AMASEO, Romolo Quirino
Nacque a Udine il 24 giugno 1489 da Gregorio e da suor Fiore di Marano, monaca di S. Chiara in Udine. Fu legittimato con privilegio del vescovo di Bologna Achille Grassi nell'agosto 1506, ma egli, soprattutto per il timore di perdere l'eredità, dubitò poi per lungo tempo dell'efficacia di tale documento e sollecitò ancora presso il padre un atto più autorevole. Trascorse l'infanzia e la fanciullezza a Padova, Venezia, Udine, Bergamo, seguendo il padre, da cui apprese i primi elementi del latino, finché tornò nella città natale dove proseguì gli studi di latino e greco con lo zio Girolamo. Vi si trattenne però poco tempo. Verso la fine del 1507 aveva già lasciato Udine e nella primavera dell'anno successivo era a Roma con la speranza di entrare al servizio di qualche prelato, ciò che risultò impossibile. Quindi, per consiglio di Egidio da Viterbo, amico della famiglia Amasei e generale degli eremitani di S. Agostino, tornò a Padova, ospite e precettore dei frati di quell'Ordine. Ivi attendeva intanto agli studi di latino, greco, ebraico e altre lingue orientali. Ma gli eventi bellici che seguirono alla lega di Cambrai rendevano estremamente difficili gli studi in città e l'A. decise di trasferirsi a Bologna, dove arrivò verso la fine del 1509, dopo aver visitato a Imola Gian Antonio Flaminio con cui anche in seguito ebbe sempre rapporti di viva amicizia.
Accolto in casa di Ludovico Campeggi, presto divenne amico di Giovanni Campeggi, il celebre giureconsulto con cui si era addottorato suo padre, di Giambattista Pio e di Achille Bocchi, da lui conosciuti durante la permanenza a Bergamo. Viveva insegnando privatamente, ma riteneva ancora che al servizio di qualche grande sarebbe vissuto in modo più consentaneo alle sue inclinazioni. Pare certo che, se il padre non lo avesse dissuaso, nel 1511 si sarebbe recato in Spagna (A. Ceruti, Diarii udinesi dall'anno 1508 al 1514 di Leonardo e Gregorio Amaseo e Gio. Antonio Azio, Venezia 1884, p. LXVI). Tuttavia il desiderio di un simile stato di vita, forse anche per le condizioni della sua salute, che fu sempre cagionevole, non lo abbandonò mai e ad esso, in fondo, sarà dovuto il trasferimento a Roma negli ultimi anni della sua vita.
Nel 1512 sposò Violante Guastavillani e nell'agosto dell'anno successivo annunciava al padre la nascita di Pompilio, che fu il primo di dodici figli.
Intanto il suo nome cominciava ad affermarsi e in quello stesso anno il Senato gli affidò la lettura di greco e latino, che egli inaugurò con l'orazione a Giorgio Sauromano, nominato allora rettore dello Studio ("impressit Benedictus [Hectoris] bibliopola Bononiensis", 1513). La lettura gli fu successivamente riconfermata, ma egli dovette continuare anche l'insegnamento privato.
Verso la fine del 1519, anche per desiderio del padre che gradiva in quel momento un suo atto d'ossequio alla Signoria, aprì le trattative per passare allo studio di Padova. Ivi, d'altra parte, per la politica di Venezia, che dopo i danni sofferti per la lega di Cambrai aveva riaperto lo Studio e anche con nuovi ordinamenti lo stava portando a quel rifiorimento che culminò con il dogado di Andrea Gritti, le condizioni di insegnamento si presentavano migliori che non a Bologna. Lo tratteneva però iltimore di contrariare il Reggimento bolognese da un lato, e dall'altro l'ombra di Marino Becichemi (contro cui si scagliavano le ire di Gregorio), che poteva ostacolare la sua affermazione. Già nel dicembre i Pregadi avevano deliberato di offrirgli la cattedra di greco con facoltà della lettura latina, ed egli stava per lasciare Bologna, quando, vinto forse dalle minacce dei Bolognesi, tornò indietro e rinnovò sia pure con riserva i suoi impegni. Per il 1520-21 si trasferì finalmente a Padova dove tuttavia il 12 genn. 1521 non aveva ancora cominciato a insegnare (M. Sanuto, I Diarii, vol. 29, Venezia 1890, col. 546). Intanto il suo atteggiamento irresoluto e poco coerente gli aveva alienato molte simpatie dell'ambiente veneto e certo in suo favore dovette intervenire il Bembo, che lo stimava sinceramente e aveva a cuore le sorti dello Studio patavino. Nella nuova sede però, dove pure nel 1523 per l'aumento delle retribuzioni percepiva 100 fiorini (ma il Becichemi veniva a percepirne 140: M. Sanuto, I Diarii, vol. 35, Venezia 1892, col. 182), rimase soltanto quattro anni. Poi sia per il desiderio dei Bolognesi e del pontefice di accrescere la fama dello Studio, sia per il desiderio di uno stipendio maggiore da parte dell'A., si riaprirono le trattative per il suo ritorno a Bologna. Intervenne il Giberti, amico dell'A. e datario di Clemente VII, a forzare la mano a Venezia che, trattandosi di un suo suddito, poteva esercitare diritto di veto. E fu ancora il Giberti che lo aiutò a vincere l'opposizione al suo ritorno da parte di un gruppo di umanisti bolognesi capeggiati da Giambattista Pio che intanto aveva occupato la cattedra da lui lasciata vacante. Ma quando il 1 sett. 1524 uscì il decreto del Senato, che lo nominava lettore di poetica e retorica con lire 325 di stipendio, l'A., che aveva fissato un minimo di lire 400, lasciò Bologna e tornò a Padova finché il Giberti non intervenne nuovamente in suo favore. Tornò a Bologna in ottobre, accompagnato trionfalmente da un gruppo di scolari polacchi, ungheresi, inglesi, che gli procurarono, oltre all'onore della scuola, anche il guadagno della dozzina.
La sua fama si era intanto diffusa in Italia e all'estero. Mentre Ercole Gonzaga lo invitava a Mantova, dove fu per alcuni mesi nel 1525 (v. in particolare A. Luzio, Ercole Gonzaga allo Studio di Bologna, in Giorn. stor. d. letter. ital., VIII [1886], p. 386 n. 1), il Bembo tentava di farlo tornare a Padova (1526), il Wolsey lo invitava in Inghilterra, da Venezia l'Egnazio gli offriva la cattedra che era stata di Antonio Tilesio (1530).
Una grande occasione fu per lui il congresso tra Carlo V e Clemente VII a Bologna nel 1529-30, quando, al cospetto delle due supreme autorità recitò la applauditissima e famosa orazione De pace (R. A. orationum volumen, impressit Bononiae Ioannes Rubrius 1564, pp. 74-100), che gli procurò da Carlo V, oltre a promesse onorifiche, il "degno presente de duc. 300 in una bella tazza d'oro" (lett. di Gregorio dell'8 apr. 1530, in Ceruti, Diarii udinesi..., cit., p. LXII). Ma più vasta risonanza avevano avuto ed ebbero in seguito le due orazioni De Latinae linguae usu retinendo, da lui poi chiamate Schola I e II (Orationum volumen, cit., pp. 101-146), pronunciate all'apertura di quell'anno accademico, non alla presenza dell'imperatore e del pontefice, pare (come per lo più si ritiene), ma quando essi erano già in Bologna e si era diffusa quell'atmosfera di entusiasmo e utopistico ottimismo per la pace ristabilita. La restaurazione del Sacro Romano Impero suggerì facilmente l'idea di difendere solennemente la lingua latina come la sola degna del mondo civile.
Nella prima orazione infatti l'A. sostiene che, poiché il volgare altro non è se non una corruzione della lingua latina, questa soltanto deve essere la lingua dei dotti, mentre il volgare sarà lasciato alle persone incolte. Nella seconda, l'A. confuta l'opinione che il volgare sia immediatamente più utile, ricordando gli immensi tesori di sapienza pratica che gli antichi deposero nei loro scritti. Se poi lo studio del latino costerà maggiore fatica che non quello dell'italiano, esso è compensato dalla diffusione universale del latino, mentre la lingua volgare si restringe all'Italia, dove pure si disputa se debba essere toscana o cortigiana.
Non occorre dire quanto tale atteggiamento dell'A. fosse anacronistico. Il Bembo (Lett., II, VIII, 21) osservò subito che l'A. stesso aveva imparato e insegnato privatamente le regole della lingua tanto disprezzata. In quei medesimi anni poi, Ludovico Vives prediceva nel De disciplinis (1531) la fine del latino. Appunto perciò, fin da allora molto si è discusso se l'A. credesse nella validità della sua tesi oppure avesse parlato per sfoggio di eloquenza, come mostrò di credere più tardi suo figlio Pompilio. Certo è che le medesime idee, o almeno analoghe, sostenevano m quel periodo Lazzaro Bonamico a Padova, Francesco Florido, Pietro Angeli da Barga, Celio Calcagnini, Bartolomeo Ricci, G. B. Goineo e altri ancora (fonti e bibl. in V. Cian, Contro il volgare, in Studi letterari e linguistici dedic. a P. Rajna, Firenze 1911, pp. 282-84).
Con maggiore equilibrio difendeva il latino senza disprezzare il volgare anche il Sigonio, nella prolusione veneziana con titolo uguale a quella menzionata dell'A. (1566).È noto poi che a Bologna in particolare, nonostante le risposte date all'A. da Giovanni Filoteo Achillini e da Girolamo Muzio, il latino teneva e tenne ancora posizioni di netto privilegio: e ciò sia forse per una prevenzione contro il volgare, acuita dal contrasto delle varie opinioni, sia per la convenienza di farsi capire dagli stranieri che ancora affluivano numerosi allo Studio e sia infine, e forse soprattutto, per un omaggio alla tradizione umanistica profondamente radicata nella scuola, da cui derivava anche l'illusione che adoperare il latino fosse comunque prova di bravura e di magistero. E i maestri che succedettero all'A. e continuarono il prestigio dello Studio, cioè Sebastiano Corrado, Francesco Robortello, Aldo Manuzio il Giovane, adottarono e affinarono il metodo filologico dell'Egnazio e superarono l'A. per spirito critico ed erudizione storica, archeologica, linguistica, ma identificarono gli studi di umanità interamente con l'antiquaria, e continuarono a ritenere che in quegli studi non si potesse scrivere che in latino.
Tanta era ormai la rinomanza dell'A. che, alla morte di Filippo Fasanini (o Fasianino), venne eletto segretario del Senato (1531), benché tale ufficio fosse riservato esclusivamente ai membri di famiglie aventi cittadinanza bolognese da almeno due generazioni. Per desiderio degli studenti, però, cioè per non danneggiare la fama dello Studio, il Senato decretò che egli conservasse anche l'insegnamento. La cittadinanza e nobiltà bolognese furono poi restituite agli Amasei nel 1533.
Nello stesso anno apparve alle stampe la prima delle due pubblicazioni che l'A. dedicò propriamente alla letteratura classica, cioè la sua traduzione latina dell'Anabasi (Ioannes Baptista Phaellus Bononiensis, pridie Non. Mart. 1533), che, già compiuta sostanzialmente nei primi anni dell'insegnamento a Padova, fu rapidamente finita per essere dedicata all'amico Ludovico d'Avila, cameriere segreto di Carlo V, che si trovava quell'anno a Bologna per il secondo incontro dell'imperatore con il pontefice. Il 17 aprile Wigle van Aytta (Viglius Zuichemus) ne dava notizia a Erasmo (Opus epistolarum Des. Erasmi Roterodami, a cura di P. S. Allen, X, Oxonii 1941, p. 197).
Come segretario del Senato l'A. fu a Roma più volte a partire dal 1534, quando accompagnò la delegazione bolognese che portava a Paolo III, neo eletto, i rallegra-menti della città. Il pontefice lo invitò a restare al suo servizio e l'anno successivo, anzi, lo trattenne un breve periodo perché continuasse l'istruzione dei cardinali nipoti Alessandro Farnese e Guido Ascanio Sforza, che gli aveva precedentemente affidato in Bologna. Tuttavia l'A. non si fermò allora definitivamente a Roma, come sembra ritenere il Pastor (Storia dei Papi, V, Roma 1914, p. 689), ma ritenne opportuno tornare a Bologna, dove nel 1538 lasciò l'insegnamento di retorica e poesia per quello di umanità, a cui da quell'anno fu decretata frequenza quotidiana. Solo in seguito ripensò all'invito del pontefice, quando si trovò stanco per il peso del duplice ufficio, la cui remunerazione non bastava alla numerosa famiglia. Nel 1541 gli morì il padre ed egli dovette recarsi in Friuli, oltre che per pietà filiale, anche per provvedere all'eredità, ma fu richiamato a Bologna d'urgenza e dové affidare le pratiche a Pompilio. In una sosta di quel viaggio di ritorno, memorabile per una caduta da cavallo che gli procurò un serio malanno a un piede, ricevette a Venezia l'omaggio di un anello con splendido zaffiro da Guillaume Pellicier, ambasciatore di Francesco I presso la Signoria.
Le trattative per la sua chiamata a Roma, da lui iniziate nel 1539, furono riprese nel 1542 quando vi si recò per incarico dei Quaranta del Reggimento e vi rimase fino al marzo 1543. Nel ritorno accompagnò il pontefice che si recava a Busseto per incontrarsi con Carlo V e che gli promise come prossima la chiamata a Roma. Perciò l'A. si adoperò nel frattempo, ma senza risultato, per assicurare a Pompilio il segretariato del Reggimento e la sua cattedra di umanità. Nell'estate di quell'anno, 1543, si pensava ormai che egli stesse arrivando a Roma (v. lett. del Giovio a B. Maffei del 16 ag. 1543, in P. Giovio, Lettere, a cura di G. G. Ferrero, I, Roma 1956, p. 320). Vi andò infatti nel novembre ma, sia perché non si trovò soddisfatto della nuova situazione, sia anche per le pressioni dei Bolognesi, che vedevano in lui un forte richiamo per gli studenti d'Oltralpe, per quell'anno tornò a insegnare ancora a Bologna. A Roma si recò definitivamente verso la fine del 1544. Ivi, insieme a Pietro Vettori, riprese privatamente l'insegnamento al cardinale Farnese, ma dovette anche, suo malgrado, assumere l'incarico alla Sapienza, a cui si era mostrato restio, adducendo le condizioni dell'età e della salute. Perciò l'anno successivo era deciso di tornare nuovamente a Bologna. Il cardinale Farnese aveva dato il suo consenso e i Quaranta del Reggimento avevano fissato la condotta per cinque anni con lire 1250 di stipendio, quando Paolo III si oppose. All'A. non restò che stabilirsi a Roma.
Ma, benché rimasto, l'A. "andava empiendo Roma di querele e chiedeva ogni tratto licenza", cosicché il cardinale Farnese, che pure l'aveva protetto fino allora e l'avrebbe protetto anche in seguito, si risolse a offrire la cattedra a Paolo Manuzio, che però non accettò (lett. di P. Manuzio al card. Rodolfo Pio di Carpi del 23 maggio 1556, in E. Pastorello, Inedita manutiana, Firenze 1960, p. 66).
Fin dal suo arrivo a Roma frequentava abitualmente il cardinale Farnese, presso cui si radunavano, tra gli altri, il Molza, il Caro, Claudio Tolomei, Paolo Giovio. Il Giovio, anzi, che a Bologna, nel 1543, avrebbe desiderato far correggere da lui un libro delle Historiae, ora voleva che il Vasari lo ritraesse insieme al Bembo, al Sadoleto, al cardinale Pole, a Michelangelo nella Sala dei Cento giorni al palazzo della Cancelleria. Ma l'A. era restio e, in ogni modo, il ritratto non fu eseguito (P. Giovio, Lettere, cit., I, p. 311-12; II, Roma 1958, p. 38 e cfr. E. Steinmann, Freskenzyklen der Spätrenaissance in Rom, in Monatshefte für Kunstwissenschaft, III [1910], pp. 55-56).
Nel 1546 fu in Germania, dove accompagnò il cardinale Farnese legato per la guerra contro gli Smalcaldici.
Aveva ultimato nel frattempo la traduzione di Pausania, che uscì a Roma nel 1547 a cura del figlio Pompilio, di Camillo Paleotti, di Francesco Bolognetti, e fu dedicata al Farnese.
Alla morte di Agostino Steuco, bibliotecario della Vaticana (marzo 1548), fu tra i candidati a succedergli in quell'ufficio e, a quanto scriveva il Sirleto al Cervini, in data 22 marzo, era tra i concorrenti più seri, insieme al Pantagato e a Nicolò Maiorano (L. Dorez, Le registre des dépenses de la Bibliothèque Vaticane de 1548 à 1555, in Fasciculus I. W. Clark dicatus, Cantabrigiae 1909, p. 152). Ma tale ufficio fu ricoperto, come è noto, dal Cervini, primo cardinale bibliotecario.
Il suo nome, tuttavia, resta legato a un celebre libro della Vaticana, l'incunabulo II 145, che è l'esemplare della edizione di Plinio, Naturalis historia, Treviso 1479 (Hain, 13092) con le collazioni di Augusto Valdo. Il libro fu ricuperato dal Cervini nel 1548 perché, in seguito alle lodi fattene dall'A., il pontefice lo voleva vedere. La sua storia si ricostruisce, benché non del tutto chiaramente, attraverso L. Dorez, L'exemplaire de Pline l'ancien d'Agosto Valdo de Padoue et le cardinal Marcello Cervini, in Rev. des bibliothèques, V (1895), pp. 14-20 (che indica l'incun. con la segnatura antica) e Concilii Tridentini Diariorum pars prima, in Concilium Tridentinum, ed. soc. Goerresiana, I, Friburgi Br. 1901, p.783 n. 2,813 n. 2. L'A. continuò pertanto l'insegnamento alla Sapienza, che lasciò solo nel 1550 alla morte di Blosio Palladio, quando, ancora per le premure del cardinale Farnese, Giulio III lo chiamò alla Segreteria delle lettere latine insieme a Galeazzo Florimonte.
Morì dopo meno di due anni, nei primi giorni del giugno 1552, lasciando nei debiti i figli, che soccorse la munificenza del pontefice con breve del 20 agosto del medesimo anno. Lo stesso pontefice aveva sostenuto le spese delle esequie. Fu sepolto nella tomba di famiglia in S. Agostino.
L'A. morì prelato domestico di Giulio III (sfiorando, secondo alcuni, la nomina a cardinale), mentre esercitava un ufficio di Curia, cui aveva ripetutamente aspirato. Tuttavia, dall'insieme della sua vita, pare chiaro che tale aspirazione altro non fosse se non il tentativo di evitare le fatiche connesse con l'insegnamento, al quale egli era invece inequivocabilmente portato. Alla sua scuola accorrevano studenti di ogni parte d'Europa e molti uomini celebri del Cinquecento furono suoi allievi. Tra gli stranieri basterà qui ricordare Federico Nausea, poi vescovo di Vienna, Cristoforo Madruzzo, vescovo di Trento, il cardinale Reginald Pole, il belga Iean van Gorp (Ioannes Goropius Becanus) e, tra gli italiani, oltre a Guido Ascanio Sforza e Alessandro Farnese, già ricordati, il fratello di quest'ultimo, Ottavio, Cosimo Gheri, vescovo di Fano, Camillo e Gabriele Paleotti, Ortensio Lando, Francesco Campeggi, Bartolomeo Ricci, Francesco Robortello, Antonio Agostini (un più ampio elenco in G. G. Liruti, II, p. 361; sugli scolari ungheresi dell'A. v. anche E. Várady, Docenti e scolari ungheresi nell'antico Studio bolognese, in Rendiconto delle sessioni della Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna. Classe di Scienze morali, s. 5, vol. IV [1951], pp. 93-94, e sui rapporti dell'A. con l'Ungheria, M. Révész, Romulus Amasaeus, egy bolognai humanista magyar összeköttetései a XVI. század elején, Szeged 1933, ivi citato, ma non utilizzato per questa voce). Dalle lettere di Martin Kromer all'A. (Martini Cromeri ad Romulum Amasaeum epistulae, a cura di I. Korzeniowski, in Eos, IV [1897], pp. 62-69) abbiamo notizie anche più ampie, seppure non complete, sugli allievi polacchi e sappiamo pure che, almeno nel decennio 1540-1550 l'A. era atteso in Polonia, dove peraltro non risulta sia stato mai, e si sperava che avrebbe insegnato a Cracovia, per lasciare poi la cattedra al figlio Pompilio.
Tuttavia, l'eco degli appunti che all'A. mossero i contemporanei, trovando conferma nel carattere della sua produzione letteraria, segna chiaramente i limiti della sua figura. Secondo Giambattista Goineo (Defensio pro R. A. auditoribus adversus Sebastiani Corradi calumnias. Addita disputatio de coniungenda sapientia cum eloquentia et enumeratio auditorum Romuli, qui ex priori et posteriori schola prodierunt, Bononiae 1537) il Corrado, nel testo primitivo della sua Quaestura (e diversamente da come apparirà nell'edizione, ritardata però di oltre quindici anni, dove egli smentirà le critiche attribuitegli) avrebbe accusato l'A. di eccessivo compiacimento per le eleganze ciceroniane e di troppo scarso interesse per il pensiero e le istituzioni degli antichi. Era la critica che la nuova filologia a carattere antiquario rivolgeva al gusto più propriamente umanistico che l'aveva preceduta. D'altra parte, gli unici scritti dell'A. (almeno tra quelli pubblicati) propriamente dedicati ad autori classici, consistono in traduzioni da testi greci che certo si spiegano bene nell'ambiente bolognese della prima metà del Cinquecento, cioè nell'ambito di una delle scuole più avanzate nello studio del greco che avesse l'Italia: ma anche prescindendo dal fatto che le due traduzioni pubblicate non poterono sfuggire, a ragione o a torto, all'accusa di essere più eleganti che fedeli (P. D. Huet, De interpretatione libri duo: quorum prior est de optimo genere interpretandi, alter de claris interpretibus, Editio ...altera, Stadae 1680, p. 271, ripetuto da A. Baillet, Iugemens des savans sur les principaux ouvrages des auteurs, a cura del De la Monnoye III, Paris 1722, p. 51 n° 842: però non mancano autorevoli pareri in contrario, v. F. Scarselli, Vita R. A., Bononiae 1769, pp. 44-46), potrebbe stupire il fatto che uno dei più rinomati professori di latino e greco, in quasi mezzo secolo di insegnamento, non abbia lasciato nessun lavoro di esegesi o di critica testuale.
Tali limiti, beninteso, in un raggio più ampio sono i limiti di una cultura, quelli, cioè, della cultura umanistica italiana della prima metà del Cinquecento, in cui mancano grandi maestri e grandi opere di filologia paragonabili a quelle del secolo precedente, ma che tuttavia, attraverso la scuola, esercita ancora un'attrattiva sul restante d'Europa, come mostra l'affluire degli studenti stranieri alle lezioni dell'A. o di Lazzaro Bonamico. Perciò si deve dire che l'A. non fu un filologo, né certo uno scrittore, bensì, nel predominio del gusto ciceroniano del tempo, volle essere e fu un oratore elegantissimo, ma soprattutto un grande maestro pubblico di lettere greche e latine: un umanista, appunto, nel senso tecnico, cioè originario, del vocabolo.
Opere ed edizioni. Le opere più significative dell'A. sono state citate più sopra. L'orazione De pace, prima di essere compresa nel volume edito nel 1564, era stata stampata due volte a Cracovia nel 1530 (Gesamtkatabg der preussischen Bibliotheken, III, Berlin 1933, col. 826; ibid. per un'edizione recente: Poznań 1904). La traduzione di Senofonte fu ripubblicata numerose volte prima e dopo di essere compresa nella famosa edizione di Basilea 1545 (Catalogue général des livres imprimés de la Bibl. Nation., Auteurs, II, Paris 1899, col. 819; British Museum, General Catalogue of Printed Books, III, London and Beccles 1932, col. 903), e così pure quella di Pausania che, per quanto sottoposta a successive correzioni, si continuò a pubblicare fino al secolo scorso (Catalogue général de la Bibl. Nat..., cit., col. 819; British Museum, General Catalogue..., cit., col. 903; su di essa v. Pausaniae Graeciae descriptio. Edidit, graeca adnotavit, latinam Amasaei interpretationem adiunxit... K. G. Siebelis, I, Lipsiae 1822, pp. XLV-XLVII). L'Orationum volumen fu edito per cura di Pompilio che scelse le diciotto orazioni (sunto di ognuna in Scarselli, cit., pp. 47-51) e le dedicò a Pier Donato Cesi governatore di Bologna e nipote del cardinale Paolo Emilio, presso cui egli era stato in gioventù. A queste opere si aggiungano l'Oratio habita in funere Pauli III. Pont. Max., Bononiae, in officina Ioannis Rubei, 1563, edita pure dal figlio e dedicata al cardinale A. Farnese. L'A. stesso intendeva pubblicarla in memoria del pontefice cui era stato legato. Abbiamo inoltre notizia di un'orazione per la morte del cardinale Gaspare Contarini e di una traduzione di Aristotele, che per lo più si ritiene errore per Aristide (Scarselli, cit., p. 54).Benché i contemporanei (G. B. Giraldi e G. B. Pigna) abbiano lodato l'A. come poeta, a noi sono noti soltanto pochi suoi versi, che sono per lo più giovanili. Solo la notizia ci è pervenuta dei novecento esametri composti per la morte dello zio Leonardo (Scarselli, cit., pp. 66-67, 176).
Oltre a ciò l'A. ha lasciato numerose lettere, parte edite in varie raccolte, indicate dallo Scarselli, cit., pp. 51-54, parte edite dallo stesso Scarselli a pp. 59-66 in base al cod. 142 della Bibl. Univ. di Bologna, e a pp. 176, 178-189, 191-205, 209-210, 212-224 in base all'Ambros. A 59 inf. Brani di lettere sono anche in Ceruti, cit., pp. XXX ss., passim. Altre, ancora manoscritte, indica lo Scarselli a pp. 54-59.Quest'ultimo elenco può essere aumentato. Lettere dell'A. al Carteromaco, a B. Rutilio e ad altri sono nel Vat. Lat .4103, altre nell'Arch. di Parma, Carte Farnese, cart. A e nel cod. Add. 10263 del British Museum (tutte indicate da P. de Nolhac, La bibliothèque de Fulvio Orsini, Paris 1887, p. 134; v. pure G. Drei, L'archivio di Stato di Parma, Roma 1941, p. 46 e List of Additions to the Manuscripts in the British Museum in the Years 1836-1840, London 1843, p. 23. Di quelle contenute nel Vat. Lat.4103 esiste copia settecentesca nel Vat. Lat. 9065, ff. 58r-61v). Sue lettere a Parma sono anche alla bibl. Palatina tra le carte Beccadelli (G. B. Morandi, Monumenti di varia letteratura tratti dai manoscritti di mons. L. Beccadelli, I, 1, Bologna 1797, p. 7 n. 16; altre nei codd. Ambros. A 179 inf., D 275 inf. e probabilmente D 218 inf. (A. M. Amelli, Indice dei codd. manoscritti della Bibl. Ambrosiana, in Riv. delle Bibl. e degli Arch., XX [1909], p. 150 e XXI [1910], pp. 58, 61). Una sua lettera da Padova all'Egnazio, con data incompleta ("XIIII Kal. Iul."), è nel Vat. Reg. lat. 2023, f. 10r-v. Copia di una sua "epistola consolatoria ad episcopum Atrebatensem", scritta per conto di Giulio III, è nel Vat. Lat. 8461, p. II, f. 355r-v. L'A. scrisse poi una vita del padre Gregorio e alcune note autobiografiche edite da A. Ceruti, Diarii..., cit., pp. LXXXIV-XCI.
Infine, qui vanno segnalate altre tre opere. Un panegirico in versi "Francisco Vardaeo Vaciae praesuli dignissimo dicatus" è conservato a Bologna nel ms. A 2686 della Bibl. comun. dell'Archiginnasio, v. A. Sorbelli, in G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle Bibl. d'Italia, XLVII, p. 128.
Da una lettera al cardinale A. Farnese citata dal Liruti, II, p. 375 era noto che l'A. aveva atteso a tradurre Polibio. Probabilmente copia di tale lettera è la dedica premessa al De Scipione Africano maiore, deque eius ductu, et auspiciis, Carthagine nova expugnata, ex Polybii historiarum lib. X, conservataci nel Vat. Lat. 6206, ff. 150r-163r. La dedica al cardinale Farnese, da cui appare che tale traduzione è posteriore a quella di Pausania, è al f. 148r-v. Ai ff. 149r-150r vi è una notizia su Polibio. Un ulteriore scritto dell'A., intitolato Eucaristicon (Romae 15 martii 1546) è nell'Ambros. S 86 sup., ff. 355r-360v (A. Rivolta, Catalogo dei codici pinelliani dell'Ambrosiana, Milano 1933, p. 162).
Fonti e Bibl.: La maggior parte delle fonti sono riportate dallo Scarselli, cit., pp. 68-232. Alle opere citate più sopra (di cui, all'occorrenza, si tenga presente l'indice) vanno aggiunte: G. Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori scultori ed architetti, a c. di G. Milanesi, VII, Firenze 1881, p. 681; E. Pastorello, L'epistolario manuziano, Firenze 1957, nn. 178, 1504, 641, 491, 1233; U. Dallari, I rotuli dei lettori legisti e artisti dello Studio bolognese, I, Bologna 1888, p. 216 e II, ibid. 1889, passim. Infine vanno segnalate alcune lettere dirette all'A., che per lo più non sono state ancora utilizzate: ventitré del Giberti sono nell'Ambros. D 191 inf. (Rivolta, Catalogo dei codici pinelliani..., cit., p. 250),altre di Achille Bocchi sono nell'Ambros. D 145 inf. (Amelli, Indice dei codici..., cit., in Riv. delle Bibl. e degli Arch., XXI [1910], p. 44),del card. Pole, dell'Egnazio, di F. Forni, di B. Rutilio, di M. A. Roscio, di S. Bianchini, di M. Kromer, nell'Egerton 1998 del British Museum (Catalogue of Additions to the Manuscripts in the British Museum in the Years 1854-1875, II, London 1877, p. 943; quelle del Kromer sono state pubblicate dal Karzeniowski, Martini Cromeri ad R. A. epistulae, cit.). Una lettera all'A. di Alberto Lollio è nel ms. Cl. I 145 della Bibl. Comunale di Ferrara (G. Agnelli-G. Ravegnani, in G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle Bibl. d'Italia ,LIV, p. 199).
I repertori bio-bibliografici in cui si parla dell'A. sono indicati da L. Ferrari, Onomasticon, Milano 1947, p. 24. Di essi basterà qui ricordare: G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, I, 1, Brescia 1753, pp. 579-589;G. G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da' letterati del Friuli, II, Venezia 1762, pp. 349-385; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, I, Bologna 1781, pp. 206-219 e IX, ibid. 1794, p. 21. Ovviamente superati e talora inesatti sono I. F. Tomasini, Gymnasium Patavinum, Utini 1654, p. 341 e I. Facciolati, Fasti Gymnasii Pauzvini, I, Patavii 1757, p. LVII; F. Buonamici, De claris pontificiarum epistolarum scriptoribus, Romae 1770, p. 88 e 233-234.
Ancora utile invece G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, III, Milano 1833, p. 327 e IV, pp. 127-128, 273-274, 304. Oltre alla bibliografia citata in precedenza, v. G. Marangoni, Lazzaro Bonamico e lo Studio padovano nella prima metà del Cinquecento, in Nuovo Arch. Veneto, n. s., I, 1(1901) pp. 132-135; V. Cian, Per la storia dello Studio bolognese nel Rinascimento. Pro e contro l'A.,in Miscell. di studi critici edita in onore di A. Graf, Bergamo 1903, pp. 201-219; C. Malagola, Della vita e delle opere di Antonio Urceo detto Codro, Bologna 1878, pp. 113-114, 118; E. Costa, La prima cattedra d'umanità nello Studio bolognese durante il sec. XVI, in Studi e Mem. per la storia dell'univ. di Bologna ,I, 1, Bologna 1907, pp. 26-30; G. Zaccagnini, Storia dello Studio di Bologna durante il Rinascimento, Genève 1930, pp. 281-284; L. Simeoni, Storia della Università di Bologna, II, Bologna 1940, pp. 32, 43, 72; F. Flamini, Il Cinquecento, Milano a. d., pp. 95,98-99, 127, 388; G. Toffanin, Il Cinquecento, Milano 1960, pp. 21-25, 77. Sulle due orazioni De l. l. usu retinendo: V. Cian, Un decennio della vita di M. Pietro Bembo, Torino 1885, pp. 148-150; R. Sabbadini, Storia del ciceronianismo e di altre questioni letterarie nell'età della Rinascenza, Torino 1885, pp. 129-130; L. Savino, Una polemica linguistica del Cinquecento, in Rass. critica della letter. ital., XVI (1912), pp. 193- 224; C. Calcaterra, Alma mater studiorum. L'Università di Bologna nella storia della cultura e della civiltà, Bologna 1948, pp. 195-197, 202 (con inesattezze); B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1960, pp. 326-328; v. infine A. Ronchini, R. A., in Atti e Mem. delle RR. Deput. di storia patria per le prov. modenesi e parmensi, VI (1872), pp. 275-283; N. Spano, L'Università di Roma, Roma 1935, pp. 29-30 e 337 (con qualche inesattezza); C. Dionisotti, Discorso sull'umanesimo italiano, [Verona] 1956, pp. 28-29.