FOSCARARI (Foscherari), Romeo
Nacque a Bologna verso l'anno 1363, secondo figlio di Francesco, ricco banchiere con solidi agganci nei centri del potere cittadino. Nel 1385, seguendo una secolare tradizione familiare, acquisì il titolo di notaio, ma non sembra lo abbia utilizzato per svolgere la professione o per ricoprire impieghi pubblici. Sposò poco dopo Dorotea, della famiglia Bolognini, grandi mercanti di seta. Dal matrimonio nacquero i figli Andrea, che morì alla metà del sec. XV lasciando numerosi discendenti, Matteo e, probabilmente, Francesco e Cecilia. Nel 1388 una ricca donazione del suocero gli permise l'acquisto di un considerevole patrimonio terriero a Granarolo, dall'amministrazione del quale venne espressamente esclusa ogni ingerenza paterna. Nell'agosto del 1394 si addottorò in diritto civile, presentato all'esame da Francesco Ramponi e Giovanni Canetoli, due nomi di spicco nello Studio cittadino.
Nella prima parte della sua vita gli interessi del F. restarono circoscritti all'ambito culturale. Oltre allo studio del diritto coltivò anche quello dei classici, della letteratura volgare e soprattutto delle Sacre Scritture. Ne trasse con dovizia elementi per dotte citazioni nei suoi discorsi, connessi in particolare alla sua attività diplomatica, dei quali restano alcuni esempi in un codice della Biblioteca universitaria di Bologna (ms. Lat. 1569). Estranei sembra gli fossero invece gli interessi per la politica; solo dopo la morte del padre e, scomparso nel frattempo il fratello maggiore Opizzone, il F. venne indotto ad assumere i primi incarichi pubblici, che furono subito di altissimo livello. Fu infatti il primo dei Sedici riformatori dello Stato di libertà nel secondo semestre del 1400: nasce il sospetto che più dei meriti personali abbiano giocato a suo favore il prestigio e le ricchezze del padre.
Con lui, tra i riformatori, erano Nanne Gozzadini e Giovanni Bentivoglio e il F. venne immediatamente coinvolto nei contrasti politici che segnarono l'avvio della prima signoria bentivolesca. Il 14 marzo 1401 Giovanni Bentivoglio venne acclamato signore di Bologna e il F., suo sostenitore, venne creato cavaliere e nominato depositario generale e tesoriere del Comune per il secondo semestre del 1401. La sconfitta e la morte di Giovanni Bentivoglio a opera delle milizie viscontee nel giugno del 1402 e il successivo passaggio del dominio di Bologna a Gian Galeazzo Visconti allontanarono il F. da un potere cui forse non teneva in modo particolare. D'altra parte che egli non fosse ritenuto personaggio di primo piano tra i sostenitori del Bentivoglio lo rivela la circostanza che, nonostante gli elevati incarichi ricoperti durante la signoria, il F. poté, alla sua caduta, restare in città. L'inasprirsi delle condizioni in Bologna nell'estate del 1403 sotto l'ultimo governatore visconteo, Facino Cane, indusse però il F. ad assumere una posizione critica nei confronti di questo, e fu perciò colpito da un provvedimento di bando, dal quale egli risulta tuttavia essere stato poco tempo dopo liberato.
Nel settembre del 1403 entrò in Bologna il legato pontificio, cardinale Baldassarre Cossa, che instaurò, di fatto, una sua personale signoria e il F. venne chiamato a collaborare con il nuovo regime. Nell'ottobre del 1404, fu inviato a sostituire il podestà di Faenza, deceduto nell'incarico; negli anni successivi non risulta che abbia assunto altri incarichi pubblici. La sua presenza in Bologna tra il 1405 e il 1412 è tuttavia attestata dagli atti notarili con i quali provvide, insieme col fratello Raffaello, all'esecuzione di legati disposti dal padre, all'assegnazione della dote alla sorella Costanza e alla gestione di beni comuni.
La cura rivolta esclusivamente agli interessi privati rivela il profondo distacco del F. dall'effettivo detentore del potere in Bologna, Baldassarre Cossa, e dalla sua corte, anche dopo che nel maggio del 1410 il Cossa ascese al pontificato col nome di Giovanni XXIII. Questa presa di distanza fu motivata anzitutto, per quanto attestato dallo stesso F., da ragioni d'ordine morale. In un discorso, conservato solo in parte nel già ricordato codice della Biblioteca universitaria di Bologna e indirizzato a Sigismondo di Lussemburgo, il F. lamentava lo stato deplorevole della Cristianità, oppressa dai mali che procedevano dal falso papa Giovanni XXIII, del quale enumerava difetti e vizi con un linguaggio che anticipava quello dei padri conciliari.
Nel gennaio del 1416 un'ennesima rivolta provocò la fuga del legato pontificio e un tentativo di ripristinare forme di autonomia comunale. Il potere venne assunto dal Collegio dei riformatori, rinnovato nei suoi membri, fra i quali compare anche il Foscarari. L'anno successivo l'elezione di Martino V al soglio pontificio aprì alle più rosee speranze gli animi dei componenti il gruppo dirigente cittadino. Nel discorso indirizzato al pontefice, dopo averne esaltato le incomparabili virtù, il F. sottolineava la particolare esultanza di Bologna, pronta a offrire al papa il giuramento di fedeltà. Le numerose ambascerie, con le quali la città si affrettò a dimostrare il proprio zelo nei confronti di Martino V - il F. fu uno degli ambasciatori inviati fin dal novembre 1417 per incontrare a Mantova il pontefice proveniente dal concilio di Costanza -, chiarivano nel contempo le reali aspettative di coloro che avevano assunto il potere: essi richiedevano infatti la concessione del vicariato apostolico che avrebbe affrancato la città dalla stretta soggezione a Roma.
Le idee di Martino V in proposito erano peraltro nettamente in contrasto con quelle dei Bolognesi, i risultati delle ambascerie furono così praticamente nulli e la pressione del papa nei confronti del gruppo dirigente cittadino, restio ad accettarne le direttive, giunse all'emanazione dell'interdetto. I sentimenti dell'oligarchia bolognese trovarono espressione nella produzione letteraria del F., che attaccò il papa con un discorso di inusitata asprezza: Martino V vi era descritto come il fariseo sedutosi sulla cattedra di Mosè, il pastore del gregge di Dio fattosi lupo, il vicario di Cristo che portava guerra invece di pace. Non si conosce la data di compilazione del discorso, ma la tensione che lo pervade ne fa attribuire la redazione agli anni conclusivi del pontificato di Martino V.
Il dissenso espresso nei riguardi del papa non impedì al F. di collaborare con il governo pontificio, specie nel periodo iniziale. Nel maggio del 1426 fu nel gruppo dei notabili bolognesi che accompagnarono il legato, partito da Bologna per prendere possesso di Imola e Forlì, cedute al papa da Filippo Maria Visconti. Dal dicembre 1426 al giugno successivo venne inviato dal papa a ricoprire l'incarico di podestà a Perugia. Questo avvenimento sembra essere stato un episodio, del tutto isolato, di partecipazione del F. alla struttura del potere pontificio.
Datano invece proprio da questi anni le testimonianze dell'accostarsi del F. alle posizioni sostenute dagli esponenti della famiglia Canetoli, attorno ai quali si andavano coagulando le forze cittadine più decisamente ostili al dominio pontificio e pronte ad appoggiarsi ai Visconti in funzione antiromana. Ai primi di agosto del 1428 i Canetoli, impadronitisi con le armi della piazza e dei palazzi del governo, costrinsero alla fuga il legato. Tra i componenti degli organi direttivi cittadini, nominati in seguito a questi avvenimenti, fu anche il F., chiamato a far parte del Collegio dei riformatori.
Nel 1430 iniziò per il F. un periodo di intensa attività diplomatica con l'obbiettivo di ristabilire un'intesa tra il papa e la città. I contrasti erano peraltro troppo forti (il papa caldeggiava il ritorno in Bologna di Antonio Bentivoglio per tenere a freno i Canetoli, mentre questi trovavano in Filippo Maria Visconti un interessato appoggio alle proprie aspirazioni) per poter essere sanati da iniziative diplomatiche provenienti dalla sola città; così, nel luglio del 1430, il F. si vide stracciare dal nuovo legato il testo degli accordi faticosamente raggiunti poco prima con lo stesso legato, né migliore risultato sortì nell'ottobre successivo l'ambasceria del F. con Giacomo delle Corregge presso Niccolò III d'Este, che si era offerto come intermediario tra il papa e Bologna. Il F. e gli altri notabili cittadini mostravano di non rendersi conto che Bologna non poteva trattare autonomamente la propria sorte. La città rientrava ormai in un complesso gioco, tra le mire di Milano e Roma, di Venezia e Firenze, pur se in questo gioco essa era una delle poste, non uno dei partecipanti.
Nel marzo del 1431 l'elezione a pontefice di Gabriele Condulmer, già legato a Bologna nel 1423, che prese il nome di Eugenio IV, riaccese ancora una volta le speranze e le illusioni dei Bolognesi e dello stesso Foscarari. I mesi che seguirono l'elezione videro il proliferare di iniziative diplomatiche e il F. fu tra gli ambasciatori che nello stesso mese di marzo la città decise di inviare a Roma per raggiungere un nuovo accordo con il papa.
Gli ambasciatori bolognesi giunsero a Roma solo nel mese di giugno. L'accoglienza ricevuta fu sostanzialmente favorevole in quanto il papa aveva necessità, per sé e per gli alleati veneti e fiorentini, di mantenere nell'orbita antiviscontea il gruppo dirigente della città felsinea. Anche il F. trasse giovamento dalla benevolenza del pontefice che lo incluse tra i venti membri del Collegio incaricato di procedere alla nomina di tutti i componenti degli organi direttivi cittadini.
Nel dicembre del 1431 Eugenio IV decretò il trasferimento del concilio da Basilea a Bologna, iniziativa che gli consentì di accentuare il proprio controllo sulla città.
Nel 1432 i venti membri del Collegio nominato l'anno prima dal papa - del quale faceva parte il F. - sostituirono alla guida della città il Collegio dei riformatori; quando si sparse la voce di un imminente assalto alla città da parte delle milizie di Filippo Maria Visconti, il F. fu scelto quale ambasciatore a Firenze per impetrarne aiuti. Nel gennaio del 1435 egli fu di nuovo eletto nell'organo che deteneva il governo della città, una balia di dieci membri, partecipe quindi del movimento di opposizione sostenuto dai Canetoli contro il papa e soprattutto contro il tradizionale avversario di fazione, Antonio Bentivoglio, il cui ritorno in città era propiziato dal pontefice. Nell'autunno Eugenio IV, avvalendosi del sostegno finanziario di Cosimo de' Medici, riuscì a riportare sotto il proprio controllo la città. La riaffermazione del dominio pontificio venne mascherata nei termini di un accordo che fu negoziato a Firenze dai rappresentanti bolognesi, tra i quali il F., e il papa, e che venne siglato il 27 settembre.
I discorsi composti dal F. in tale occasione, o a essa dedicati, furono incentrati sul tema della pace, l'aspettativa della quale era ampiamente diffusa in città. Il regime violento e dispotico instaurato dai rappresentanti pontifici, fra i quali il condottiero Baldassarre d'Offida, con lo scopo di ridurre il potere economico e politico dell'oligarchia cittadina, parve porre un freno ai contrasti interni. Anche il soggiorno di Eugenio IV a Bologna dall'aprile 1436 al gennaio 1438 contribuì a una sostanziale pacificazione.
Il F. fece probabilmente da scorta al viaggio compiuto dal papa da Firenze a Bologna: in occasione del suo ingresso in città egli compose alcune orazioni nelle quali ritroviamo affermato, accanto al ricorrente tema della pace, il riconoscimento che tale obbiettivo era stato raggiunto con la sottomissione dei Bolognesi al dominio del pontefice. Il F. intervenne successivamente in difesa di Eugenio IV e ne sostenne l'estraneità, peraltro alquanto dubbia, nella cattura di Baldassarre d'Offida, compiuta da Francesco Sforza nel settembre 1436 nel corso dell'assedio di Budrio. Le più alte lodi in onore del pontefice furono espresse in un discorso del gennaio del 1437, che fu probabilmente l'ultimo da lui composto.
Le speranze riposte dal F. e da altri Bolognesi in Eugenio IV erano destinate però a svanire. Nel gennaio del 1438 il papa, dopo aver fatto balenare la prospettiva di convocare il concilio in Bologna e aver raccolto a tale scopo pesanti contributi fiscali, lasciò la città per indire il concilio a Ferrara. L'allontanamento del papa dette occasione a un nuovo rivolgimento e nel maggio, auspice il fratello del F., Raffaello, la città aprì le porte al capitano visconteo Niccolò Piccinino. Era il fallimento di quella linea in cui si era riconosciuto, in modo discreto, ma con una sostanziale continuità e convinzione, anche il Foscarari.
La morte lo colse a Bologna nel settembre del 1438.
Nel testamento aveva designato eredi i figli Andrea e Matteo, ma aveva disposto altresì numerosi legati. Erano la testimonianza di una ricchezza di sentimenti morali realmente presenti nel F. ben al di là delle espressioni letterarie e delle figure retoriche delle quali tali sentimenti si erano così vistosamente ammantati nei suoi discorsi.
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