il cervo crucifero: note intorno ad una leggenda agiografica, in Brixia sacra, XVIII (2013), 1-2, pp. 213-351; F. Fisogni, in Pinacoteca Tosio Martinengo. Catalogo delle opere. Secoli XII-XVI, a cura di M. Bona Castellotti - E. Lucchesi Ragni, Venezia 2014, p. 292; B.M. Savy, Romanino «per organo». Musica e decorazione a Brescia nel Rinascimento, Padova 2015, p. 10; F. Piazza, Tra decorazione e illusione: architetture dipinte a Brescia e il ‘primo tempo’ di Cristoforo e Stefano R., in Brescia nel secondo Cinquecento. Architettura, arte e società, a cura di F. Piazza - E. Valseriati, Brescia 2016a, pp. 189-208, 288; Id., La pittura di prospettiva e i quadraturisti bresciani tra XVI e XVII secolo, tesi di dottorato, Università di Udine, XXVIII ciclo, Udine 2016b, pp. 67-136.