Roma repubblicana
Intorno al 500 a.C. Roma si dà una nuova costituzione in cui i poteri del re vengono divisi tra più persone e in particolare tra due consoli eletti ogni anno dal popolo. Roma, nei primi due secoli e mezzo della sua storia repubblicana, è costantemente travagliata da conflitti sociali, che produrranno alcune modifiche della sua organizzazione istituzionale, e da scontri con popoli nemici, che la porteranno ad essere, dal III secolo a.C., il centro egemone dell’Italia peninsulare.
La fine della monarchia a Roma viene messa in relazione, dalle fonti antiche, con la violenza sessuale che Sesto, figlio del re Tarquinio il Superbo, avrebbe perpetrato ai danni di Lucrezia, moglie di Lucio Tarquinio Collatino, la quale si sarebbe suicidata per l’onta subita non prima, però, di aver fatto conoscere i motivi del suo gesto al padre e al marito – assenti in quel momento da Roma perché coinvolti nell’assedio di Ardea. Lo stupro ai danni di Lucrezia, modello esemplare di matrona romana, avrebbe provocato l’insurrezione di alcuni eminenti cittadini romani, seguiti dai loro parenti, clienti e da una parte della popolazione, che avrebbero cacciato da Roma il re Tarquinio e i suoi consanguinei – compresi, paradossalmente, quelli che gli erano ostili, come Collatino, che gli era cugino – e introdotto nuove istituzioni politiche nell’anno 509 a.C.
La violenza commessa da Sesto sarebbe stato l’ultimo di una serie di atti assai gravi attribuibili direttamente o indirettamente al settimo re della tradizione. L’ultimo dei Tarquini sarebbe infatti salito al soglio regio senza l’iniziale approvazione del senato, senza l’acclamazione dei comizi e con gravi sospetti di coinvolgimento nell’assassinio del suo predecessore Servio Tullio. La sua gestione del potere avrebbe palesato, poi, tutti gli aspetti della tirannide, evidenziando disprezzo nei confronti dei senatori e del popolo, assenza di rispetto delle leggi e delle istituzioni cittadine. Difficilmente potremo mai sapere se i fatti sono andati esattamente come le fonti ce li raccontano. Quello che possiamo dire con buona certezza è, invece, che intorno al 500 a.C. Roma si dà un nuovo ordinamento costituzionale in cui i poteri che precedentemente si assommavano nella figura del re vengono divisi tra più figure.
Se le funzioni religiose del re diventano, in età repubblicana, per lo più retaggio del rex sacrorum, il potere politico del monarca viene inizialmente condiviso da due magistrati detti consoli (il cui nome, in origine, era forse praetores). Il consolato romano prevede che i due cittadini che lo ricoprono abbiano eguali poteri, in modo tale che l’uno possa porre il veto all’azione dell’altro quando questa appaia tirannica o contraria alle leggi e ai costumi vigenti. I consoli, poi, mantengono normalmente il loro incarico per un solo anno e, a quanto ne sappiamo, almeno dalla fine del IV secolo a.C., devono trascorrere diversi anni perché un ex console possa candidarsi per un secondo mandato. Non è possibile, inoltre, che un console ricopra contemporaneamente un’altra magistratura.
I consoli, diversamente dal re, non sono scelti dai senatori e, poi, solo formalmente eletti dal popolo, ma sono votati dai comizi centuriati. Per questo motivo, i candidati consoli, un po’ come i politici moderni, andavano a procacciarsi consensi tra cittadini (e specialmente quelli delle prime classi) cercando di convincere quante più centurie possibile a votarli. In questo maggiore, e istituzionalizzato, coinvolgimento del popolo nella scelta dei suoi governanti consiste, secondo i Romani, una delle caratteristiche fondamentali della costituzione repubblicana, contrapposta a quella monarchica.
Il potere dei consoli si espleta sia in guerra, conducendo l’esercito romano, sia in pace, convocando e presiedendo i comizi e il senato, proponendo leggi e occupandosi della repressione criminale seppure, in quest’ultimo caso, con una differenza sostanziale rispetto ai re: se un console condanna a morte un cittadino, a quest’ultimo è concesso di mettere in discussione la sentenza, chiedendo la convocazione del popolo nei comizi centuriati (provocatio ad populum) e il loro voto per ribaltarla.
È verosimile che nei primi tempi della repubblica i consoli si occupino anche dei processi civili, i quali diventeranno compito specifico di un magistrato (anch’esso eletto dai comizi centuriati), cioè il pretore, creato dal 367 a.C. Cicerone, nel De legibus (3, 38), definisce il pretore come “arbitro del diritto” (iuris disceptator) e "depositario del diritto della città" (iuris civilis custos), il cui compito principale consiste nell’istruire in modo corretto le cause civili.
Un altro compito che spetta inizialmente ai consoli è quello di redigere il census dei cittadini, posizionando i Romani maschi e adulti nelle diverse classi e centurie. Anche sotto questo aspetto il potere consolare verrà ridotto (dal 443 a.C., secondo la tradizione) con la creazione dei censori, due magistrati eletti dai comizi centuriati ogni cinque anni che hanno 18 mesi di tempo per realizzare il census. Ai censori spetta anche, con la legge Ovinia (fine del IV secolo a.C.), il compito di stilare la lista dei senatori, per essere inseriti nella quale è indispensabile sottoporsi a un’analisi dei costumi particolarmente rigida e severa. Chi, tra i senatori, mostrava una condotta morale non irreprensibile, e dunque indice di una bassa dignitas, era vittima di una nota censoria e immediatamente espulso dal senato stesso. Ai consoli spettano anche due funzioni elettive, cioè la nomina dei questori e del dittatore. Insigniti in età regia probabilmente di un compito di tipo giudiziario, i questori diventano, in età repubblicana, gli addetti alle finanze romane, incaricati della gestione del tesoro dello stato che aveva sede nel tempio di Saturno nel Foro, inaugurato secondo la tradizione intorno al 500 a.C. Inizialmente due, poi, quattro, già nel corso del V secolo a.C. i questori non saranno più scelti dai consoli ma votati da un’altra assemblea popolare di cui non conosciamo le origini tanto bene quanto quelle dei comizi centuriati, cioè i comizi tributi. In essi, chiamata all’elezione di alcuni magistrati minori e al voto per la sanzione di alcuni reati, la cittadinanza è organizzata sulla base della tribù territoriale di appartenenza, ognuna delle quali esprime un voto.
Il dittatore è, invece, un magistrato straordinario che non viene designato necessariamente e a scadenze precise. Egli viene creato dai consoli dietro indicazione del senato in circostanze particolarmente difficili per lo stato, in concomitanza con guerre drammatiche o con complicate crisi sociali. Il dittatore esercita pieni poteri civili e militari sulla città, assimilabili a quelli che furono del re, con la differenza che il suo incarico può durare al massimo sei mesi, entro i quali dovrebbe mettere mano alla situazione per la quale è scelto e risolverla, rimettendo poi il mandato ai consoli.
La costituzione repubblicana e le circostanze storiche in cui essa si sviluppa modificano e accrescono rispetto al passato anche il ruolo del senato nella politica di Roma.
Originariamente di 100 persone, e di rango patrizio, Tarquinio Prisco ne avrebbe incrementato il numero a 300 unità, inserendo alcuni membri delle cosiddette minores gentes, che, a quanto sembra, potevano anche appartenere alla plebe. Nell’età regia e ancora all’alba dell’età repubblicana il senato appare sostanzialmente come un organo consultivo dei massimi magistrati, in buona parte composto da persone a loro vicine e in qualche misura sottoposte al loro arbitrio. Dall’inoltrato IV secolo a.C. il ruolo del senato si trasformerà in parte, sia per via dei successi militari conseguiti da Roma, sia per effetto della legge Ovinia che rende i senatori non più un consesso di amici del potente di turno, ma un organo istituzionale composto da cittadini (solitamente ex magistrati) scelti a vita dai censori e dunque in grado di gestire l’azione politica di Roma con una continuità che ai normali magistrati eletti annualmente era impossibile realizzare. Gli ambiti in cui il senato affermerà maggiormente il suo potere decisionale saranno quelli del controllo delle finanze pubbliche e quello dei rapporti con le popolazioni straniere. Ogni spesa pubblica, ordinaria e straordinaria, seppur gestita dai magistrati in carica sarà, nei fatti, vincolata dal benestare dei senatori. Le ambascerie (dei Romani all’esterno e di popoli stranieri a Roma), le dichiarazioni di guerra, i trattati di pace sono, poi, spettanza del senato, senza che i comizi vengano minimamente coinvolti. Al senato sarà demandata, inoltre, fino alla fine del II secolo a.C., l’amministrazione delle terre pubbliche (ager publicus), con il potere di disporre assegnazioni o deduzioni coloniarie.
Il quadro originario delle magistrature romane subisce alcune significative integrazioni già agli inizi del V secolo a.C., a seguito di una fase assai turbolenta che la neonata repubblica deve soffrire.
Secondo le fonti antiche l’ultimo re di Roma, dopo essere stato cacciato, avrebbe cercato a più riprese di riconquistare il potere e, al contempo, di recuperare l’ingente patrimonio avito che gli era stato confiscato dai primi consoli. All’indomani della creazione delle istituzioni repubblicane è datata una congiura filo-monarchica ordita da alcuni giovani delle famiglie Vitellia e Aquilia insieme con i figli del primo console, Lucio Giunio Bruto; di lì a poco le fonti testimoniano, poi, del tentativo di Porsenna, signore della etrusca Chiusi e amico di Tarquinio il Superbo, di attaccare Roma e restaurare il potere dell’ultimo re; nel 496 a.C., infine, Tarquinio, grazie all’aiuto di Ottavio Mamilio di Tuscolo, avrebbe riunito una lega di città latine che si sarebbero scontrate con l’esercito romano presso il lago Regillo dove Roma avrebbe ottenuto una vittoria decisiva per consolidare la sua egemonia sull’etnia latina.
Il trattato di pace conseguente a tale vittoria, stilato dal console Spurio Cassio (foedus Cassianum), obbligherà le parti – cioè la sola Roma da un lato, tutto il resto delle città latine dall’altro – a mantenere la pace, a prestarsi aiuto reciproco e a dividere a metà eventuali bottini di guerra. Il foedus Cassianum stabilisce tra Roma e i Latini dei diritti molto precisi: il ius conubii, cioè il diritto che permetteva ai membri delle comunità che ne godevano di contrarre giuste nozze tra di loro, tramite le quali si garantiva ai figli la legittima discendenza nella linea paterna; il ius commercii, cioè il diritto di comprare e vendere ogni tipologia di merci e di realizzare ogni forma di contratto; il ius migrationis, che consentiva ai beneficiari di ottenere la cittadinanza in qualunque delle comunità inserite nell’accordo semplicemente risiedendovi stabilmente. Dal 486 a.C. gli Ernici, popolazione italica che abitava la valle del Sacco, alleatasi con Roma, verosimilmente condivideranno anch’essi diritti e doveri previsti dal foedus Cassianum.
Le fonti antiche testimoniano, parallelamente agli scontri fomentati da Tarquinio il Superbo e specialmente nella prima metà del V secolo a.C., delle guerre di Roma con tre popoli, cioè i Volsci, gli Equi e i Sabini. I primi, scendendo dalle zone appenniniche, prendono possesso della parte meridionale del Lazio, in particolare l’area della pianura pontina, precedentemente controllata da Roma. Gli Equi, muovendo dalla zona occidentale del lago del Fucino, occupano le latine Tivoli e Preneste. I Sabini, invece, da nord-est tentano da tempo di ottenere il controllo della via Salaria che, da Ostia, consente la circolazione del sale e di altre merci verso l’area appenninica. Proprio in questo contesto di forte pressione nemica su Roma e sulle aree da essa controllata si colloca un momento di decisiva trasformazione politica della città.
In età arcaica non esistono a Roma militari di professione ma i cittadini delle prime cinque classi vengono richiamati in guerra in numero variabile sulla base delle necessità contingenti. Essi vanno a combattere a loro spese, pagando sia l’armamento previsto per la loro classe di appartenenza sia, insieme con tutti i Romani, il tributum richiesto dallo stato per il mantenimento dell’esercito.
Il periodo dedicato, in età arcaica, alle guerre si colloca tra il mese di marzo inoltrato e gli inizi del mese di ottobre, cioè nella fase dell’anno in cui le attività agricole, che garantiscono la sussistenza alla gran parte dei cittadini romani, sono particolarmente intense. Le costanti, dure, prolungate e costose guerre dei primi anni della repubblica, rendendo impossibile a molti richiamati in guerra di occuparsi dei loro fondi – che, anzi, sovente subiscono il saccheggio nemico –, obbligheranno molti Romani, impoveritisi, a indebitarsi con cittadini più abbienti, spesso per mezzo di un negozio giuridico detto nexum. Tramite quest’ultimo, il debitore si lega (nexum deriva dal verbo latino nectere, "legare") al creditore ricevendo da quest’ultimo del denaro che restituirà sottoponendosi a lui come bracciante agricolo fino a quando il prestito non sarà risarcito.
Le condizioni politico-militari dei primi anni della repubblica accentueranno sensibilmente le sperequazioni sociali all’interno della cittadinanza romana: i pochi detentori del denaro, che spesso, in loro assenza, hanno la possibilità di farsi coltivare la terra da altri (clienti, figli, nexi), avranno modo di accrescere ulteriormente le loro ricchezze e il loro potere, mentre parallelamente una massa sempre più ampia di cittadini richiamati diventerà più povera.
La contrapposizione tra ricchi creditori e poveri debitori/nexi spesso corrispondeva a un’altra distinzione sociale da sempre esistente a Roma e che nell’alta età repubblicana si fa più marcata e drammatica, cioè quella tra patrizi e plebei. I patrizi erano i discendenti dei primi senatori creati da Romolo e di altri personaggi di alto rango le cui famiglie erano state via via inserite nella cittadinanza romana e collocate autoritativamente dal re o dai consoli in tale novero. Spesso – ma non sempre – dotati di sostanze maggiori dei plebei, i patrizi detengono rispetto a questi ultimi anche una dignitas più elevata dovuta alla schiatta da cui discendono. Queste caratteristiche fanno sì che per i patrizi sia assai più facile accedere alla prima classe di census, che è, nei fatti, l’unica che apre la strada al conseguimento di una magistratura. Per candidarsi è, infatti, necessario aver militato almeno dieci anni in una delle diciotto centurie di cavalieri (equites), composte da soli cittadini della prima classe. Se i magistrati con poteri consolari di origine non patrizia eletti agli inizi dell’età repubblicana a cui possiamo risalire dalle testimonianze antiche sono pochissimi – meno del 5 percento tra il 482 e il 401 a.C. (10 su 216) – è proprio perché la prima classe doveva essere, almeno fino agli inizi del IV secolo a.C., a larghissima maggioranza patrizia.
Costantemente richiamati in guerra, impoveriti, indebitati, per lo più esclusi dall’accesso alla prima classe di census e alle magistrature, i plebei – o almeno una parte consistente di loro – nel 494 a.C., secondo le fonti antiche, decidono di separarsi da Roma, ritirandosi sul Monte Sacro, sulla riva destra del fiume Aniene, a nord-est della città. In quest’occasione i plebei presenti organizzano per la prima volta un’assemblea (concilium plebis), dalla quale i patrizi sono esclusi, i cui decreti (plebiscita) inizialmente saranno vincolanti per tutta la plebe. Dal 449 a.C., in seguito alle leggi Valerie-Orazie, i plebisciti, previa approvazione del senato, avranno valore per tutto il popolo. Nel concilium plebis la plebe non è organizzata su base censitaria ma, dopo una breve fase per curie, su base territoriale a partire dalle tribù locali, riducendo così possibili discriminazioni di tipo socio-economico tra i suoi membri.
Il reintegro della plebe secessionista nel resto della cittadinanza romana si realizzerà nel momento in cui il senato avrà concesso all’assemblea plebea di eleggere tra i suoi membri alcuni magistrati, cioè i tribuni e gli edili della plebe.
Originariamente in numero di due, i tribuni della plebe, oltre a quello di convocare il concilium plebis, hanno il compito di soccorrere i cittadini plebei infliggendo pesanti multe quando un magistrato agisce contro qualcuno di loro in modo inappropriato e, non meno importante, quello di porre il loro veto vincolante a qualunque proposta di un magistrato che appaia contraria all’interesse della plebe. Chi ha usato violenza contro un tribuno viene considerato homo sacer, escluso dal consorzio degli esseri umani e assassinabile senza subire pena, mentre i suoi beni sono consacrati alla dea Cerere.
Gli edili della plebe, anch’essi in origine due, devono inizialmente fungere da custodi del tempio (in latino aedes, da cui il termine aediles) di Cerere, Libero e Libera sull’Aventino, dove vengono raccolte le multe inflitte a coloro che abbiano offeso o danneggiato dei plebei e nel quale sono conservati gli atti dei plebisciti votati dal concilium plebis.
La prima secessione della plebe raggiunge importanti risultati politici ma non porta alcuna soluzione al problema dei cittadini indebitati o impoveriti per via dei costanti richiami in guerra. Alla questione cercherà di porre mano, nel 486 a.C., Spurio Cassio, già autore del foedus Cassianum, proponendo una redistribuzione agli indigenti delle terre sottratte via via ai nemici e per questo diventate proprietà del popolo romano (ager publicus).
La proposta di Spurio Cassio, seppur a lungo discussa e dibattuta in senato, non avrà seguito sia a causa delle mire tiranniche di Spurio, che vuole attrarre a sé la massa di indigenti per restaurare una monarchia con lui a capo (per questo motivo Spurio verrà messo a morte), sia perché il senato non riesce a trovare un accordo sulla applicazione di tale legge. Evenienza, questa, spiegabile col fatto che in età arcaica l’ager publicus, una volta delimitato, diviene controllabile, e senza limiti, dai cittadini che per primi lo raggiungono e sono in grado di sfruttarlo – magari tramite uomini di fiducia come clienti o parenti. Spesso, in questo modo, i più ricchi e potenti finiscono per controllare grandi porzioni di terra pubblica a loro vantaggio, escludendo i più poveri. Va da sé che una parte dei senatori, coincidendo con i maggiori possessori di ager publicus, non ha alcun interesse che esso venga assegnato per legge, e in proprietà privata, ad altri.
Il percorso di rivendicazione dei loro diritti da parte dei plebei trova un altro importante luogo di realizzazione, questa volta di tipo giuridico, alla metà del V secolo a.C.
Roma possiede sin dalle origini delle leggi, ma solo una parte molto ridotta di esse esiste in forma scritta, fissata in modo comprensibile e dunque, per così dire, uguale per tutti. La conoscenza e l’interpretazione delle leggi più antiche, scritte e soprattutto orali, sono retaggio dei pontefici, di estrazione patrizia. La creazione di nuove leggi in età repubblicana prevede, poi, che esse siano proposte da un magistrato, discusse informalmente dai cittadini che lo vogliano, approvate dal senato e, infine, votate dai comizi centuriati. La netta prevalenza di magistrati di estrazione patrizia, la composizione quasi esclusivamente analoga del senato (tra i cui membri vengono scelti, peraltro, i giudici), il potere politico e decisionale della prima classe (ampiamente composta da patrizi) fa sì che la plebe sia quasi priva di voce in capitolo per ciò che concerne la formulazione, la discussione, l’interpretazione e l’applicazione delle leggi stesse. Per questo motivo, già nel 462 a.C. il tribuno della plebe Gaio Terentilio Arsa richiede, senza successo, che vengano nominati cinque cittadini incaricati di mettere per iscritto le leggi orali romane al fine di limitare l’uso arbitrario che i patrizi talora dovevano farne. A causa dell’insistenza dei tribuni plebei, nel 451 a.C. viene nominato un collegio di dieci uomini (tutti patrizi) che si devono occupare della stesura delle leggi romane (decemviri legibus scribundis) che saranno messe per iscritto su dieci tavole bronzee. Nell’anno successivo, un altro collegio di decemviri, questa volta composto in parte da plebei, raccoglierà altre due tavole di leggi.
Nei due anni consacrati alla stesura di quella che resterà nella storia come la legge delle XII Tavole i decemviri, a cui era stato dato il pieno potere sulla città di Roma, governeranno in modo dispotico tentando di prolungare indefinitamente il loro mandato di cui, invece, verranno privati con disonore, essendo alcuni messi a morte, altri esiliati.
Ciò non di meno, alla metà del V secolo a.C. il popolo romano avrà a disposizione il suo primo codice di leggi scritte che si occupa di questioni prevalentemente civili e penali, pur non essendo privo di riferimenti al diritto costituzionale.
Nella creazione di questo insieme di leggi certe in quanto scritte – e, quindi, assai male sottoponibili all’arbitrio individuale – i Romani identificavano un momento decisivo in cui si sarebbe realizzato il loro concetto di libertas, inteso come garanzia di equità del diritto.
Molte delle norme della legge delle XII Tavole ci sono note: esse venivano, infatti, imparate a memoria dai Romani almeno fino all’alta età imperiale e, dunque, numerosi autori latini le citano spesso quando riflettono su questioni giuridiche, storiche, socio-economiche o, in certi casi, linguistiche – il latino impiegato nelle XII Tavole è infatti, salvo qualche aggiornamento, quello che con tutta verosimiglianza si doveva parlare a Roma in età arcaica.
In virtù della loro natura prevalentemente civilistica, le XII Tavole consentono di osservare in controluce molti aspetti della vita sociale della Roma arcaica: alcuni codici comportamentali, l’organizzazione dei rapporti fra cittadini, le forme di sussistenza e di scambio, le modalità con cui sono organizzate le controversie civili.
Leggendo i frammenti delle XII Tavole che ci sono rimasti è possibile comprendere, ad esempio, quanto esteso sia il potere del pater familias sulla sua familia (composta di discendenti maschi e femmine, schiavi, patrimonio immobiliare e mobile): il pater può, ad esempio, vendere temporaneamente un figlio nel caso abbia bisogno di denaro, farlo uccidere se nato deforme, decidere in totale autonomia le sorti del patrimonio familiare.
Alle donne (eccettuate le sole vestali) è impedito, invece, di gestire personalmente il patrimonio, anche in assenza di un ascendente agnatizio vivente: in questo caso la donna sarà affiancata da un tutore maschio, solitamente imparentato. Le stesse limitazioni alla gestione del patrimonio sono imposte per legge anche ai bambini, ai malati di mente e agli scialacquatori.
Una simile condizione di non pienezza dei diritti è rilevabile anche per altre figure presenti nella società romana arcaica, caratterizzate dal fatto di non appartenere affatto, o di appartenere a titolo non pieno, alla cittadinanza: gli stranieri, ad esempio – eccettuati quelli con ius commercii –, godono di diritti ridotti nella sfera commerciale rispetto ai cittadini; i liberti (cioè gli ex schiavi resi liberi dal padrone), in caso di morte senza eredi, perdono il patrimonio a favore non dei parenti di sangue, ma dell’ex patrono; gli schiavi, a parità di lesione fisica perpetrata a danno di un Romano, devono pagare una multa doppia rispetto a quella che era assegnata a un libero cittadino colpevole dello stesso reato; allo stesso modo, se colti in flagrante mentre rubano, gli schiavi vengono fustigati e messi a morte, mentre i cittadini vengono aggiudicati in servitù al derubato.
Come indicano gli ultimi esempi, la legge delle XII Tavole si occupa ampiamente di punizione dei crimini. Se la produzione di lesioni fisiche, o il riconoscimento di un furto a un individuo senza che sia colto sul fatto, porta solitamente a sanzioni pecuniarie, la Legge prevede la pena di morte per una serie di reati considerati molto gravi all’interno del sistema di valori culturali romani. Nella "orale" Roma arcaica veniva condannato a morte, ad esempio, chi componeva ed eseguiva canti infamanti nei confronti di un cittadino; nello stesso modo si puniva chi istigava dei nemici contro Roma, chi consegnava a questi ultimi un cittadino o chi rendeva falsa testimonianza in un processo. Tutti questi individui tradivano, nei fatti, la fiducia e la lealtà (fides) che ogni Romano doveva alla sua città e ai suoi concittadini. Nella agricola società romana si punisce con la morte, poi, chi raccoglie di nascosto i frutti dei campi altrui, chi fa pascolare di notte i suoi giumenti in terre non sue e chi cerca di attrarre per mezzo di incantamenti le messi di un altro cittadino.
Molti altri aspetti della vita materiale romana arcaica sono regolamentati dalle XII Tavole: dalle forme di scambio, che prevedono modalità distinte se in vendita sono i beni più preziosi per il lavoro dei campi (fondi, servitù prediali, buoi, asini, muli, cavalli, uomini liberi e schiavi, case), detti res mancipi, oppure tutti i restanti (res nec mancipi), fino all’impianto delle siepi, all’impiego di travi che sostengono contemporaneamente le case di due famiglie, alla delimitazione di uno spazio di rispetto tra due proprietà limitrofe, alla costruzione delle strade. Nate in stretta connessione con le richieste plebee, e specialmente di quelle di carattere economico, le XII Tavole regolamentano, inoltre, le forme di indebitamento, impedendo l’usura al di sopra di 1/12 del capitale prestato (fenus unciarium), fissando le regole che creditore e, soprattutto, debitore devono rispettare una volta stabilito l’ammontare del dovuto e indicando le modalità precise tramite cui deve compiersi il nexum.
Quasi a compensare le concessioni fatte alla plebe, le XII Tavole nella loro stesura originale presentano una norma, scritta per l’occasione, che interdice il matrimonio tra patrizi e plebei. Fino a quel momento, perché a Roma ci fosse un matrimonio legittimo, cioè in grado di far inserire il figlio nella linea di discendenza del padre ereditandone il nome di famiglia, gli ascendenti e in futuro il patrimonio, era necessario che i genitori fossero entrambi romani – oppure che un genitore fosse romano e l’altro dotato di ius conubii con Roma. Stanti queste condizioni, in caso di matrimonio tra un plebeo e una patrizia i figli sarebbero stati plebei, mentre questi ultimi sarebbero stati patrizi se il padre era patrizio e la madre plebea. La norma introdotta dalle XII Tavole vuole, invece, impedire che i due ordini sociali si contaminino reciprocamente, chiudendoli l’uno all’altro e cristallizzandone la composizione, a vantaggio della continuità di sangue e di potere dei patrizi. Questa disposizione di natura endogamica provocherà una forte reazione della plebe e avrà vita brevissima. Già nel 445 a.C. il tribuno della plebe Gaio Canuleio propone con successo una legge che abolisce tale norma, reinstaurando il sistema tradizionale.
L’attività dei plebei, e dei loro magistrati, verso il riconoscimento di altri diritti e poteri non viene meno neanche nel periodo militarmente impegnativo che travaglierà Roma nella seconda metà del V secolo a.C. e all’inizio del IV.
Tra il 444 e il 367 a.C. viene creata una nuova magistratura, il tribunato militare con potestà consolare, sulla cui natura le testimonianze antiche non sono del tutto chiare e coerenti, salvo sottolinearne l’importanza per le rivendicazioni plebee. Nei fatti, durante il periodo di esistenza di tale magistratura, i senatori stabiliscono ogni anno se far creare dal popolo, come di norma, due consoli oppure se far eleggere un numero maggiore (da tre a sei) di tribuni militari con potestà consolare. Questa carica viene considerata dai patrizi meno prestigiosa rispetto al consolato e per tale motivo questi ultimi opporranno meno resistenze, in sede di votazione, all’elezione di plebei che, da quanto si può evincere dalle fonti, saranno nominati comunque in numero alquanto inferiore rispetto ai patrizi.
Sembrerebbe, dalle liste che possediamo, che i tribuni militari con potestà consolare siano designati negli anni che si presentano particolarmente delicati per Roma dal punto di vista bellico. Gli scontri contro Volsci, Equi e Sabini, che gli storici antichi testimoniano come ricorrenza quasi imprescindibile per Roma fino agli anni intorno al 450 a.C., si riducono sensibilmente nella seconda metà del secolo. Roma, che nel passato si è limitata a combattere i nemici sottraendo loro il bottino e un po’ di terre, ha infatti sviluppato nei confronti delle aree contese con tali popolazioni una politica improntata alla fondazione di colonie, cioè all’insediamento di comunità composte o da soli cittadini romani (si parla in questo caso, di colonie romane) oppure, più spesso, da Romani e Latini (colonie latine).
Le colonie sono finalizzate al controllo delle aree strategiche e di contatto con le popolazioni nemiche, in modo da bloccarne le incursioni e i tentativi di espansione. In queste roccaforti (le principali fondazioni a cavallo tra 442 e 382 a.C. sono Ardea, Labici, Velletri, Circeii, Satrico, Sutri e Nepi), i cittadini, seppur collocati relativamente lontani da Roma o agli estremi confini del Lazio, sono soggetti in un caso alle stesse leggi e agli stessi diritti di Roma, nell’altro ai diritti di cui i Latini godono rispetto a Roma, fissati nel foedus Cassianum.
Limitate, anche grazie alle colonie, le incursioni delle popolazioni italiche stanziate verso l’Appennino, Roma tra fine V e inizi IV secolo a.C. deve vedersela, tuttavia, con due avversari di non minore importanza che arrivano da nord, cioè l’etrusca Veio e i Galli. La prima è un’avversaria storica di Roma e non c’è da stupirsene visto che i territori delle due città confinavano. I primi scontri tra le due comunità vengono ascritti dalle fonti già alla prima età regia, mentre nel V secolo a.C. Veio e Roma si scontreranno in due lunghe guerre (483-474 e 437-426 a.C.) per il possesso di Fidene – decisiva per il controllo della via Salaria e del percorso del Tevere verso l’Appennino –, con un successo iniziale della città etrusca e un recupero del territorio perduto da parte di Roma nella seconda guerra.
Tra 406 e 396 a.C. le fonti collocano una terza e più drammatica guerra, nella quale per la prima volta i Romani combatteranno anche in inverno e i soldati saranno beneficiari di uno stipendio pubblico. Lungo tutto il periodo della guerra Roma sarà governata da tribuni militari con potestà consolare.
Dopo un lunghissimo assedio Veio viene presa – autore della vittoria sarebbe stato il dittatore Marco Furio Camillo – e il suo territorio (562 km2 secondo le stime dei moderni), celebre per la fecondità, viene interamente incluso nei limiti dell’agro romano, con la creazione di quattro nuove tribù territoriali. Una parte del terreno ex-veiente verrà attribuita a cittadini romani in proprietà privata, con assegnazioni assai generose (sette iugeri, quasi due ettari a persona, contro i due iugeri normalmente distribuiti), mentre il resto diverrà ager publicus.
Sei anni dopo la conquista di Veio, Roma, secondo la tradizione, si scontra con i Galli Sènoni, una popolazione celtica che, muovendo da nord, si era stabilita nell’Italia centro-orientale e cercava nuove sedi spostandosi ulteriormente verso sud. Dopo aver attaccato la città etrusca di Chiusi i Galli, guidati da Brenno, invadono il territorio di Roma, trovando un esercito impreparato ad affrontarli. I Sènoni saccheggiano l’agro romano, mettono a fuoco e assediano la città per sette mesi, giungendo fino alla rocca del Campidoglio che la tradizione vuole venga difesa con coraggio da Manlio Capitolino.
I Galli verosimilmente si muovono verso Roma più alla ricerca di denaro e ricchezze che di conquiste territoriali: essi, a quanto ne sappiamo, preferiranno essere pagati con 1000 libbre d’oro (circa 327 kg) per abbandonare la città, piuttosto che diventarne i dominatori. Una parte consistente dei Galli che attacca Roma si arruolerà solo pochi mesi dopo nelle truppe mercenarie del ricco tiranno Dionisio di Siracusa in guerra con le città greche dell’Italia meridionale.
Liberatisi dei Galli – ancora una volta, secondo le fonti, grazie all’intervento provvidenziale di Marco Furio Camillo – e stabilizzata l’egemonia sulle due sponde del Tevere e sul Lazio, Roma vive un altro periodo di gravi turbolenze interne, caratterizzate da alcuni anni di anarchia politica tra 375 e 371 a.C., in cui i tribuni della plebe impediranno l’elezione dei consoli, e altri anni difficili fino a quando, nel 367 a.C., viene eletto nuovamente dittatore proprio Furio Camillo.
Proprio in quell’anno Camillo si adopera affinché siano promulgate, come poi accadrà, le leggi proposte dai tribuni della plebe Gaio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, tutte tese ad affermare le tradizionali rivendicazioni plebee, sia di tipo politico che economico-finanziario.
Le leggi Licinie-Sestie sono tre: la prima di esse prevede che uno dei due consoli sia necessariamente plebeo. Questa circostanza, a quanto ne sappiamo, non si realizzerà concretamente prima del 342 a.C., in seguito a una legge Genucia che vuole, invece, che tutti e due i consoli possano essere plebei. Nei fatti, grazie alla legge Licinia-Sestia, il consolato, tornato ad essere stabilmente la principale magistratura romana, inizierà ad aprirsi più facilmente ai plebei con l’elezione, già nel 366 a.C., proprio di Lucio Sestio Laterano.
La seconda legge tocca il delicato tema dell’usura: come un secolo prima, le drammatiche e continue guerre combattute dai Romani e i saccheggi subiti sulle terre di proprietà dei cittadini hanno finito per impoverirne gli strati sociali medi e mediobassi, costringendoli a indebitarsi. La legge voluta dai due celebri tribuni impedirà ai prestatori di denaro di richiedere qualunque usura ai debitori: gli interessi eventualmente già pagati da questi ultimi saranno detratti dal totale del capitale dovuto. Solo nel 357 a.C. un’usura fino a 1/12 del capitale, già sancita dalle XII Tavole, tornerà accettabile per legge.
L’ultima, e per certi aspetti più importante, legge Licinia-Sestia affronta il problema della terra, cioè della forma di ricchezza e del mezzo per garantirsi la sussistenza a cui la maggioranza dei Romani ambisce e che spesso le guerre, i saccheggi subiti, i debiti, alcuni soprusi dei più potenti, le assegnazioni in proprietà privata non sufficientemente numerose (come forse fu quella di Veio), impediscono alla massa dei cittadini di godere stabilmente.
La norma voluta dai due tribuni della plebe prevede di limitare a 500 iugeri (circa 125 ettari) la quantità di terra pubblica su cui un cittadino può esercitare la possessio (lex de modo agrorum). Questo significa che tutti coloro i quali – spesso, ma non sempre, patrizi – sfruttano l’ager publicus al di là del limite di legge dovranno necessariamente abbandonare la quantità eccedente, lasciandola a disposizione di altri cittadini che, pur non diventandone proprietari, possono comunque goderne. Ironia della sorte, uno dei primi a essere puniti per eccesso di possessio sarà proprio il promotore plebeo della legge Gaio Licinio Stolone.
Contestualmente alla messa in atto delle leggi Licinie Sestie, nel 366 a.C. vengono create due magistrature inizialmente aperte ai soli patrizi, quasi a compensare le perdite causate dalle norme tribunizie: la pretura, che si aprirà ai plebei già nel 337 a.C., e l’edilità curule. Compiti degli edili curuli, inizialmente due come quelli plebei, sono la cura delle strade e dei luoghi pubblici in Roma, la sorveglianza sui mercati e sull’approvvigionamento della città e l’organizzazione di alcuni giochi cittadini. Nel 306 a.C. anche questa magistratura, eletta dai comizi tributi, viene aperta ai plebei e le funzioni delle due edilità si fondano reciprocamente.