ROMA - Arti suntuarie
R. dovette di certo essere uno dei grandi centri di produzione e di commercio di oggetti preziosi dell'età tardoantica. Tra i cospicui donativi fatti da Costantino il Grande e dai suoi successori alle basiliche da loro fondate, elencati nella vita di s. Silvestro del Lib. Pont. (I, 1886, pp. 170-201), sono compresi metalli lavorati per il fantastico peso complessivo di più di kg 500 d'oro e t 6 d'argento (Baratte, 1992, p. 91). Ciò fa ovviamente presumere l'attività locale di numerose botteghe. Di tutte queste preziose suppellettili ecclesiastiche e di tutte quelle che vennero donate costantemente negli anni successivi alle chiese romane non è però rimasto nulla, con l'unica eccezione di una lampada pensile scoperta nel 1632 negli scavi dell'antico monastero dei Ss. Silvestro e Martino presso l'od. chiesa di S. Martino ai Monti, dove l'oggetto è conservato. La lampada d'argento della forma detta gabata o canistrum, dono di una devota di s. Silvestro come testimonia l'iscrizione ("XP Sancto Silvestrio ancilla sua votum solvit"), è realizzata con una tecnica a traforo di cui sono pervenuti solo rari esempi. Databile alla fine del sec. 4° o agli inizi del 5°, essa testimonia un alto grado di raffinatezza della suppellettile richiesta a R., anche se non è possibile attestarne con sicurezza la produzione locale (Boyd, 1988; Suppellettile, 1988, p. 245).La determinazione dei centri di produzione è del resto uno dei principali problemi irrisolti per quanto riguarda gli oggetti preziosi dei secoli della Tarda Antichità. Alla mobilità e alle vaste relazioni internazionali di committenti d'alto rango, sia laici sia ecclesiastici, corrispose infatti una produzione suntuaria elitaria, basata su modelli classici ed ellenistici di generale diffusione e spesso eclettica riguardo allo stile. Tali caratteri uniti alla quasi totale assenza di documentazione diretta o indiretta - ovvia conseguenza della grande mobilità di questo tipo di oggetti, spesso provenienti da tesori occultati in momenti di pericolo o passati attraverso innumerevoli proprietari - hanno fatto sì che si tenda oggi a giudicare fallito il tentativo di attribuire distinte fisionomie stilistiche alle botteghe operanti nei maggiori centri di produzione: come Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, R., Salonicco e altri (Baratte, 1992; 1997a).Tuttavia, benché con estrema cautela, una serie di considerazioni ha portato a proporre l'attribuzione a botteghe romane di alcuni importanti pezzi. Si tratta in primo luogo, per quanto riguarda i metalli lavorati, di una grande patera d'argento proveniente da Parabiago (Milano, Civ. Mus. Archeologico), decorata con temi connessi al culto di Cibele, resi con uno stile che mostra un evidente classicismo di recupero. L'accostamento tra contenuto pagano e forme marcatamente retrospettive - che compare anche in alcuni dei pezzi del tesoro dell'Esquilino come la patera di Venere (Parigi, Mus. du Petit Palais) - è parso infatti corrispondere alle richieste di un ambiente tenacemente attaccato al passato che corrisponde a quello dell'aristocrazia senatoria romana negli ultimi decenni del sec. 4°, sempre tenendo comunque presente che le vastissime proprietà e i frequenti spostamenti degli appartenenti a questa classe possono anche far presumere che il rifornimento di merci preziose venisse effettuato in più centri (Musso, 1983). D'altro canto il complesso di oggetti (ventisette o ventisei) che forma il tesoro dell'Esquilino (Londra, British Mus.; Parigi, Mus. du Petit Palais; Napoli, Mus. Archeologico Naz.), considerato sostanzialmente omogeneo per quanto riguarda la morfologia dei vasi e attribuito dunque a un'unica bottega romana, attiva tra il 330 e il 370, mostra una molteplicità di stili nelle decorazioni (Shelton, 1981; 1985; Cameron, 1985) e tale constatazione, ribadendo la fragilità di ogni ipotesi di localizzazione basata solo su argomentazioni stilistiche, attesta d'altro canto la compresenza di diverse tradizioni artigianali nella pratica di bottega degli argentieri romani del 4° secolo.Una situazione per molti versi analoga riguarda gli intagli in avorio (Melucco Vaccaro, 1993). A una bottega romana è tendenzialmente attribuito il dittico dei Simmaci e dei Nicomaci (Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny; Londra, Vict. and Alb. Mus.), databile alla fine del sec. 4°, che mostra su ciascuna delle due valve una sacerdotessa celebrante. I panneggi, gli elementi paesaggistici e i motivi decorativi sono tutti desunti da modelli greco-romani, non senza accademismi e incertezze, ma le massicce forme anatomiche rivelano l'eredità della plastica costantiniana. Alla stessa bottega, per la vicinanza di alcuni dei motivi decorativi o dei modi stilistici, sono stati attribuiti altri intagli eburnei, anche di soggetto sacro: il dittico di Probiano (Berlino, Staatsbibl.), l'Ascensione di Monaco (Bayer. Nationalmus.) e l'avorio Trivulzio con le Pie donne al sepolcro (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), tutti databili tra la fine del sec. 4° e gli inizi del 5° (Kinney, 1981), che presentano altre varianti stilistiche sempre di stampo classicistico. In altri dittici eburnei dei decenni successivi, per i quali la produzione romana può essere ritenuta plausibile in ragione dei committenti (Brandenburg, 1987), si registra il graduale abbandono dei modelli classici a vantaggio di nuove ricerche espressive nel quadro di un processo che investe tutta la produzione artistica dell'Occidente (Kitzinger, 1977, p. 46). A officine romane deve inoltre verosimilmente spettare la capsella di Samagher (Venezia, Mus. Archeologico) con la raffigurazione della Memoria di s. Pietro nella basilica vaticana e di altri monumenti cittadini (ca. 440; Guarducci, 1978).Comune alla sfera profana e a quella religiosa è anche un'altra produzione suntuaria con caratteri spiccatamente romani, quella dei 'fondi oro', dischi formati da due strati di vetro trasparente racchiudenti una lamina d'oro con decorazione graffita o disegnata che comprende ritratti e raffigurazioni tratte dalla religione cristiana o ebraica e anche dalla mitologia pagana. Trovati per gran parte nelle catacombe (per cui sono denominati anche vetri cimiteriali) affissi nella calce all'esterno dei loculi, forse come segno di riconoscimento, questi vetri, la cui produzione va dagli inizi del sec. 3° fino al 6°, costituivano in origine il fondo di recipienti probabilmente eseguiti per essere donati in particolari ricorrenze (Zanchi Roppo, 1967; Engemann, 1968-1969).Solo rari ritrovamenti testimoniano oggi della diffusione a R. delle principali tipologie di gioielli di uso personale generalmente usati dalle classi dominanti dell'epoca. Un esemplare databile al sec. 5° di fibula aurea a balestra, con staffa lavorata a traforo, è stato ritrovato nella zona del palazzo imperiale del Palatino (Roma, Mus. dell'Alto Medioevo; Arena, Paroli, 1993, p. 10). Nel corso di lavori in piazza della Consolazione agli inizi del Novecento venne scoperto un consistente gruppo di gioielli appartenenti al c.d. stile internazionale, una definizione che raggruppa monili in oro con zaffiri, pseudosmeraldi e perle ampiamente diffusi nel mondo tardoantico. Una parte di questo tesoro di piazza della Consolazione, disperso dopo la scoperta, si trova oggi a Washington (Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.); alcuni dettagli che rivelano contatti con oreficerie barbariche ne hanno fatto proporre un'origine romana intorno agli inizi del sec. 5° (Ross, 1965). Dalla tomba di una dama ostrogota della prima metà del sec. 6° nella catacomba di S. Valentino sulla via Flaminia proviene infine una coppia di fibule ad aquila con decorazione di almandini inseriti in celle auree (Roma, Mus. Capitolino, Medagliere; I Goti, 1994, p. 182).Sul luogo di produzione di questi ultimi oggetti è ovviamente del tutto impossibile fare ipotesi, tuttavia va osservato che se un tempo la chiara impronta germanica di tali fibule avrebbe comunque fatto del tutto escludere una produzione romana, la recente scoperta a R., nella crypta Balbi, di un grande riporto di rifiuti, probabilmente risalente alla fine del sec. 7°, che ha restituito centinaia di reperti riferibili a varie fasi di lavorazione di oggetti suntuari di tradizione mediterranea così come germanica, ha notevolmente rivoluzionato le idee in proposito, attestando non solo il persistere, almeno fino alla fine del sec. 7°, di una produzione di merci di lusso, ma anche la capacità di questa di adattarsi a soddisfare un'ampia gamma di richieste, cosicché va oggi presa in considerazione la possibilità di attribuire a officine romane parte dei materiali, di impronta germanica o italo-bizantina, rinvenuti nelle necropoli longobarde dell'Italia centrale (Arti del fuoco, 1994; Ricci, 1997).Destituita di fondamento appare invece l'ipotesi di un invio da R., da parte del papa Gregorio Magno, della legatura offerta da Teodolinda alla basilica di S. Giovanni a Monza (Monza, Mus. del Duomo), opera che trova nell'ambito della corte longobarda i suoi più pertinenti punti di riferimento, mentre per quanto riguarda l'encolpio-reliquiario effettivamente dono del papa alla regina sembra trattarsi di un oggetto di produzione orientale (Elbern, 1992, p. 396ss.). Il fatto non sorprende visto che, soprattutto nell'ambito delle suppellettili sacre, le opere provenienti dall'Oriente, in primo luogo dalla capitale bizantina, ebbero a R., in questi secoli ma anche in seguito, un ruolo sicuramente di primo piano, come attesta la loro gelosa custodia nei tesori delle basiliche e del Sancta Sanctorum (Francia, 1989; Andaloro, 1990; Morello, 1991). Provenienti inizialmente dall'Oriente, ma in seguito probabilmente realizzati anche in loco, dovettero essere i preziosi tessuti serici di cui a partire dagli inizi del sec. 6° fa menzione il Lib. Pont., in un crescendo di ricchezza che culmina nelle stoffe istoriate donate dai papi Zaccaria (741-752) e Adriano I (772-795; Petriaggi, 1984).Per l'epoca carolingia, nuovamente le fonti, in primo luogo il Lib. Pont., tramandano il ricordo di opere di inestimabile valore donate dai sovrani franchi alle chiese di R. o fatte realizzare dai papi che poterono contare allora su ampi finanziamenti (Delogu, 1988; Ponzo, 1996). Di tanti tesori si è conservato assai poco e, perduta la croce gemmata del tesoro del Sancta Sanctorum, peraltro da molti studiosi assegnata piuttosto al sec. 6° (Cecchelli, 1951-1952, p. 20; Elbern, 1988, p. 56), l'unico complesso di oggetti di oreficeria di epoca carolingia realizzati a R., che comprende la croce smaltata di Pasquale I, la relativa teca e la teca cruciforme della citata croce gemmata (Roma, BAV, Mus. Sacro), non rispecchia il fasto deducibile dalle fonti o dalle opere di oreficeria carolingia realizzate altrove, mostrando invece caratteri autonomi e peculiari in cui si può ravvisare un'interpretazione romana dell'oreficeria sacra di altissimo significato. Gli oggetti in questione infatti appaiono di grande modestia, per la rinuncia a ogni applicazione di gemme, filigrane o altri motivi ornamentali; l'apparato decorativo si limita alla raffigurazione di un ampio ciclo cristologico, a sbalzo sulle teche e in smalto cloisonné sulla croce, inerente nelle scelte iconografiche e stilistiche a un processo di sofisticata elaborazione della tradizione che costituisce un capitolo squisitamente romano e papale della renovatio carolingia, non privo di influenza all'esterno anche nell'ambito specifico dell'oreficeria (Elbern, 1976; 1988, p. 54). Tale è la coerenza del quadro formato da queste opere e dai loro rapporti con realizzazioni monumentali coeve, principalmente per quanto riguarda i mosaici, che sembrano definitivamente da accantonare le ipotesi che in passato hanno voluto vedere nella stauroteca smaltata un oggetto d'importazione poi riutilizzato, tanto più che la singolarità degli smalti, non di alta qualità esecutiva ma dai colori luminosi, ne fa comunque escludere una provenienza dall'Oriente (Haseloff, 1990, p. 77).Alla predilezione romana per l'aspetto narrativo dell'arte anche nel campo suntuario, di cui è testimonianza una serie di menzioni nel Lib. Pont. di arredi liturgici in metallo prezioso decorati a sbalzo con soggetti sacri, già a partire dal pontificato di Sisto III (432-440; Elbern, 1988, p. 54), si collega un'altra opera risalente al periodo carolingio, un crocifisso d'argento a grandezza naturale che si trovava presso l'ingresso della basilica vaticana, di cui si conserva un calco realizzato prima della fusione del pezzo decisa dal papa Giulio III (1550-1555), ora nella basilica di S. Pietro in Vaticano. Tale crocifisso, detto croce carolingia, da identificare probabilmente con quello mire opere depictum donato alla basilica dal papa Leone IV (847-855; Lib. Pont., II, 1892, p. 128), costituisce una testimonianza chiave del ruolo di R. nella genesi della plastica in metallo prezioso su scala monumentale, che ebbe esiti rilevanti nei secoli seguenti in diverse regioni (Beutler, 1964, p. 34; Elbern, 1988, pp. 98ss., 122).Per i secoli successivi, le testimonianze sono talmente scarse da non permettere alcuna congettura. L'accenno a una presumibile attività suntuaria a R. si trova in un passo di Rodolfo il Glabro (Historiarum libri quinque, I, 5; PL, CXLII, coll. 625-626) dove si ricorda che il papa Benedetto VIII (1012-1024) donò a Enrico II, in occasione della sua incoronazione imperiale in S. Pietro in Vaticano il 14 febbraio 1014, un globo d'oro ornato di diamanti. Ai primi decenni del sec. 11° dovrebbe risalire anche la legatura in argento dell'Evangeliario di S. Maria in Via Lata (Roma, BAV, S. Maria in Via Lata I. 45) se la donatrice Berta nominata nell'iscrizione è da identificare effettivamente con la monaca omonima citata nei documenti del monastero dei Ss. Ciriaco e Nicola agli anni 1012 e 1024 (Cavazzi, 1908, p. 335ss.; Hermanin, 1945, p. 357; Cecchelli, 1951-1952, p. 26). La legatura, che presenta su un piatto la raffigurazione della croce ornata da gemme e filigrane all'interno di una cornice a girali stilizzati e sull'altro la raffigurazione dell'Annunciazione a sbalzo sormontata dai busti dei Ss. Ciriaco e Nicola, è di grande interesse poiché lo stretto legame iconografico con il monastero romano annesso alla diaconia di S. Maria in Via Lata ne fa un manufatto attribuibile con la massima probabilità a una produzione locale. Lascia tuttavia perplessi una datazione così alta, in quanto lo stile dello sbalzo con l'Annunciazione, dai volumi espansi e le ampie matasse di pieghe, farebbe addirittura propendere per una data nell'inoltrato 12° secolo. Nella prima metà del sec. 12° si pone l'attività di Gregorius artifex, del quale restano due reliquiari firmati in S. Maria in Campitelli; tali opere tuttavia, già probabilmente modeste nella redazione originaria, sono oggi talmente trasformate da interventi posteriori da rendere assai ardua ogni considerazione sul loro aspetto primitivo (Montorsi, 1980).Sul finire del sec. 12° cominciò a manifestarsi nell'ambiente romano una predilezione per le suppellettili sacre de opere Lemovitico, vale a dire degli ateliers di Limoges; questa produzione in rame sbalzato, inciso e decorato da smalti champlevés, non eccessivamente dispendiosa, ben si accordava evidentemente con la volontà di illustrare che costituiva, come si è già accennato, il principale fondamento dell'attività papale in ambito artistico. Ad artefici provenienti da Limoges venne affidata da Innocenzo III (1198-1216), alla vigilia del quarto concilio lateranense (1215), la realizzazione del frontale della Confessione di S. Pietro, oggi conservato in frammenti (Roma, BAV, Mus. Sacro; Mus. del Palazzo di Venezia). Con il suo chiaro schema iconografico corredato da iscrizioni, questo complesso ben si inserisce nel programma di visualizzazione del potere papale elaborato a quel tempo (Iacobini, 1991, p. 315). Da un tale discorso però esula completamente un'altra realizzazione di età innocenziana, il rivestimento argenteo dell'acheropita lateranense, veneratissima icona del Salvatore custodita nel Sancta Sanctorum. La decorazione della lastra infatti è dominata da fitte serie di motivi aniconici che solo ai margini laterali lasciano spazio a due fasce con figure. L'esecuzione alquanto sommaria dello sbalzo delle figure fa presupporre un'esecuzione da parte di maestranze locali, non particolarmente esperte, che forse riproducevano un prototipo più antico (ivi, p. 312). Indipendentemente dalla possibilità di un modello precedente, è evidente che la singolare tipologia decorativa della lamina deve legarsi alla sua funzione di rivestimento dell'icona e in considerazione di ciò i possibili riferimenti vanno cercati nell'ambito delle preziose vesti liturgiche (Di Berardo, 1994).Negli anni seguenti, un reliquiario fatto realizzare da Onorio III (1216-1227) per la reliquia del capo di s. Agnese (Roma, BAV, Mus. Sacro), che faceva parte del tesoro del Sancta Sanctorum, ha una decorazione limitata a un orlo a palmette (Cecchelli, 1951-1952, p. 30); alcuni decenni dopo, il corredo funebre del papa Clemente IV (1265-1268), attualmente scomparso, era composto da oggetti non omogenei, nessuno dei quali sembra mostrare qualche elemento che autorizzi un riferimento a R. (Piferi, 1996).In seguito però le testimonianze si infittirono delineando un quadro piuttosto articolato. Accanto a un'ampia diffusione di prodotti alla moda di provenienza oltrealpina, come i ricami in opus anglicanum o gli avori intagliati di produzione parigina (Pomarici, 1997), la produzione locale sembra svolgersi secondo due principali tendenze. Da un lato si conservano manufatti che portano avanti la tradizione romana del magistero dell'immagine, che viene espressa, oltre che nei temi iconografici, anche con il ricorso a tecniche, modi formali e impaginazioni decorative arcaizzanti o comunque strettamente legati alla cultura figurativa locale, senza tuttavia che manchi un certo fermento di attualità. Come esempi maggiormente significativi di tale corrente vanno ricordati: il paliotto a ricamo con la Vergine in trono e santi di Anagni (Tesoro del Duomo; Pomarici, 1997, p. 263), la croce costantiniana del tesoro di S. Giovanni in Laterano con raffigurazioni a sbalzo di un ciclo veterotestamentario (Koenen, 1995) e l'icona a smalto champlevé di Maria Dendrofora da S. Maria in Portico, ora a S. Maria in Campitelli (Andaloro, 1991), tutte opere collocabili alla fine del 13° secolo.D'altro canto restano testimonianze del vivo interesse verso i fenomeni più nuovi nel campo delle arti preziose. A tale proposito va menzionato il reliquiario del dito di s. Andrea (Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco), donato dal papa Niccolò IV (1288-1292) nel 1288 alla basilica assisiate, che, inequivocabilmente romano come attestano i punzoni - i primi dopo quello su un braccio-reliquiario in S. Maria in Campitelli (Toesca, 1971) - e la presenza delle figure delle Ss. Agnese e Pudenziana, mostra modi stilistici e motivi decorativi derivati dalle novità francesi e assisiati degli ultimi decenni (Splendori di Assisi, 1998). In questo quadro di aggiornamento si possono collocare il calice e la patena di Benedetto XI (1303-1304), databili ai primi anni del sec. 14° (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria) che, accomunati al reliquiario del dito di s. Andrea per l'alto livello qualitativo, presentano anche la novità dello smalto traslucido, invenzione senese qui declinata romanamente, di cui già il papa Niccolò IV era stato promotore con la commissione a Guccio di Mannaia del calice per la basilica assisiate (Pomarici, 1996).Il trasferimento dei papi ad Avignone nel 1309 dovette ovviamente comportare un estremo rarefarsi della produzione suntuaria romana. Una sporadica testimonianza, il fusto del reliquiario della Colonna della grotta del Presepio e del Santo Sepolcro nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme, donato da un presbiter Gregorius nel 1329, presenta smalti traslucidi di impronta senese. Da un orafo senese attivo alla corte papale di Avignone, Giovanni di Bartolo, vennero realizzati i busti-reliquiario per le teste dei ss. Pietro e Paolo donati nel 1369 da Urbano V (1362-1370) alla basilica di S. Giovanni in Laterano, oggi noti attraverso riproduzioni (Pomarici, 1996, p. 170), mentre un'impronta napoletana si ravvisa nel reliquiario della testa di s. Giovanni Battista fatto realizzare alla fine del secolo dal cardinale Angelo Acciaiuoli per la chiesa romana di S. Silvestro in Capite (Tesori, 1975, p. 24). Bibl.: L. Cavazzi, La diaconia di S. Maria in Via Lata e il monastero di S. Ciriaco. Memorie storiche, Roma 1908; P. Ducati, L'arte in Roma dalle origini al sec. VIII, Bologna 1938; F. Hermanin, L'arte in Roma dal sec. VIII al XIV (Storia di Roma, 27), Bologna 1945; C. Cecchelli, La vita di Roma nel Medio Evo, I, Le arti minori e il costume, Roma 1951-1952; C.R. Morey, The Gold-Glass Collection of the Vatican Library, a cura di G. Ferrari, Città del Vaticano 1959; C. Beutler, Bildwerke zwischen Antike und Mittelalter. Unbekannte Skulpturen aus der Zeit Karls des Grossen, Düsseldorf 1964; M.C. 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