Rock Movie
Con questa espressione si intende un filone cinematografico nato nella seconda metà degli anni Cinquanta insieme al rock and roll, che nel film ha una funzione determinante, in rapporto al soggetto, alla trama e ai protagonisti. I temi sono quelli cari alla mitologia di questo genere musicale: la maledizione della rockstar, l'utopia dei grandi festival a base di musica, pace e amore, le vite leggendarie di gruppi e personaggi della 'musica elettrica' (Elvis Presley, Beatles, Rolling Stones, Jimi Hendrix, Bob Dylan). Le forme sono invece assai più variabili e oscillano tra i poli estremi del documentario e del film di finzione, con frequenti sovrapposizioni ad altri filoni o generi, in particolare con il road movie e lo young movie, o film giovanile. Nonostante sia stato spesso sottovalutato dalla critica, il r. m. ha svolto un ruolo significativo, non solo nella storia del cinema, ma anche in quella del costume, in quanto ha segnato la nascita di una nuova figura sociale, il teenager, di cui nel corso di cinquant'anni ha registrato, e in parte influenzato, le trasformazioni, sfruttando sempre, come rumorosa ma sensibilissima 'cassa di risonanza', il rock and roll.Tutto ebbe inizio nel 1956, con Rock around the clock (Senza tregua il rock 'n' roll) di Fred F. Sears, apparentemente un b-movie come tanti, ma con centotrenta secondi eccezionali, quelli dei titoli di testa, dove Bill Haley lancia un grido destinato a rimanere nella storia: One, two three o'clock, four o'clock, rock!. Anche se la canzone era già famosa negli Stati Uniti, grazie al film Blackboard jungle (1955; Il seme della violenza) di Richard Brooks, dove pure accompagnava i titoli di testa, la sua ricomparsa fu come un segnale convenuto, atteso dagli adolescenti di mezzo mondo, che segnò la rottura tra due generazioni. Dopo di allora, nessun altro brano rock al cinema e nessun video musicale avrebbe più avuto lo stesso impatto. Da lì sarebbe partito il r. m.: un'altra storia, un altro linguaggio, un altro immaginario e un'altra musica, in cui una generazione di adolescenti si riconobbe immediatamente, come nei volti di Marlon Brando e James Dean. Un rock ribelle, quello degli inizi, come il cinema che di esso si nutrì: indipendente, arrogante, imprevedibile, frenetico, duro, molto vicino alla musica di Little Richard, Jerry Lee Lewis, Eddie Cochran, Chuck Berry, Gene Vincent e, soprattutto, di Elvis Presley, il personaggio che divenne l'immagine stessa della nuova musica e che meglio la rappresentò, anche sul grande schermo.
Subito dopo arrivò il beach movie, categoria in cui si possono far rientrare i film ‒ soprattutto, quelli interpretati da Annette Funicello e Fabian ‒ in cui un rock ripulito e 'addomesticato' è inserito in storie d'amore a lieto fine, con il matrimonio che precede immancabilmente i titoli di coda. Ma già nel 1964, con A hard day's night (Tutti per uno), i Beatles rivitalizzarono il panorama, non senza il decisivo contributo di Richard Lester, che diresse il gruppo di Liverpool anche nel successivo Help! (1965; Aiuto!), restituendo alla perfezione il clima culturale, le mode e le follie della swinging London. E se non tutti i r. m. di questo periodo possono essere annoverati tra i capolavori del cinema, alcuni sono entrati nella storia, tanto da istituire nella memoria individuale e collettiva un'associazione spontanea tra celebri brani musicali di quegli anni e sequenze cinematografiche altrettanto famose ‒ come nel caso della canzone Born to be wild, degli Steppenwolf, le cui note riportano subito alla mente le immagini di Easy rider (1969; Easy rider ‒ Libertà e paura) diretto e interpretato da Dennis Hopper, con Peter Fonda e Jack Nicholson che, in sella alle loro motociclette, attraversano le autostrade polverose degli Stati Uniti.
Gli anni Sessanta si chiusero con i grandi raduni rock, che suscitarono naturalmente l'attenzione del cinema, come dimostrano due film usciti nel 1970, ma girati entrambi un anno prima, Gimme Shelter di Albert e David Maysles e Charlotte Zwerin, sul famoso concerto gratuito dei Rolling Stones ad Altmont (California), durante il quale il servizio d'ordine degli Hell's Angels uccise uno spettatore, e Woodstock (Woodstock ‒ Tre giorni di pace, amore e musica) di Michael Wadleigh, che portò nelle sale cinematografiche l'America pacifista che si era radunata per ascoltare, tra gli altri, Janis Joplin, i Jefferson Airplaine, gli Who. Proprio gli Who avrebbero prestato le loro musiche a due capolavori del r. m.: Tommy (1975) di Ken Russell, opera rock sul tema del 'viaggio psichedelico' come prova iniziatica, scritta dal chitarrista Pete Townsend e interpretata dal cantante Roger Daltrey, e Quadrophenia (1979) di Franc Roddam, ricostruzione convincente e sentita, non solo dal punto di vista musicale, della fase aurorale del rock inglese, quella degli scontri tra le bande rivali dei Mods e dei Rockers. Nel frattempo, la nuova stagione musicale del glam rock preparava la sua comparsa sul grande schermo, con le riprese del concerto tenuto a Londra, nel 1973, da David Bowie, da cui sarebbe nato, qualche tempo dopo, Ziggy Stardust and the spiders from Mars (1982) di Don Alan Pennebaker ‒ regista tra i più significativi del r. m., già autore di Don't look back (1967), reportage sulla tournée britannica di Bob Dylan, e Monterey pop (1968), documentario sul più grande raduno musicale americano prima di Woodstock. E mentre lo 'spirito' del glam, con il suo gusto per il trasvestimento, pervadeva anche Phantom of the paradise (1974; Il fantasma del palcoscenico) di Brian De Palma e The rocky horror picture show (1975) di Jim Sharman, anche l'hard rock si ricavava il suo spazio cinematografico con The song remains the same (1976) di Peter Clifton e Joe Massot.
Negli anni Settanta Martin Scorsese, il cui nome appare nei credits di Woodstock, aveva fatto entrare di diritto la musica rock nel cinema d'autore, basti pensare a Mean streets (1973; Mean streets ‒ Domenica in chiesa, lunedì all'inferno) e, soprattutto, alla bellezza e all'intensità di The last waltz (1978; L'ultimo valzer), documentario sull'ultimo concerto della band di Robbie Robertson. A fine decennio le bande punk dei locali di Londra fecero salire dalle strade un suono sporco, vitale, che mise in crisi, come negli anni Cinquanta, l'estetica del rock e quella del cinema. Anche se l'energia veicolata dalle immagini mosse e ineleganti dei molti film e documentari sul punk è in fondo la stessa di Woodstock. La stessa capacità di comunicare un universo simbolico, la stessa forza convergente tra suono e immagine, gli stessi rapporti creativi tra musica e gesto si ritrovano nel documentario di Don Letts sulla scena londinese, Punk rock movie (1977), o nel geniale The great rock 'n' roll swindle (1979; La grande truffa del rock 'n' roll) di Julien Temple, che narra la storia dei Sex Pistols dal punto di vista del loro spregiudicato manager Malcom McLaren, o in Rude boy (1980), dedicato ai Clash, il gruppo più politico del punk rock, da Jack Hazan e David Mingay.All'inizio degli anni Ottanta, sono arrivati il videoclip e le televisioni musicali, con il loro ritmo che unifica e addomestica tutto: musica, immagini, spot, finzione, canzoni, realtà, visioni, musica bianca e musica nera. Tale omologazione è sembrata sancire la fine dell'energia musicale degli anni Sessanta e Settanta, l'inevitabile riduzione del rock a filmato pubblicitario o a nostalgico veicolo di ricordi ed emozioni, come in The big chill (1983; Il grande freddo) di Lawrence Kasdan. Nonostante tutto, il r. m. ha dimostrato di poter continuare a esistere, in quanto genere codificato e al tempo stesso multiforme, con nuovi, grandi successi, da The Blues Brothers (1980) di John Landis, ritorno alle origini del rock, al rhythm and blues, accompagnato da una comicità demenziale, a Pink Floyd ‒ The Wall (1982) di Alan Parker, opera rock che ha segnato il ritorno cinematografico del grande gruppo inglese dieci anni dopo il film-concerto Pink Floyd à Pompei (1972; Pink Floyd a Pompei) di Adrian Maben; da Stop making sense (1984), altro film-concerto, ben diretto da Jonathan Demme, con la musica pulsante dei Talking Heads come protagonista, a U2: rattle and hum (1988) di Phil Joanou, dove protagonista è invece il rock 'lirico' del gruppo irlandese.
Negli anni Novanta il r. m. è sembrato ripiegarsi su sé stesso, prediligendo i ritratti di figure di culto, come Jim Morrison, raccontato da Oliver Stone in The Doors (1991), e Nico, l'indimenticabile cantante dei Velvet Underground, delicatamente ritratta da Philippe Garrel in J'entends plus la guitare (1991), o le rievocazioni di ambienti e periodi storici, come la stagione del glam rock, rivisitata in Velvet goldmine (1998) da Todd Haynes. Ma l'attenzione del cinema alle culture musicali del mondo giovanile, arrichite nel frattempo dall'hip hop e dalla techno, non è venuta meno; lo dimostrano alcuni grandi successi degli ultimi anni, come Trainspotting (1996) di Danny Boyle, Lola rennt (1998; Lola corre) di Tom Tykwer e Hedwig and the angry inch (2001; Hedwig ‒ La diva con qualcosa in più) di John Cameron Mitchell.
bibliografia
P. Jenkinson, Celluloid rock: twenty years of movie rock, London 1974; A. Lacombe, L'écran du rock: 30 ans de cinéma et de rock-music, Paris 1985; G. Curi, I frenetici. L'enciclopedia dei film che hanno inventato i giovani, Roma 2002.