ROMOLO e Remo
Romolo (Romŭlus) è l'eponimo e il fondatore di Roma. È corrente presso gli antichi l'uso di spiegare l'origine di una città, di una tribù, di una gente per mezzo di un eponimo che ne sarebbe stato il fondatore o il capostipite e le avrebbe dato il nome. Quest'uso è diffusissimo presso i Greci, ma è arbitrario ritenere che gl'Italici lo abbiano desunto da essi e che non sia indigeno in Italia come altrove. Lo scarso valore storico che hanno di regola siffatte spiegazioni si dimostra da ciò che il nome della città della tribù o della gente assai spesso non deriva da quello dell'eponimo, ma viceversa il nome dell'eponimo deriva dall'altro e lo presuppone. Tale è in particolare il caso del nome di Romolo. Questo deriva dal nome di Roma e lo presuppone; è formato da esso con un suffisso che ricorre frequente negli appellativi etnici italici (Rutulus, Siculus, Aequiculus), accanto all'altro in -anus (Lucanus, Campanus, Sicanus). Sicché Romulus sta a Romanus precisamente come Siculus sta a Sicanus; e il significato appellativo di Romulus non si era smarrito ancora nell'età augustea (p. es., Romula gens è in Orazio). I due appellativi Romulus e Romanus si sono differenziati nell'uso. Anche Romanus è stato adoperato qualche volta per indicare l'eponimo (Plut., Rom., 2), ma di regola poi ha designato il popolo di Roma; e Romulus, che pure qualche volta ha indicato il popolo, ha servito poi quasi esclusivamente a designare l'eponimo.
Questo eponimo è di origine indigena come mostra sia il nome Roma, che si spiega assai bene da radici indoeuropee, sia il suffisso con cui è formato; ed è affatto arbitrario cercarne l'origine sulla base di qualche assonanza in un prenome o in un gentilizio etrusco (Schulze). Quando i Romani si siano dati come eponimo e fondatore Romolo, non sappiamo; a noi il nome appare per la prima volta in uno scrittore greco fiorito intorno alla metà del sec. IV, Alcimo. Già prima i Greci avevano a loro modo, senza sentore della leggenda indigena, costruito l'eponimo di Roma: era una donna di nome ‛Ρώμη o un uomo di nome ‛Ρῶμος che collegavano variamente, con Ulisse o con Enea, l'eroe greco e l'eroe troiano, le cui peregrinazioni erano state da tempo assai antico argomento dei loro carmi. Roma non fu assunta in nessun modo nella leggenda indigena: Romo venne equiparato col gemello di R., noto a quella leggenda, Remo, e fu adoperato costantemente anche dagli scrittori greci più tardi quale traduzione del nome di quest'ultimo.
In Oriente ed in Grecia è diffusa la leggenda che il fondatore d'una città, o il capostipite, o re di un popolo, sia stato esposto bambino dai genitori o dȧ uno di essi e poi, salvato miracolosamente spesso per mezzo di un animale che gli offerse le mammelle (cerva, capra, ecc.), abbia finito col farsi riconoscere e vendicarsi su quelli che lo avevano fatto esporre. Queste leggende sono basate sopra un motivo novellistico che era facile si svolgesse col sussidio anche di esperienze reali presso popoli in condizioni primitive di civiltà tra i quali l'uso dell'esposizione dei bambini era ammesso e frequente. È arbitrario il credere che i Greci lo desumessero dall'Oriente come pure che i Romani lo desumessero dai Greci. Presso gl'Italici esso s'innestava con la credenza che l'animale sacro avesse guidato la tribù nelle sue sedi (Picenti, Irpini) o l'avesse condotta alla città che fu la sua capitale (Boviano). Tale è probabilmente l'origine della lupa che allattò il fondatore di Roma, esposto per ordine del re d'Alba, Amulio, perché nato misteriosamente da Rea Silvia, la figlia del fratello di lui Numitore. Può darsi che, come s'è voluto desumere da qualche rappresentazione figurata, una leggenda analoga esistesse in terreno etrusco; ma, lungi dall'attribuire origine etrusca alla leggenda di Romolo, tenuto conto dell'importanza che il lupo ha nei culti italici e greci, dovremo ritenere che se leggende simili sono veramente antiche in Etruria, il che non è provato, esse debbono la loro origine al sostrato italico di cui gli Etruschi subirono l'influsso nelle loro sedi storiche.
Le leggende greche che parlano di bambini esposti spesso accennano a gemelli esposti insieme. Era infatti naturale che il motivo novellistico del fanciullo esposto e salvato si consertasse col motivo novellistico anch'esso desunto da reali esperienze di vita, dei due fratelli collaboratori o rivali. Che questa combinazione così naturale dei due motivi avvenisse indipendentemente anche in Italia, non v'è nessuna ragione di negare. A Roma vi poteva essere per tale fusione un motivo particolare, la tendenza cioè a proiettare in età antichissima le origini della diarchia consolare dell'età storica; la quale tendenza sembra esplicarsi nella leggenda di Romolo e di Tazio non meno che in quella di Romolo e di Remo. Del resto la figura di Remo è scialba ed oscura. Essa sembra collegarsi con una località di nome Remuria e forse con una divinità di nome Remurina, sicché non è verosimile l'ipotesi che Remo sia in origine una traduzione del greco Romos (Kretschmer) e che i Romani l'abbiano inserito nella loro leggenda quando nel sec. IV conobbero dai mercanti greci l'eponimo che i Greci assegnavano a Roma. Comunque, la tradizione sulla monarchia romana precedente alla repubblica era così salda che Remo al pari di Tazio non poteva non scomparire subito di fronte al fondatore e primo re di Roma Romolo, e l'antichissimo motivo novellistico della rivalità dei fratelli, terminata col fratricidio, dava facile spiegazione di tale scomparsa.
Su altri elementi della leggenda delle origini si può qui sorvolare. Che, collegati i Troiani con le origini latine, si facesse di R. il nipote o pronipote di Enea, era ben naturale; come pure che, fissata la lista dei sette re e quindi riconosciuto l'intervallo tra le origini di Roma e la data tradizionale della caduta di Troia, s'inserisse fra Enea e Romolo la serie dei re di Alba, e dunque R. fosse riguardato quale discendente dell'ultimo di questi re Numitore. Si capisce altresì come l'esposizione dei gemelli e l'allattamento della lupa si localizzassero alle falde del Palatino presso la grotta del Lupercale; come pure che un'antichissima capanna rimasta sul Palatino si considerasse il tugurio di Romolo o del pastore che l'avrebbe raccolto, Faustolo; né è meno naturale che nelle tarde redazioni sia poetiche sia annalistiche, la leggenda si abbellisse con particolari drammatici desunti da qualche tragedia greca in cui si narravano vicende analoghe, p. es., la Tiro di Sofocle. Caratteristica poi di queste leggende essendo spesso che la paternità dei bambini esposti era incerta, era pur naturale che ai gemelli si desse un padre divino. Con ciò la leggenda si consertava con la tendenza a fare di un dio la guida o il progenitore di una tribù. E questo spiega perché i gemelli di cui era ignoto il padre si riguardassero da un popolo guerriero quale il romano, come figli di Marte, sebbene non sia facile datare il momento in cui tale paternità assunse nella tradizione romana valore canonico. Quanto alla connessione del fico Ruminale con la leggenda delle origini, essa è dovuta probabilmente a un falso collegamento etimologico di questo nome con Romolo, mentre si collega in realtà con la dea Rumina. Siffatto collegamento ha poi indotto a supporre che il fico Ruminale, il quale in età storica si trovava sul Foro presso il Comizio, fosse in origine alle falde del Palatino presso il Lupercale, donde lo avrebbe trasportato miracolosamente nel Foro l'augure Atto Navio. Per la connessione di Romolo con Rea Silvia e Acca Larenzia, si veda alle voci relative. Qui basterà aggiungere che la leggenda della lupa e dei gemelli doveva già essere diffusa in Roma quando i fratelli Gneo e Quinto Ogulnio, edili curuli nel 296, come Livio riferisce ad ficum Ruminalem simulacra infantium conditorum urbis sub uberibus lupae posuerunt (X, 23,12). Si suole dire perciò che essi dedicarono un simulacro della lupa allattante i gemelli presso il Lupercale. In realtà Livio parla del fico Ruminale e come non sembra che egli conoscesse altro fico Ruminale se non quello del Foro, la localizzazione del simulacro presso il Lupercale è incertissima, ma non meno incerto è che essi dedicassero l'immagine della lupa. Il testo suggerisce piuttosto che gli Ogulnî aggiunsero i gemelli sotto le poppe della lupa precisamente come in età moderna furono aggiunti i gemelli sotto le poppe della lupa capitolina. La quale ultima è un'opera d'arte ionica o più probabilmente d'arte etrusca sotto l'influsso ionico del 500 circa a. C., e non sappiamo se si colleghi o no e in qual modo con la leggenda dei fondatori di Roma. Essa si trovava nel Medioevo presso il Laterano, donde fu trasportata sul Campidoglio, e non vi è nessuna ragione d'identificarla, come si è fatto, sia con la lupa degli Ogulnî, sia con la lupa capitolina di cui parla Cicerone, che al suo tempo, percossa dal fulmine, fu strappata dalla base lasciandovi le tracce delle zampe. Comunque, anche le monete romano-campane con la immagine della lupa e dei gemelli ci riportano, per la leggenda e per il tipo plastico che la rappresentava, a un dipresso alla data stessa del monumento degli Ogulnî.
Romolo, fattosi conoscere dal nonno Numitore, ucciso il fratello di lui Amulio che aveva usurpato il regno d'Alba e restituito a Numitore il trono, si preparò a fondare insieme col fratello una nuova città cui diede il nome di Roma. Questa sorse sul Palatino. Venuto a rissa con Remo, mentre se ne costruivano le mura, lo uccise per aver osato saltare su di esse. Così fu assicurato il suo regno giusta l'auspicio a lui riuscito più favorevole che al fratello Remo, auspicio che veniva narrato in vario modo. Poi, per popolare la nuova città, R. aperse un asilo sul Capitolino e agli avventurieri di varia provenienza raccolti a questo modo provvide a dar moglie per mezzo del ratto delle Sabine. Così la leggenda. Ma è chiaro che qui è contaminazione di due racconti contraddittorî. Secondo l'uno Roma è una legittima colonia di Alba, l'antichissima città che la tradizione riguarda come la metropoli di tutte le città latine perché aveva in origine la presidenza delle ferie comuni celebrate dai Latini nel suo territorio sul Monte Albano. L'altro racconto è quello dell'asilo, strettamente connesso col ratto delle Sabine. Per esso i Romani non sono veri e genuini Latini, legittimi coloni d'Alba, ma una miscela d'avventurieri d'origine varia e di razza mista. Delle due leggende contrastanti e mal fuse nella tradizione canonica, l'una è d'origine romana e tende a mostrare Roma come il più legittimo rampollo di Alba a cui perciò sarebbe giustamente succeduta nell'egemonia del Lazio; l'altra è di origine latina, malevola per i Romani e destinata a giustificare l'avversione dei Latini contro Roma, considerata come sorellastra, e la loro unione in una lega da cui Roma era esclusa, non meno che poi i tentativi per liberarsi dalla sua egemonia. Ma il caso di popoli che hanno accettato, trasformandole, dicerie malevole divulgate da altri popoli sulle loro origini, non è raro. Ed è facilmente spiegabile come le leggende latine confluissero nella tradizione romana, quando si tenga conto dei molti Latini che furono a poco a poco assorbiti nella cittadinanza di Roma e che già sulla fine del sec. IV dovevano essere almeno altrettanto numerosi quanto i discendenti dei Romani dell'età regia.
Il ratto delle Sabine avrebbe dato luogo a una guerra che per la mediazione delle Sabine stesse rapite finì con la fusione dei Romani e dei Sabini invasori in un solo popolo su cui dovevano regnare insieme R. e il sabino Tito Tazio. Secondo varî moderni, questa leggenda si collegherebbe con avvenimenti assai più tardi, come l'incorporazione dei Sabini nello stato romano e la concessione ad essi della cittadinanza nel sec. III. È assai difficile che la sua origine sia cosi recente. Essa rispecchia forse l'estendersi del territorio romano fra il Tevere e l'Aniene in regione che in origine non doveva far parte del Lazio e che anche più tardi è stata spesso considerata come sabina, sicché fino da età assai antica molti cittadini romani potevano ritenersi sabini, al modo stesso che più tardi la villa Tiburtina di Catullo poteva anche dirsi sabina. Ma i tentativi antichi e moderni per distinguere nella religione e nelle istituzioni romane un elemento specificamente sabino, debbono in massima considerarsi falliti. Quanto ai particolari della leggenda, il tradimento di Tarpeia, la prodezza di Curzio, il voto fatto da R. del tempio di Giove Statore, si collegano con nomi locali o con ricordi topografici, e non è il caso di analizzarli partitamente. Basti accennare a modo d'esempio che la notizia sul voto del tempio di Giove Statore sembra tarda, questo tempio essendo stato eretto nel 294 da M. Attilio Regolo che lo aveva votato durante la terza guerra sannitica. Prima della guerra coi Sabini R. aveva già vinto quelli di Cenina, Antemne e Crustumeria sorti in armi contro di lui per la medesima ragione, e di Acrone re di Cenina aveva riportato le spoglie opime dedicandole a Giove Feretrio, particolare questo destinato ad attribuire al fondatore di Roma l'origine dell'uso di dedicare in quel santuario le spoglie del duce nemico ucciso. Di altre guerre di Romolo si ricorda quella contro i Fidenati e i Veienti che sarebbe terminata con l'annessione a Roma del più antico territorio a essa spettante sulla riva destra del Tevere, poi ascritto alla tribù rustica detta Romulia.
Questa tribù come la stessa gens Romulia o Romilia, che le diede o ne ebbe il nome, fu probabilmente chiamata così dall'appellativo etnico di Romuli con cui furono designati i Romani stabiliti sulla riva destra del Tevere.
A Romolo come a fondatore di Roma si attribuivano le istituzioni antichissime della città, esclusa la maggior parte delle istituzioni religiose che si ascrivevano al suo pacifico successore, Numa Pompilio. Egli avrebbe stabilito le insegne della dignità regia, assunto dodici littori, diviso il popolo tra patrizî e plebei, assicurata la tranquillità della plebe ponendola nella clientela dei patrizî. A lui pure si dovrebbe la divisione del popolo nelle tre più antiche tribù, i Tities, che così sarebbero chiamati da T. Tazio, i Ramnes, così detti da lui stesso, e i Luceres, di cui variamente si spiegava il nome e l'origine, pur connettendo questa con R. Dalle tre tribù levando mille soldati per ciascuna, egli avrebbe formato la primitiva legione di 3000 uomini con un contingente di 300 cavalieri (celeres), divisi in tre centurie portanti ciascuna il nome della tribù da cui era prelevata. A R. si attribuiva anche il primitivo senato costituito di 100 patres e l'introduzione degli auspici, come pure di varî culti tra cui quella di Giove Statore e Giove Feretrio e infine non poche delle norme tradizionali che si conoscevano sotto il nome di leges regiae. Per la reale origine di tali istituzioni si veda in genere alle rispettive voci. L'artificiosità della tradizione che le ascriveva tutte a R. spicca particolarmente nella creazione a lui attribuita del patriziato e della plebe, quasi il legislatore possa creare dal nulla le classi sociali. Per quanto la deificazione di un mortale si possa ritenere contraria ai principî della religione romana più antica, la deificazione di R. appare già in Ennio, forse sotto l'influsso di concetti ellenistici. Essa però dovette essere favorita dall'identificazione di R. con Quirino. Quirino era un dio ed era al tempo stesso un altro eponimo del populus Romanus Quiritium. Perciò la sua identificazione con Romolo, di cui non abbiamo testimonianze se non dall'età di Cicerone, è probabilmente assai più antica; e anzi è da ritenere che essa, consertandosi con concetti ellenistici, abbia permesso il diffondersi in Roma dell'opinione che R. fosse assunto tra gli dei; perché del resto un dio R. è affatto estraneo all'antica religione romana, sebbene la nostra tradizione riferisca che il suo culto fu introdotto dal suo successore Numa.
Quanto alla morte di Romolo, si narrava che scomparve misteriosamente durante un temporale, mentre teneva un'adunanza del popolo o una rassegna militare. Anche qui l'influsso di concetti greci non sembra dubbio. Che R. durante il temporale fosse stato ucciso dai nuovi cittadini o, come più comunemente si diceva, dai senatori, parrebbe una razionalizzazione della leggenda della scomparsa misteriosa, e tuttavia il particolare ingenuo nello stesso tempo e feroce che i senatori avrebbero fatto a pezzi il corpo di R. e distribuito tra sé i pezzi per nasconderli, conserva forse la traccia di un antichissimo motivo leggendario di cui non si spiega l'origine ascrivendolo, con qualche moderno, all'età di Silla. Siffatto particolare ad ogni modo si collega con quelle tradizioni che rappresentano R. come un tiranno violento e crudele. E queste forse sono anch'esse abbastanza antiche e si possono spiegare con l'odio repubblicano dei Romani per il nome regio.
Sappiamo dagli antichi che presso il Comizio si additava un niger lapis che veniva collegato dalla tradizione con R. ritenendo che designasse il luogo della sua tomba o di quella di Faustolo o di Osto Ostilio. Non è dubbio che questo niger lapis è il lastricato nero scoperto a poca distanza dalla chiesa di S. Adriano, cioè dalla curia Giulia negli scavi fatti nel 1899 da G. Boni, e che i monumenti rinvenuti sotto il lapis niger sono i residui di quelli che la tradizione riporta appunto alla tomba di R. o di Faustolo o di Ostilio; in particolare i due basamenti sostenevano certo i leoni di cui parlava Varrone. Sorvolando sulle molte questioni che si riferiscono a questi monumenti e specie sull'interpretazione dell'epigrafe arcaica incisa sul più importante tra essi, il cosiddetto cippo del Foro, basterà dire che, se la creduta tomba del primo re di Roma non era una tomba, era anche meno il mundus o un mundus della città, come varî moderni congetturano, e che l'epigrafe non è punto una iscrizione sepolcrale, come pare ritenesse la fonte di Dionisio di Alicarnasso che sembra averla veduta, ma senza intenderne il significato.
Bibl.: A. Schwegler, Römische Geschichte, I, 2ª ed., Tubinga 1867, p. 384 segg.; W. Ihne, Römische Geschichte, I; 2ª ed., Lipsia 1893, p. 6 segg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, p. 206 segg.; E. Pais, Storia critica di Roma, I, Roma 1913, pp. 381 segg. e 416 segg.; A. Rosenberg, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I A, col. 1074 segg. Per la leggenda della lupa: E. Petersen, in Klio, VIII (1908), p. 440 segg.; IX (1909), p. 29 segg.; G. De Sanctis, in Rivista di filologia, XXXVIII (1910), p. 71 segg.; J. Carcopino, La louve du Capitole, Parigi 1925; L. Curtius, in Mitteil. des deutsch archäol. Instituts (Röm. Abt.), XLVIII (1933), p. 194 segg. Per li lapis niger, v. la bibl. in S. B. Platner, A topographical Dictionary of ancient Rome, Oxford 1929, p. 482 segg. Nel rispetto storico esso è illustrato da G. De Sanctis, in Rivista di filologia, XXVIII (1900).