Romeo di Villanova (Romieu, o Romée, de Villeneuve)
Ministro e gran siniscalco di Raimondo Berengario (o Beringhieri) IV, ultimo conte di Provenza; nato nel 1170 circa. In tale qualità egli ebbe parte importante nelle vicende politiche e militari di quello stato.
Si sa, fra l'altro, che nel 1229 ricuperò per conto del suo signore la città di Nizza, combattendo e poi patteggiando con Genova; mentre nel 1241, unitosi a una flotta genovese che trasportava prelati e principi a un concilio indetto a Roma da Gregorio IX, riuscì a scampare dalla disastrosa sconfitta da questa subita all'isola del Giglio per opera di una flotta inviata da Federico Il, e a tornare in Provenza con una nave pisana da lui fatta prigioniera. Certamente anche merito di R. furono i grandi matrimoni delle quattro figlie di Raimondo: Margherita, andata sposa nel 1234 a Luigi IX di Francia; Eleonora, nel 1236, a Enrico III d'Inghilterra; Sancia, nel 1243, a Riccardo conte di Cornovaglia, eletto nel 1257 re dei Romani e imperatore di Germania; e infine Beatrice, maritata - dopo la morte del conte (1245), che aveva lasciato R. " baiulum totius terrae suae et filiae suae " - a Carlo I d'Angiò (1246), che così poté ereditare i domini del suocero (la gran dota provenzale, Pg XX 61). Morì in Provenza nel 1250, dopo aver fatto testamento il 15 dicembre di quell'anno.
Con questo personaggio storico è senza dubbio da identificare il R. dantesco, collocato nel cielo di Mercurio, fra i buoni spirti che son stati attivi / perché onore e fama li succeda (Pd VI 113-114), e più precisamente presentato a D. da Giustiniano nelle ultime terzine del suo lungo discorso (vv. 127-142). Questa presentazione, tuttavia, si discosta in alcuni punti da quanto sappiamo del R. storico: anzitutto non sembra che egli fosse persona umìle e peregrina (v. 135), cioè di umile condizione sociale e di origine straniera; ma soprattutto contrasta con le notizie che sopra si sono riportate l'affermazione che egli se ne andasse mendicando, dopo aver reso conto della propria amministrazione al conte di Provenza. L'ipotesi che D. stesso abbia di proposito modificato la verità storica non pare accettabile.
È invece più ragionevole supporre che il poeta si basasse su una leggenda formatasi in Provenza e fuori durante la seconda metà del Duecento, e nella quale sarebbero venuti a confluire - probabilmente richiamati, almeno in parte, dallo stesso nome di R., che indicava anche i pellegrini (chiamansi romei in quanto vanno a Roma, Vn XL 7) - motivi della tradizione favolistica e novellistica: come ricorda il Torraca, " il caso d'un ministro retto e fedele, accusato ingiustamente di arricchirsi a danno del suo signore, è l'argomento di una delle favole di Gualtiero "; e il tema ritorna, come osserva il Di Francia (F. Sacchetti novelliere, pp. 223-224), anche nella novella LXII del Sacchetti, che ha come protagonista un " provisionato " di Mastino della Scala. Di questa leggenda non si conoscono testimonianze anteriori al testo dantesco; ma la sua esistenza sembra confermata dalla versione sostanzialmente concorde che ne danno non solo i commentatori antichi della Commedia ma anche il Villani (VI 90).
ome una simile leggenda potesse attirare l'attenzione di D. per le analogie con la propria personale esperienza umana, avvertì per primo il Tommaseo, osservando che il verso e se 'l mondo sapesse il cor ch'elli ebbe (Pd VI 140) " inchiude in sé e fa più splendido quant'ha di bello la menzione di Provenzano Salvani nel Purgatorio, e il vaticinio di Cacciaguida; ed è pregno di que' dolori che non si sfogano in lagrime, di quelle consolazioni che Dio solo sa perché Dio solo le dona, e che vincono incomparabilmente i dolori "; e richiamando, per il verso seguente mendicando sua vita a frusto a frusto, il celebre passo autobiografico che si legge in Cv I III 4 peregrino, quasi mendicando, sono andato.
Sull'ispirazione autobiografica dell'episodio di R. sono tornati a insistere tutti i successivi interpreti e commentatori, come, per ricordare solo qualche esempio, il Parodi (" codesti versi racchiudono bensì nel loro intimo tutto il dramma d'un cuore, ma quel che sappiamo di Romeo non è sufficiente per farnelo scaturire. Ma appena il nostro pensiero si rivolge al poeta, riconoscendo facilmente la somiglianza delle due situazioni, l'intimo contenuto trabocca: una malinconica fierezza della lotta angosciosa, sostenuta dignitosamente, contro la povertà, una rivendicazione di se stesso dalle umiliazioni invano scongiurate con tutte le energie dello spirito; un appello triste, ma non sfiduciato, alla giustizia futura degli uomini "); e il Momigliano, che ha citato, a riprova, accanto a quello, ricordato dal Tommaseo, del Convivio, anche un altro testo dantesco, la chiusa dell'epistola ai conti Oberto e Guido di Romena per la morte del loro zio Alessandro (Ep II 8). Pur riconoscendo la presenza, anzi la centralità, di questa componente autobiografica (qui senza dubbio più evidente che in altri episodi d'ispirazione per qualche aspetto simile, come quelli di Pier della Vigna e di Provenzano Salvani), alcuni tra gli studiosi moderni si sono posti anche il problema del rapporto che intercorre fra la figura di R. e il resto del canto.
Il Bacci, che è forse il primo ad affrontare la questione, ritiene (seguito in sostanza dal Rosadi e dallo Schneider) che R. sia rievocato da Giustiniano, " dopo tante sfolgoranti memorie " (la storia dell'aquila imperiale), quale " simbolo della grandezza vera dell'animo, in opposizione con la troppo appariscente grandigia di coloro che toccarono il culmine della potenza umana "; il Mazzoni (attraverso un richiamo all'epistola indirizzata ai signori d'Italia in occasione della venuta di Enrico VII, Ep V) afferma che " Dante non mirò, inventando l'episodio dell'umile Romeo, se non a documentare drammaticamente l'insegnamento morale-politico, che egli humilis ytalus credeva conveniente, dopo l'inno alla gloria imperiale ", il monito, cioè, che " l'impero ha da essere, oltre che possente, pio, ed oltre che maestoso, umile "; mentre, secondo il Porena, Giustiniano, " rappresentante eccelso della giustizia divina attuata nelle leggi dell'impero ", mostrerebbe, parlando di R., " un tratto di giustizia in azione nel riabilitare con forza di indignazione un giusto calunniato ".
Più persuasivamente, a nostro parere, altri, come il Cosmo, il Momigliano e il Sapegno, hanno indicato il legame fra la storia del sacrosanto segno e l'episodio di R. in una comune radice insieme ideologica e autobiografica, epica e insieme lirica, a sua volta profondamente connessa con le meditazioni e con le esperienze dell'ultimo D.: " la prima parte [del canto] esalta l'ideale politico-religioso di Dante; la seconda, sotto l'apparenza di un fatto di cronaca politica, adombra le tristi conseguenze che quell'ideale ha fruttato a Dante: l'esilio e la povertà... Chi conosce la vita di Dante... vede nella chiusa di questo canto lo smorzato e dignitoso lamento di un alto e conculcato ideale " (Momigliano).
Più difficile a chiarire la questione, poco approfondita dagl'interpreti ma a nostro giudizio non trascurabile, del rapporto tra l'episodio di R. e la parte del discorso di Giustiniano che lo precede immediatamente, e che tratta della qualità e della sorte dei beati compresi nel cielo di Mercurio (Pd VI 112-126). Ci si dovrà limitare ad attribuire a questa parte, col Momigliano e altri, una semplice funzione di trapasso dai toni solenni della storia dell'aquila a quelli più ‛ umili ' e sobri delle ultime terzine? In realtà non sappiamo se si possa veramente parlare di ‛ umiltà ' e di sobrietà tonale e stilistica per queste terzine, nelle quali, per tacer d'altro, compaiono preziose e vistose annominazioni (luce la luce di Romeo, v. 128; assai lo loda, e più lo loderebbe, v. 142) e potenti antitesi (vv. 129, 132, 133-135, 137). Diremmo piuttosto che i vv. 112-126, introducendo, sotto il loro aspetto ‛ didascalico ', il motivo altissimo e rasserenante (addolcisce... in noi l'affetto) della contemplazione della viva giustizia divina (vv. 121-122), abbiano il compito di sottolineare l'eterna prospettiva in cui si collocano, e si placano, da un lato l'ideale politico-religioso di D. espresso nella storia dell'aquila, e dall'altro la grave constatazione delle sofferenze che ripagano inevitabilmente sulla terra chi, come R. (e come D.), abbia operato direttamente o indirettamente per quell'ideale. Né forse sarà del tutto azzardato indicare un altro e più sottile legame: R. è lodato dal mondo, com'egli desiderava, per essere stato ‛ attivo ', cioè onesto e giusto amministratore; ma lodi più grandi e vere gli spettano proprio per quella qualità che egli ha sdegnato di far conoscere, per il ‛ cuore ' con cui ha saputo affrontare il suo destino di umiliazione e di povertà.
Bibl.-Oltre i commenti (fra cui vanno particolarmente segnalati quelli del Tommaseo, del Torraca, del Grabher, del Momigliano, del Porena e del Sapegno) si vedano le seguenti letture del canto VI del Paradiso: O. Bacci, Firenze 1904 (rist. in Lett. dant. 1439-1462); S. Sonnino, ibid. 1905; G. Rosadi, ibid. 1916; F. Schneider, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXXIX (1961) 122-136; P. Brezzi, Firenze 1964. Notevoli anche E.G. Parodi, in " Bull. " n.s., VII (1899-1900) 8-9; L. Di Francia, F. Sacchetti novelliere, in " Annali Scuola Norm. Pisa " XVI (1902) 223-224; G. Mazzoni, Romieu de Villeneuve e D. (1928), in Almae luces malae cruces, Bologna 1941, 325-331; U. Cosmo, L'ultima ascesa, Torino 1936, 82-84. In particolare, sul R. storico: F.J.M. Raynouard, in " Journal des Savants " 1825, 222-227; G. Philippon, La Provence sous Charles I, in " Revue de Marseille et de Provence " 1° semestre 1891; A. Ferretto, R. di Villanova a Genova, a Portofino e a Portovenere, in D. e la Liguria, Milano 1925, 82-87.