Romagna
. Numerosi sono nelle opere dantesche, e particolarmente nella Commedia (If XXVII e Pg XIV soprattutto), i riferimenti alla R., che vi figura strettamente associata alla Toscana, sia nella continuità dell'esperienza esistenziale, sia nell'unità dell'ispirazione poetica dell'Alighieri. Tale frequenza di riferimenti è stata giustamente motivata, richiamandosi alla vita itinerante di D., prima e soprattutto durante l'esilio, che lo vide senza dubbio far capo ad alcuni centri romagnoli (con ogni probabilità a Bologna attorno agli anni 1287 e 1303, a Forlì negli anni 1303 e 1310 e a Ravenna negli ultimi mesi della sua vita).
Ma una giustificazione più esauriente non può prescindere dalla consapevolezza dell'esistenza nel mondo romagnolo, a cavaliere dei secoli XIII e XIV, di condizioni ambientali già largamente predisposte all'influenza economico-sociale, all'immigrazione politica e alla penetrazione religiosa, artistica e culturale del mondo toscano e fiorentino nella fattispecie. Il che costituisce, già di per sé, un aspetto significativo del ben più ampio fenomeno di diffusione nell'intera area padana degl'interessi materiali e spirituali d'oltre Appennino che doveva avere per asse principale la linea Firenze-Bologna-Ferrara-Padova, marginale eppure importante per la R., già intersecata dalle vie Firenze-Faenza-Ravenna lungo la vallata del Lamone, Firenze-Forlì-Ravenna lungo il corso del Montone e dalla linea Arezzo-Cesena-Rimini. In tale fenomeno ancora non è stata adeguatamente inquadrata la vicenda della vita e della fortuna di D., con la conseguenza di far figurare più casuali ed episodici di quanto non fossero in effetti i suoi movimenti e la stessa trasmissione dei suoi scritti in città e regioni che già dovevano essere in stretti rapporti con la terra di provenienza dell'Alighieri, se non addirittura con la sua famiglia.
Sta di fatto che tutta una serie di efficaci immagini visive, ricavate con ogni probabilità direttamente dal paesaggio naturale della R., e una sicura e coerente caratterizzazione psicologica e umana dei personaggi romagnoli, conosciuti direttamente perché contemporanei o per tradizione orale (quelli per esempio del ‛ buon tempo antico '), attestano che, se non altrove, almeno presso la corte forlivese degli Ordelaffi e quella ravennate dei Polentani, D. poté, non solo stabilire una consuetudine di rapporti personali in ambienti ristretti, ma anche maturare una larga e approfondita conoscenza del mondo romagnolo.
Fu, forse, soprattutto il primo approdo forlivese a consentire a D. di abbozzare una carta linguistica della R. relativamente unitaria (VE I XIV 2-4: non a caso proprio Forlì vi figura come meditullium... totius provinciae, § 3) e concretamente fondata su una valida conoscenza storica e attuale delle peculiari condizioni politiche, sociali e di costume delle singole municipalità nella regione. Nel De vulg. Eloq., infatti, l'area linguistica romagnola è localizzata sulla sinistra dello spartiacque appenninico fra Lombardia e Marca Anconetana e figura ben distinta da queste regioni contermini (I X 7-8), poiché il suo dialetto muliebre videtur propter vocabulorum et prolationis mollitiem (XIV 2); peculiarità che, allo stesso modo delle parlate contermini, ma per ragioni nettamente opposte, lo fanno apparire agli occhi di D. ben lontano dal volgare illustre (§ 8). Pur frazionata in una varietà di dialetti municipali con proprie sfumature fonetiche e lessicali, viene così delineandosi nei suoi contorni quell'area linguistica propriamente romagnola che da Ravenna si estende, senza alcun riferimento a Rimini e a Cesena e ai rispettivi territori, direttamente a Forlì, Faenza, Imola, fino a penetrare nella stessa città di Bologna e a contaminarvi la muliebre ‛ mollities ', che la contraddistingue, con la lombarda ‛ garrulitas ' dei Modenesi e dei Ferraresi (XV 3). E come Forlì, per essersi trovata al centro di un intenso movimento di persone (basti solo pensare all'immigrazione in questa città dei numerosi esuli ghibellini e bianchi dalla Toscana e da ogni parte della R.), fu la naturale mediatrice di diverse espressioni dialettali in ambito romagnolo; così Bologna, per motivi analoghi, ma anche per essere sede di uno studium generale, svolse a livello interregionale la funzione, più che di spartiacque linguistico, di luogo d'incontro delle contrapposte parlate dell'area lombarda e di quella romagnola.
Nella Commedia, mentre la R. assume la sua piena consistenza spaziale e vede meglio definiti i suoi contorni mediante riferimenti espliciti o indiretti anche all'area malatestiana (Riminese e Cesenate, distinti dalla Marca Anconetana: Pg V 68-69) e a centri maggiori e minori non ricordati nel De vulg. Eloq. (Classe, Cervia, Cattolica, Bertinoro, Valbona, Meldola, Castrocaro, Prata, Cunio, Bagnacavallo e Medicina), anche la sua immagine poetica viene precisandosi sul filo della sofferta partecipazione etico-politica di D. alle vicende del suo tempo. Tale rappresentazione che dal presente (Inferno) s'inoltra retrospettivamente nel passato (Purgatorio), articolandosi variamente in una folta rassegna di città, castelli, famiglie e singoli personaggi, procede dal modo niente affatto univoco in cui nel tardo Duecento si definiva la Romandiola, in seguito al processo di trasformazione politico-territoriale che proprio allora aveva fatto perdere a questa regione i suoi antichi confini, per farle assumere quelli poi conservati fino ai giorni nostri. Infatti, la nozione dantesca di R. oscilla tra l'accezione tradizionale del termine, per cui si considerava Bologna unita alla R. nell'antica unità politico-amministrativa bizantina dell'Esarcato (tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno, Pg XIV 92) e quella moderna della R. papale che, dal 1278, vedeva le terre esarcali articolate in tre nuclei: la contea di Bertinoro, la città di Bologna col suo distretto e la Romandiola vera e propria che così vedeva ridotta la sua estensione. Mentre quella R. trova espressione nelle parole accorate del bertinorese Guido del Duca, lo spirto di Romagna (Pg XV 44), questa, invece, risulta dalla risposta di D. a Guido da Montefeltro (If XXVII 37-54) diminuita di Bologna e Bertinoro, che non vengono annoverate fra le città romagnole.
Ma tali diversi modi di raffigurare la regione assumono anche un preciso significato morale e poetico nel proposito di D. di scandire due momenti fra loro ben distinti sia in senso cronologico sia in senso psicologico, nella vicenda umana dei Romagnoli: un momento rappresentato dalle generazioni feudali dei secoli XII e XIII, quelle, cioè, del ‛ buon tempo antico ', fedeli all'aquila imperiale allo stesso modo che alle loro consuetudini cortesi e cavalleresche; l'altro costituito dalle generazioni, contemporanee al poeta, dei tiranni, costrette a subire la dominazione papale e a confondersi col suo retaggio di violenze e di tradimenti.
Mentre la R. dei santi e degli eremiti del Paradiso tende a sfumare nel mito, balza all'evidenza il confronto fra le immagini poetiche della R. nelle altre due cantiche: quella tutta umanità e liberalità del Purgatorio e l'altra, invece, dominata dal genio demoniaco dei suoi tiranni, dell'Inferno. Tra le due visioni esiste un divario abissale, segnato dalla degenerazione di comunità, famiglie e individui, cui solo la dolorosa esperienza morale e politica e l'immaginazione poetica di D. riescono a dare un significato.
Orbene, se la R. di Guido del Duca risulta ormai inattingibile e suscita nel poeta il rimpianto delle buone costumanze avite irrimediabilmente perdute assieme alla fiera rampogna contro i nobili decaduti del suo tempo (Oh Romagnuoli tornati in bastardi!, Pg XIV 99), ciò deve ricondursi a ragioni particolari, ma non per questo meno gravide di conseguenze anche su un piano generale. Infatti la R., quella dolce terra / latina (If XXVII 26-27), se è valida l'identificazione proposta da Benvenuto che fa in tal modo di questa terra una sorta di giardino nel giardino dell'Impero, è divenuta un ‛ signum contradictionis ', un simbolo del tralignamento dei sommi poteri medievali, da quando il re dei Romani Rodolfo d'Asburgo l'ha restituita ai papi, cedendo alle loro pressioni con colpevole atteggiamento rinunciatario; e da quando i pontefici romani, estendendo i confini del loro stato fino al Po, hanno ancora una volta anteposto aspirazioni e cure mondane alla loro vocazione di pastori universali.
In R. l'Alighieri prosegue, così, e intensifica quell'esperienza etico-politica che aveva iniziato nella sua Firenze: qui reagendo alle reiterate ingerenze della curia romana nella sfera delle autonomie comunali della città natale; là maturando la consapevolezza che la Chiesa avesse usurpato diritti e funzioni spettanti all'Impero, e avesse aperto, così, un nuovo capitolo, ancor più duramente militare, fiscale e fazioso dei precedenti, nella storia del suo governo temporale. Insomma, la degenerazione dei sommi poteri dai vertici della cristianità si era diffusa ovunque alla sua base, esasperando nelle comunità e fra gl'individui le lotte di fazione, le tendenze particolaristiche, la tentazione della superbia, dell'invidia e dell'avarizia. Tale degradazione generale D. vede rifrangersi nel mondo romagnolo e ama quindi rappresentare soprattutto nelle forme della tirannide, assunta prima ancora che nelle sue conseguenze propriamente politiche, nelle sue implicazioni di ordine morale.
Dall'episodio di Paolo e Francesca (If V 73-142) - che qui dev'essere considerato, più che nel suo significato di tragedia passionale, alla luce del triplice tradimento consumato nell'ambiente della tirannide malatestiana - fino alla ghiaccia della Tolomea, dove il poeta incontra fra i traditori quel frate Alberigo, la cui appartenenza ai Manfredi, tiranni di Faenza, può solo in parte spiegare perché D. non esiti a chiamarlo il peggiore spirto di Romagna (If XXXIII 154), si distende, di cerchio in cerchio, una galleria di dannati: è la serie dei tiranni, ora violenti ora traditori, più spesso violenti e traditori insieme, cui tutte indistintamente le famiglie signorili romagnole, dai Malatesti ai Pagani, dai Polentani agli Ordelaffi, dai Montefeltro ai Manfredi, non hanno mancato di dare un apporto di presenze tutt'altro che insignificante. Su tutti sovrasta, indubbiamente, per una sua suggestiva carica simbolica, la figura di Guido da Montefeltro, che il poeta assume, forse, più che a rappresentare l'indomito spirito bellicoso delle genti romagnole, come si è inteso tradizionalmente sulla scorta di If XXVII 37-38, a rievocare la sconfitta militare del temporalismo papale e a sottolinearne, così, la condanna morale; motivo fortemente inciso ai vv. 43-44, dove si ricorda il sanguinoso mucchio di Forlì con cui si concluse tragicamente, il 1º maggio 1282, l'assalto dei mercenari franco-pontifici alle ribelli forze ghibelline condotte da Guido da Montefeltro.
In definitiva, una simile immagine della R. al tempo di D., di una regione, cioè, coinvolta nel confronto, ora ambiguo ora cruento, fra temporalismo papale e tirannie locali, è riscontrabile anche nell'esegesi di Benvenuto, interprete da un lato fedele allo spirito dell'Alighieri, dall'altro esperto delle voci e delle realtà della sua terra: egli indica, infatti, fra le cause che hanno desolato la R., in primo luogo la " avaritia pastorum ecclesiae, qui nunc vendunt unam terram, nunc aliam: nunc unus favet uni tyranno, alius alteri, secundum quod saepe mutantur officiales ", in secondo luogo la " pravitas tyrannorum suorum, qui semper inter se lacerant et rodunt, et subditos premunt et excoriant ".
Anche senza considerare che per la R. un tentativo di disegnare le linee essenziali della fortuna di D. non è mai stato, finora, compiuto, resta ugualmente difficile individuare nella storia della cultura romagnola aspetti e momenti della tradizione dantesca che trascendano l'ambito ristretto di ciascuna città per assumere un significato veramente unitario nella nostra regione.
Infatti, per molto tempo il culto di D. in R. ebbe carattere di discontinuità e fu per lo più espressione di singoli letterati o di gruppi ristretti di letterati e studiosi, ascrivibili alle città della regione più culturalmente vive, come ad esempio Bologna e Ravenna; per cui, in relazione ai primi secoli della fortuna di D., si rende necessario fare capo alle voci dei singoli centri romagnoli e seguirvi distintamente le peculiari vicende della tradizione dantesca.
Essa iniziò precocemente, già nel tardo Duecento, a Bologna (v.), mediante la trascrizione di frammenti lirici, per lo più sui Memoriali, da parte di curiali, non di rado di provenienza toscana o espressamente fiorentina. In effetti appare decisivo il contributo di giudici, notai, scribi e in qualche caso anche di mercanti, soprattutto d'oltre Appennino, nel consolidarsi, durante i primi decenni del Trecento, della fortuna di D. e delle sue opere in Bologna, e di qui nel mondo romagnolo. E poiché la presenza di D. in R. aveva assunto, soprattutto alla corte degli Ordelaffi, un chiaro significato politico, in rapporto prima ai tentativi dei fuorusciti ghibellini e bianchi di rientrare in Firenze, poi alla discesa di Enrico VII in Italia, era inevitabile che gli ambienti romagnoli culturalmente impegnati accogliessero di preferenza aspetti e motivi propriamente politici del messaggio dantesco e si orientassero verso quegli scritti, come la Commedia e la Monarchia, in cui tali contenuti e interessi risultavano largamente rappresentati.
Ma la fortuna dell'Alighieri in R. nei primi tempi apparirebbe non del tutto giustificata, se non si tenessero in considerazione, oltreché quegli aspetti e le suggestioni teologiche dei suoi scritti, anche i motivi più propriamente poetici e letterari della sua attività, come ci è testimoniato in particolare dalla sua corrispondenza con Giovanni del Virgilio.
Pertanto, secondo molteplici interessi, ma anche con quelle spiccate preferenze che abbiamo indicato, dovevano essere lette dai cultori romagnoli dell'Alighieri le prime copie frammentarie della Commedia, composte in officine scrittorie, localizzabili se non sempre a Bologna, certo in centri assai prossimi alla principale città emiliana, come Imola e Faenza, così da costituire nel loro insieme l'unitario filone bolognese, chiaramente individuabile, della primitiva tradizione manoscritta della Commedia.
Già nel corso della prima metà del Trecento è possibile, entro certi limiti, astrarre dalle singole vicende municipali, per individuare nella cultura laica delle corti signorili, della regione - di essa gli esempi forlivese degli Ordelaffi e ravennate dei Polentani sono solo i più conosciuti - una diffusa disponibilità ad accogliere il messaggio dantesco e a farlo circolare pel tramite di una borghesia d'ufficio e mercantile, di generazione in generazione sempre più sensibile all'arte e alla cultura. Contrariamente a tali orientamenti si esprime il mondo ecclesiastico romagnolo, il quale, forse perché più direttamente condizionato dal clima temporalista instaurato in R. dalla dominazione papale, non solo non si mostra ricettivo alla poesia e alle dottrine di D., ma anche nelle sue voci non ufficiali, e comunque meno impegnate con le autorità religiose e politiche, tende ad assumere atteggiamenti duramente polemici nei riguardi del poeta, mai tralasciando di ricercare e denunciare dottrine eterodosse nei suoi scritti. A tale proposito appare particolarmente significativa la condanna della Monarchia pronunciata dal frate predicatore riminese Guido Vernani; e valore altamente emblematico del divergente atteggiamento assunto nei riguardi di D. da chierici e da laici assume l'episodio del tentato bruciamento della Monarchia e delle spoglie di D. da parte del cardinale legato Bertrando del Poggetto, scongiurato nel 1329 per intervento di Pino della Tosa e di Ostasio da Polenta.
Anche se si deve escludere una recezione programmatica del messaggio dantesco da parte delle corti signorili romagnole - il culto di D. vi fu, infatti, di solito trapiantato e vivificato per iniziativa di singoli letterati o di gruppi ristretti di curiali -, resta tuttavia significativo che anche la tradizione dei primi commenti della Commedia percorra di preferenza l'itinerario delle corti e della cultura laica regionale, pur senza trascurare del tutto gli ambienti delle cattedrali, dei monasteri e soprattutto dei conventi. Assai indicativo al riguardo è il commento di Benvenuto. La sua esegesi si svolse prima in privato a Bologna, poi presso la corte estense a Ferrara; pressoché fuori, quindi, del mondo propriamente romagnolo. Ma la testimonianza dell'Imolese dev'essere qui sottolineata nella sua importanza, perché, oltre a rivelarsi fedele e coerente interprete dei valori poetici ed etici dell'Alighieri, si esprime in un'aneddotica che, assieme alle reminiscenze storiche, indica in Benvenuto un lettore della Commedia, particolarmente capace di evocare quel clima spirituale della R. in cui l'Alighieri visse una parte non trascurabile della sua esistenza. Né si deve ignorare il fatto che la glossa dell'Imolese rappresenta il necessario tramite fra la fase antecedente della tradizione dantesca, illustrata dagli scritti del Boccaccio, così nutriti di riecheggiamenti romagnoli, e quella successiva dei commentatori della Commedia che, in ambito romagnolo, ebbero il più efficace e fedele continuatore di Benvenuto in fra Giovanni Bertoldi di Serravalle, autore negli anni 1416-1417 di una traduzione latina e di un commento della Commedia.
Dal tardo Medioevo all'età moderna la fortuna di D. in R. perdette gradualmente quel risalto che aveva avuto nel corso del Trecento, ma più per ragioni di carattere generale che per motivi peculiari della nostra regione: esse possono compendiarsi nel diffuso indebolimento della coscienza civica e morale delle nuove generazioni dei Romagnoli; nell'accentuarsi, invece, degl'interessi letterari e più propriamente linguistici e con essi del pregiudizio avverso a qualsiasi uso del volgare. Ne segue che nelle corti signorili romagnole si tralascia di considerare la Commedia nei suoi significati religiosi ed etico-politici, per rivolgere l'interesse, ma per lo più con chiari intendimenti polemici, al De vulg. Eloquentia. L'attenzione per le opere di D. si fa, quindi, complessivamente più episodica e superficiale, mentre, in seguito all'irrigidimento del quadro politico-istituzionale della R., passata agl'inizi del Cinquecento sotto la diretta sovranità pontificia, si rafforzano, soprattutto negli ambienti ecclesiastici, quei pregiudizi di natura teologica che accreditavano come eterodosse le dottrine dell'Alighieri. Da questo momento, fino quasi alla fine del Settecento, controverse, oltreché modeste e isolate, appaiono le indicazioni circa la fortuna di D. in R.: in un clima ancora dominato dall'aristotelismo si procede, infatti, dalla rivalutazione poetica della Commedia fatta nel tardo Cinquecento dal cesenate I. Mazzoni contro R. Castravilla, al giudizio sfavorevole espresso agl'inizi del Seicento dal pensatore faentino L. Zuccolo, per una rilevata discrepanza della metrica dantesca dalle regole aristoteliche; e a Settecento avanzato, dall'atteggiamento non certo comprensivo dell'arcade riminese A. Bertola all'alta considerazione in cui fu tenuta nello stesso periodo l'opera di D. dal letterato riminese G. Garampi e dallo scienziato forlivese G. Morgagni.
Proprio questi due ultimi scrittori sembrano preannunciare quel rinnovamento del culto di D. che, all'approssimarsi dei tempi risorgimentali, tende a caratterizzare sempre più diffusamente la cultura romagnola. Tale culto trovò le sue espressioni più significative nell'ambito della scuola classica romagnola, soprattutto negli scritti di V. Monti, di D. Strocchi, di G. e C. Perticari e di P. Costa: scritti biografici e commemorativi, trattati in difesa delle dottrine linguistiche di D., edizioni delle sue opere, a iniziare da quella bolognese della Commedia avviata nel 1819; persino imitazioni dei suoi versi nei poemi sepolcrali, com'è testimoniato, appunto, dalla Bassvilliana e dalla Mascheroniana del Monti. Superando secolari e radicati pregiudizi di ordine soprattutto linguistico (si pensi solo alla persistenza di forme assai rigide di purismo nell'area culturale romagnola, atteggiata per lunga tradizione al classicismo), quei letterati contribuirono validamente, anche mediante la loro varia e intensa collaborarazione al Giornale Arcadico, a foggiare e a tramandare alle generazioni risorgimentali l'immagine di D. poeta-veltro, profeta della riscossa nazionale e simbolo dell'unità morale e politica degl'Italiani.
Caduto nel 1859 il potere temporale dei papi in R., vennero meno col tempo anche le ultime pregiudiziali di ordine teologico e politico che la cultura ufficiale ecclesiastica aveva opposto al culto di D, cosicché questo poté liberamente diffondersi anche presso il clero della regione, che già, nei suoi elementi più colti, si era, con moto spontaneo, accostato al messaggio dantesco.
Nel periodo immediatamente postunitario Ravenna, soprattutto dopo le celebrazioni centenarie del 1865 che culminarono nella ricognizione delle spoglie del poeta, divenne l'ideale punto di riferimento dei cultori romagnoli di D. e di ogni loro iniziativa intesa a rinnovare la tradizione dantesca. Più tardi, nella fase di trapasso della cultura dal Romanticismo al Positivismo, a cavaliere dei due ultimi secoli, anche lo Studio bolognese mediante il magistero appassionato di G. Carducci riuscì ad avviare, soprattutto nella nostra regione, le nuove generazioni alla comprensione più piena dei valori poetici e civili del messaggio dantesco. Dall'insegnamento carducciano, ma anche dall'operosità esemplare e rigorosa di altri studiosi come T. Casini e F. Torraca, sortì una schiera nutrita di filologi, letterati e storici che fino all'ultimo conflitto mondiale, facendo per lo più capo ai principali istituti di cultura della R., seppero fra l'altro impostare su una nuova e più ampia base documentaria lo studio delle relazioni fra tradizione dantesca e mondo romagnolo. A questa tendenza storico-positiva non poté aderire l'anima mistica dei Romagnoli che trovò la sua espressione più fedele nel simbolismo decadente con cui G. Pascoli interpretò la poesia dell'Alighieri.
Una posizione centrale nel dantismo romagnolo di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento tenne indubbiamente il ravennate C. Ricci, la cui copiosa produzione dantesca, culminata ne L'ultimo rifugio di D., felice ed equilibrata sintesi di sensibilità artistica, d'intuizione psicologica e di capacità storica, ce lo indica assai più prossimo alla scuola carducciana che non a quella pascoliana. Attraverso la sua fervida opera gli studi danteschi trovarono in R. la migliore condizione di sviluppo nella stretta collaborazione fra le città romagnole e gli ambienti della cultura di Bologna. Tale promozione dei rapporti di studio a livello regionale nel segno della tradizione dantesca è fra l'altro testimoniata dalla pubblicazione dell'opera miscellanea commemorativa degli Studi danteschi, curata nel 1922 dalla Deputazione di storia patria per le province di R., per la serie " Documenti e studi " (vol. IV).
Dall'ultimo dopoguerra, nella misura in cui la cultura romagnola è venuta perdendo i suoi lineamenti peculiari e tradizionali, anche il culto di D. ha visto cadere in desuetudine forme e motivi tipicamente locali, per uniformarsi agli orientamenti generali, accademici e non, degli studi in questione. Un segno non trascurabile di tale tendenza è costituito dal fatto che anche la recezione della figura e dell'opera dell'Alighieri nel folklore romagnolo (per esempio mediante la riduzione della Commedia nel dialetto locale) ha fatto registrare negli ultimi anni qualcosa di più di una semplice battuta d'arresto.
Tuttavia meritano di essere segnalate, come espressioni significative di una tradizione dantesca almeno in parte ancora tipicamente locale, alcune iniziative editoriali scaturite dalle varie celebrazioni per il VII centenario della nascita di D.; la collana di Studi storici, costituita di quattro volumi (Firenze 1963-1966), pubblicata dal comitato ravennate per le celebrazioni dantesche; gli Atti della giornata internazionale di studio per il VII centenario, organizzata a Ravenna il 6-7 marzo 1965 dalla Società di Studi Romagnoli (Faenza 1965); e infine la pubblicazione in un quaderno della Rubiconia Accademia dei Filopatridi (VII, Savignano 1966) di una serie di conferenze su D. e la Romagna.
Bibl.-C. Ricci, L'ultimo rifugio di D., Ravenna 1965³, a c. di E. Chiarini; T. Casini, D. e la R., in " Giorn. d. " I (1894) 19-27, 112-124, 303-313 (rist. in Scritti danteschi, Città di Castello 1913, 51-76); I. Panella, D. e la R., in " La Romagna " I (1904) 172-182; L. Molinari, D. e la Scuola classica romagnola, ibid., 220-227; G. Gasperoni, Il culto di D. in R., ibid. V (1908) 3-12 (rist. in Studi e ricerche, Roma-Milano 1910, 189-203); F. Torraca, Studi danteschi, Napoli 1912; C. Ricci, D. e la R.-in " Documenti e Studi Deputazione St. Patria Prov. Romagna " IV (1922) 1-11; F. Torraca, Il dialetto romagnolo e il bolognese nel " De vulgari eloquentia ", in " Atti e Mem. Deputazione St. Patria Province Romagna " s. 4, XVII (1926-1927) 346-357; C. Ricci, Il canto dantesco dei Romagnoli, in " Nuova Antol. " s. 7, CCLXIX (1930) 288-305 (rist. in Figure e fantasmi, Milano 1931, 103-134); A. Vallone, La critica dantesca nell'Ottocento, Firenze 1958, 35 ss., 203-223; A. Vasina, I Romagnoli fra autonomie cittadine e accentramento papale nell'età di D., ibid. 1964; J. Larner, The Lords of R., Londra 1965 (traduz. ital. Signorie di R., Bologna 1972); D. Waley, Il governo papale in R. nell'età di D., in D. - Atti della giornata internazionale di studio per il VII centenario (Ravenna, 6-7 marzo 1965), Faenza 1965, 17-33; A. Vallone, Aspetti del dantismo romagnolo nel secondo Ottocento attraverso testi inediti, in Lett. Classensi, I, Ravenna 1966, 171-221; ID., Aspetti dell'esegesi dantesca nei secoli XVI e XVII attraverso testi inediti, Lecce 1966; A. Scarpellini, Dalla ‛ Difesa della Commedia ' di I. Mazzoni all' ‛ Apologia di D. ' di G. Perticari, in " Studi Romagnoli " XVI (1965 [ma 1967]) 425-442; G. Petrocchi, La tradizione emiliano-romagnola del testo della ‛ Commedia ', in D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 323-330 (rist. in Itinerari danteschi, Bari 1969, 304-315); A. Vasina, Romagna medievale, Ravenna 1970, 295-316.
Lingua. - Nominata in VE I X 7 fra le regioni dell'Italia di ‛ sinistra ', la Romandiola è la prima zona al di là dell'Appennino di cui D. affronti la parlata (XIV 1-3). L'estensione attribuita nel trattato alla regione non sarà sostanzialmente diversa da quella odierna: fra le città che ne fanno parte D. menziona Ravenna (IX 4), Faenza (IX 4, XIV 3), Imola (XV 2-3), e infine Forlì (XIV 2), situata tuttavia ai margini dell'area (ché tale è il senso di novissima: v. FORLÌ). Escluse ne sono Ferrara, che appartiene all'ampio territorio della ‛ Lombardia ' (v.), e Bologna che sta a sé.
Il romagnolo, in contrapposizione al volgare eccessivamente yrsutum et yspidum della vicina zona ‛ lombardo-veneta ', è caratterizzato secondo D. da eccesso di femminea mollezza (v. MOLLITIES), tratto linguistico che, come spesso nel De vulg. Eloq., implica un vizio morale, se è vero che egli afferma che i Romagnoli pronunciano alcune delle loro sdolcinate espressioni blandientes, cioè " per adulare " (l'abitudine alla blandizie verbale è vizio costantemente preso di mira dai moralisti medievali; cfr. ad es. Disticha Catonis [ediz. Boas I 26]: " Noli homines blando nimium sermone probare ", e rimandi dell'editore; o il cap. IX, De Adulatoribus, della Rhetorica novissima di Boncompagno da Signa - e si ricordi del resto Malebolge, dove per analogo difetto son presi particolarmente di mira i Bolognesi; può anche essere interessante richiamare Giovanni di Salisbury, che nel Policraticus [ediz. Webb I 187] attribuisce ai ‛ Lombardi ' la propensione a blandire eccessivamente gl'interlocutori).
Come exempla della mollezza verbale dei Romagnoli D. cita l'avverbio affermativo (che riveste come al solito particolare importanza) deuscì: morfologicamente esso rientra nel modulo degli avverbi o congiunzioni rafforzati con dio / de(o), tra cui eziandio, avegnadio e i vari tipi settentrionali fordè, quanvisde(o), stamadè, ecc. (e v. naturalmente DEH), mentre dal lato fonetico contiene la tipica palatalizzazione emiliano-romagnola di s davanti a i (scì, scicomo sono già in Guido Fava; basti il rimando a Monaci, Crestomazia, Prospetto grammaticale, in particolare § 270, e a Vita di San Petronio, a c. di M. Corti, Bologna 1962, p. LV). E quindi le melliflue espressioni affettive oclo meo (riscontro puntuale in una poesia di un memoriale bolognese trascritta nel 1286, Pàrtite, amore 9 [ediz. Caboni, Modena 1941, 44] " or me bassa, oclo meo "), e corada mea, da confrontare soprattutto col veneziano (universalmente noto dall'Ortis foscoliano) vissere mie (e v., per gl'impieghi affettivi di corata, -ada, " cuore ", " viscere ", il Dizionario del Battaglia). Quanto al nesso -cl- di oclo è assai probabile che, come in una vasta zona settentrionale in epoca antica, esso non vada interpretato come residuo grafico, ma risponda a effettiva conservazione fonetica (cfr., per analoghe considerazioni a proposito di pl-, la voce Venezia). È assai notevole che in VE II VII 4, portando esempi di vocaboli muliebria propter... mollitiem, da espungere dallo stile illustre, D. alleghi gli aggettivi dolciada e piacevole che, per valori semantici e tonali e caratteristiche fonetiche (-ada, nesso di consonante + l), corrispondono puntualmente ai tipi romagnoli ora ricordati.
Come per altre regioni, D. individua anche per la R. rimatori locali che hanno saputo, poetando altamente, allontanarsi dal loro volgare (a proprio poetando divertisse): il noto lirico guittoneggiante Tommaso da Faenza (v.) e il meno noto, e pure faentino Ugolino Bucciola dei Manfredi (v.). Per cui in VE I XIX 2 D. potrà dire che anche alcuni romagnoli fanno parte della schiera di doctores illustres, i quali nella loro poesia hanno fatto uso dell'illustre volgare italiano.
Bibl.-P.G. Goidanich, Sul giudizio di D. intorno al dialetto romagnolo e bolognese, e sulla lingua usata da Sordello, in " Arch. Glott. Ital. " XX (1926) 109-126 (discutibilissimo); F. Torraca, Il dialetto romagnolo e il bolognese nel ‛ De vulg. Eloq. ', in " Atti e Mem. Deputazione St. Patria Prov. Romagna " s. 4, XVII (1927) 346 ss.; N. Zingarelli, in " Studi d. " XIV (1930) 194-195; Marigo, De vulg. Eloq. 117-119 (e recens. di G. Contini, in " Giorn. stor. " XCIII [1939] 292); A. Schiaffini, Interpretazione del ‛ De vulg. Eloq. ' di D., Roma 1963, 94-95.