VALLI, Romolo
– Nacque il 7 febbraio 1925 a Reggio Emilia, ultimo di tre figli (un fratello poi ginecologo e l’altro architetto), da Giuseppe, ingegnere civile, e da Matilde Mazzelli.
Dal 1938 frequentò il locale ginnasio-liceo Spallanzani, partecipando agli Agonali e vincendo il premio per miglior tenore adolescente. Nel 1942, in una recita studentesca, la goldoniana Famiglia dell’antiquario, debuttò nella parte del protagonista, l’ingenuo conte Anselmo. Lo stesso anno fondò con amici il mensile Temperamento, destinato a durare tre puntate. Su forti pressioni paterne nel 1944 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza a Parma, laureandosi nel 1949, ritardo dovuto all’arruolamento coatto in una compagnia tedesca di lavoro, fuga successiva e breve militanza nella Resistenza, con rischio di fucilazione a Osoppo, evitata grazie ai partigiani.
Anche se partecipò presto a iniziative filodrammatiche e a letture sceniche, nel clima febbrile per la riacquistata libertà, si formò di fatto nella redazione di giornali, Il Lavoro di Reggio, Reggio democratica, Il Progresso d’Italia, occupandosi sia della cronaca nera sia della critica drammatica – dove profuse un’accigliata severità contro i cascami del teatro di routine auspicando il ripristino del fischio in sala. Ma la sua intelligenza sbocciò soprattutto frequentando i circoli di poeti e di letterati, nella spola tra Reggio e Parma, specie Oreste Macrì – che gli insegnò a leggere Federico García Lorca in spagnolo – e Attilio Bertolucci, che lo contagiò nel culto di Saint Simon e di Marcel Proust, quest’ultimo suo effettivo modello di scrittura e di ricchezza psicologica, e suo sogno ricorrente di entrare nel progetto filmico, mai realizzato, di Luchino Visconti. Da qui, la sua fama di attore critico e intellettuale, insomma di testa, smentita almeno nelle ultime, toccanti interpretazioni.
Nel 1947 Valli contribuì all’apertura di un circolo cinematografico reggiano, di cui assunse la presidenza. Il 7 luglio 1949 entrò nella compagnia itinerante e picaresca del Carrozzone, diretta da Fantasio Piccoli. Utilizzato dapprima in piccoli ruoli, come il servo sciocco e balbuziente nel plautino Miles gloriosus, fin dalla stagione successiva iniziò a farsi notare per intensa delicatezza e sobrietà di accenti nella Leggenda di Liliom di Ferenc Molnár, così come per la particolare aura che emanava dalla sua prestante persona, un misto di agilità e di connaturata eleganza. Nel maggio del 1952, nella messinscena Il ballo dei ladri di Jean Anouilh, ospitato all’Olimpia milanese, venne notato in platea da Giorgio Strehler che lo volle subito al Piccolo. Qui restò per due stagioni riattraversando una varietà di generi e di parti, più di caratterista e promiscuo che di giovane amoroso, e intanto venne coinvolto nelle prime produzione teatrali della RAI. Al Piccolo, lasciò il segno nel cinico chirurgo alla moda in Un caso clinico di Dino Buzzati nel 1953 e, l’anno successivo, nel giornalista di provincia sagomato alla Carducci nella commedia pirandelliana L’imbecille.
Nell’estate del 1954, in tournée in Sudamerica si legò a Giorgio De Lullo, attor giovine uscito dalla corte di Visconti e impegnato anche lui nel Giulio Cesare, allacciando un rapporto d’amore e un sodalizio artistico che durò per tutta la vita. Furono queste le premesse per la nascita della compagnia dei Giovani, sollecitata in un primo momento da Rossella Falk e Marcello Mastroianni, poi toltosi per impegni cinematografici, integrata via via da Tino Buazzelli, dalla giovanissima Anna Maria Guarnieri e da Elsa Albani.
L’esordio degli Spettacoli Errepi, iniziali dell’impresario Remigio Paone, ebbe luogo il 23 dicembre 1954 con il Lorenzaccio di Alfred de Musset, scelta bizzarra quanto a data, allestimento fastoso e costosissimo, diretto da Luigi Squarzina. Valli impersonava il cardinal Cibo, mellifluo e machiavellico. L’anno successivo la troupe – dove i protagonisti avevano il nome in ditta accollandosi oneri e onori, a partire da paghe ridotte, ben al di sotto delle rispettive quotazioni di mercato – venne rilevata da Carlo Alberto Cappelli per la gestione amministrativa, mentre lo stesso De Lullo, vincendo titubanze personali, si caricò del compito di severo e autorevole regista al debutto trionfale con Gigi, adattamento di Anita Loos dal romanzo di Colette nel 1955. Nel medesimo anno si incrociò nel televisivo Mercante di Venezia con Memo Benassi, che lo affascinava per l’estro e il ritmo melodioso della voce, pur criticato nelle giovanili recensioni. All’ebreo, nella interpretazione canonica di Benassi vista da ragazzo, si era del resto ispirato per la sua tesi di laurea sul diritto di usura. Come padre, sofferto e dignitoso nella sua accorata malinconia, entro il casting del Diario di Anna Frank di Frances Goodrich e Albert Hackett nel 1956 (replicato per 230 serate), nel 1957 ottenne il prestigioso San Genesio, divenendo l’interprete più acclamato della sua generazione. Al San Genesio seguirono il Nettuno d’oro per Sesso debole di Édouard Bourdet nel 1959, declinato nella memoria del cinema americano anni Trenta. Ma l’attore svettava nel gruppo, avvalendosi altresì di un bon ton da Comédie française davvero insolito per la nostra ribalta, per l’infinità di prove e l’affiatamento di vita tra i membri del gruppo, sempre insieme, anche fuori dal palco. E la troupe utilizzava in più le immagini sempre creative e originali di Pier Luigi Pizzi (basti citare gli abbaglianti rimandi a Felice Casorati nel Gioco delle parti) e gli abiti di Umberto Tirelli, marchi di fabbrica da autentica civiltà della scena. Il padre di Anna Frank fu anche un’indiretta prova generale del suo collega genitoriale nei Sei personaggi in cerca d’autore varato nel 1963, durante la tournée in Russia, Polonia e Ungheria. Qui, un po’ degradava la dignità fiammante del primo con un che di liso e piccolo-borghese, tramite pure un consunto impermeabile, a frenare il piacere argomentativo e sillogistico del personaggio, e intanto ruminava follie private tentando di esorcizzarle tra riflessioni dialettiche e metalinguistiche. Nell’estate del 1957, durante la nuova tournée in Sudamerica, occasione per rimpinguare i bilanci della ditta, allestì lui stesso il pirandelliano Lazzaro, esperienza che gli servì per evitare sempre le faticose responsabilità del regista, se si esclude Trio per Samuel Beckett nel 1977 a Spoleto.
Alla Biennale di Venezia del 1958 fu Eddy, nel melodrammatico e disincantato D’amore si muore, primo copione scritto dal napoletano Giuseppe Patroni Griffi appositamente per i Giovani, modulato sulle caratteristiche degli interpreti. L’intesa venne poi rafforzata proseguendo con Anima nera nel 1960, dove Valli non veniva utilizzato, ambientato nella memoria del film neorealistico, quindi nel 1966 con Metti una sera a cena. Lo stesso anno Valli esordì al cinema in Policarpo, ufficiale di scrittura diretto da Mario Soldati, contraffatto e mimetizzato quale macchietta del burocrate, primo di uno dei tanti preziosi cammei che il cinema italiano gli commissionò trentacinque volte, senza mai purtroppo dargli occasioni di protagonismo, cui in altri Paesi certo sarebbe arrivato (solo sfiorata la parte, poi di Peppino De Filippo, dell’inibito e sessuofobo dottor Antonio nell’episodio felliniano di Boccaccio ’70 del 1962). Due anni prima, e sempre con Federico Fellini, avrebbe voluto essere Steiner nella Dolce vita, rapitogli da Alain Cuny, cui poté in compenso offrire la sua voce in doppiaggio. E nondimeno venne gratificato con la Noce d’oro nel 1960 per La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, con il premio della Fiera del cinema nel 1961 per Un giorno da leoni di Nanni Loy, con la Grolla d’oro nel 1963 per Il gattopardo viscontiano, dove fu magistrale nel pretino ipocrita e compunto, con il Nastro d’argento sia nel 1971 per il dolente padre, un ennesimo padre, nel film Il giardino dei Finzi Contini (1970) di Vittorio De Sica, sia nel 1977 per Un borghese piccolo piccolo di Monicelli.
Per quanto riguarda il palcoscenico, eccolo nel 1961 azzimato e rigidamente vittoriano nel Carteggio Aspern da Henry James, e subito dopo buffonesco in termini ilaro-tragici come Malvolio nello shakespeariano La notte dell’epifania, altro riconoscimento con il premio Nettuno del 1962, preso pure nel 1964 per il Padre pirandelliano.
Da sottolineare che, nonostante il portamento alto e slanciato, gli occhi azzurri e il naso dritto e aristocratico, Valli non esitava a invecchiarsi, sicuro nelle storpiature folgoranti e nei tempi comici: allora il mento si gonfiava e la faccia si sfilacciava, pregustando senescenze e disfacimenti, a neppure trent’anni. Esemplari in tal senso le clowneries vaudevillesche della Soiréee Feydeau nel 1973. Nell’ottobre del 1964, alla Biennale veneziana, fu soavemente intrigante quale entertainer nel dramma Il confidente di Diego Fabbri. Analogo brio venne poi esibito nel 1967, quando con un improbabile parrucchino biondo fu Thakeray che apriva le varie puntate nello sceneggiato televisivo La fiera della vanità di Anton Giulio Majano e come beffardo e nevrotico Laudisi in Così è (se vi pare) del 1972. In questo caso la compagnia si intestò la Morelli-Stoppa, mentre la regia di solito misurata di De Lullo si spinse a connotare di shoah le curiosità del salotto borghese verso le vittime di una morbosa attenzione.
Sempre nel repertorio del commediografo agrigentino disegnò una «razionalità dolente» (Ritratto d’attore, 1983, p. 141) nei panni di Leone Gala nella commedia Il giuoco delle parti (premi San Genesio e Olimpo d’oro nel 1966), all’esordio nel 1965, poi ripreso nel 1976-77, specie quando si ergeva flemmatico contro le impazienze isteriche di Silia-Rossella Falk, o non appena saettava sinistre occhiate misogine, come nell’austero, minaccioso finale, dove ghigliottinava con il taglierino l’uovo dell’abituale breakfast.
Gli bastava un leggero bilanciamento delle braccia, o il molleggio dell’andatura, l’incrinarsi della parola per un sovrappiù di sussiego, a manifestare il diaccio calore che sprigionava dalla creatura. E ancora, il Martino Lori in Tutto per bene del 1975, dove miscelava, in frenetiche rotazioni, stupori e tremori. Arrivò in tale territorio forse all’apice con l’Enrico IV del 1977, un Marcolfo filosofo dalla regalità istrionica e disperata, le labbra sporte in fuori, tra compunzione e puntiglio, mentre il timbro esalava autocontrollo e rabbia incontenibile, le guance truccate di biacca e di rosso sanguigno, la corona di traverso, il mantello goffo e malandato, a sibilare minacce e senso di impotenza. Certo, nel prototipo pirandelliano Valli trovava un ideale coronamento ruggeriano, di cui ogni tanto pareva inseguire il falsetto, come lui anti-amoroso, antipassionale. Con risvolti anche negativi. Non memorabile, infatti, il Versìnin delle Tre sorelle nel 1968: là appariva falso e innaturale, al di là della versatilità delle sue gamme espressive. Nel 1969 ottenne la Maschera d’argento per il pirandelliano L’amica delle mogli e Plaza suite di Neil Simon, qui in funamboliche metamorfosi assieme a Elsa Albani.
Nel 1972 la sua vena organizzativa, la vocazione manageriale e civile lo spinsero ad accettare sino al 1978 la direzione artistica del Festival dei due mondi a Spoleto, accentuandone l’internazionalità del cartellone, e nel 1977, assieme al suo compagno di vita, assunse la direzione del romano teatro Eliseo, nelle mille polemiche tra stabili e gestioni private, affidando il Piccolo Eliseo per la sperimentazione a Patroni Griffi. E questo, pur refrattario agli eccessi e alle oscurità delle avanguardie, essendo cresciuto in scena nel culto della chiarezza comunicativa. Nel novembre del 1973, dopo quasi vent’anni, la compagnia dei Giovani si sciolse, trasformandosi nella compagnia di prosa con il suo nome, sempre affiancato dalla regia di De Lullo. L’anno dopo a Spoleto, nella sua rassegna, liberò nell’Argante del molieriano Malato immaginario, nella traduzione e lettura valorizzante di Cesare Garboli, gli aspetti depressivi e spleenetici nascosti, magari provocati in superficie dal male all’ulcera di cui soffrì lungo tutta la sua esistenza.
Malesseri e disagi bene esposti anche nel 1976 con il pinteriano Terra di nessuno, a fianco del suo regista di nuovo attore. Stavolta i due, con solidale e garbata impudicizia, presentarono l’ambigua e ansiogena coppia del testo, ménage sospettabile di inclinazioni omofile e già sfiorato, in versione femminile, nella lontana Calunnia di Lilian Helmann del 1955. Nel 1979 divenne il suo amato Oscar Wilde, protagonista di una conversazione ininterrotta, quasi una testamentaria conferenza, scaldata dal celebre garofano verde all’occhiello e dal bicchiere d’assenzio a mo’ di bandiera nel faceto e straziato Divagazioni e delizie di John Gay, interpretato con entusiasmo in una noblesse evidenziata dalle pose rilassate e dal gusto conviviale, quasi il pubblico fosse suo gradito commensale. Infine, il 27 dicembre 1979 lasciò di nuovo fuoriuscire la parte nera di sé, sbarazzandosi della manierata sicurezza, della verve ironica, e accennando, quale verità personale, alla diversità amorosa sospesa tra senso di colpa e fierezza.
Una voglia di morte traspariva così all’improvviso, mentre la voce maliosa e seducente di felice e ricercatissimo doppiatore, di presentatore radiofonico e televisivo, capace di rintuzzare per caparbietà e applicazione le esse e le zeta emiliane, sprofondava nei suoni rochi e affannosi con cui sognava e recriminava, mentiva e si metteva a nudo, sperava e si rassegnava nel suo compulsivo innamoramento di adolescenti, in Prima del silenzio, quasi un congedo profetico, ultimo testo per lui covato dal fedele Patroni Griffi. Esito tripudiante in sala, ma le repliche furono bruscamente e brutalmente interrotte da un incidente di macchina che lo uccise mentre di notte rientrava a casa sull’Appia antica il 1° febbraio 1980. Avrebbe compiuto di lì a poco cinquantacinque anni. Ne dimostrava di più, per l’enorme, insonne dispendio di energie in più campi e per gli smodati peccati di gola. Lo stesso anno della sua uscita di scena, la città natale, Reggio Emilia, gli dedicò il teatro municipale.
Opere. Sesso debole di Edouard Bourdet, versione italiana in due tempi e un epilogo di Romolo Valli e Lina Wertmuller, a cura di M. Ramous - R. Valli, Bologna 1959; un diario di lavorazione tenuto dall’attore, rappresentativo del metodo d’approccio al personaggio, è ospitato in G. Patroni Griffi, D’amore si muore, Bologna 1960; cfr. inoltre Romolo Valli analizza se stesso: l’attore deve essere colto. Intervista con Romolo Valli, a cura di D. Cappelletti, in Il dramma, LIV (1978), 3, pp. 4-20.
Fonti e Bibl.: Ritratto d’attore - Romolo Valli, a cura di G. Davico Bonino, Milano 1983, indispensabile per gli scritti giovanili dell’attore e per la raccolta di interviste e colloqui; R. V., a cura di C. D’Amico de Carvalho et al., Reggio Emilia 1985; A. Audino, La Compagnia dei Giovani, Roma 1995; T. Kezich, De Lullo o il teatro empirico, Venezia 1996; F. Poggiali, Sulle orme della Compagnia dei Giovani, Roma 2007; M.L. Loiacono, R. V. L’attore che parla, Roma 2015.