ROCCA DI PRALORMO, Bartolomeo
ROCCA DI PRALORMO, Bartolomeo. – Nacque a Pralormo, in Piemonte, intorno al 1535.
Il suo nome compare per la prima volta quando il capitolo generale dell’Ordine dei frati predicatori, a Roma, lo destina a fare da maestro degli studi nel convento di S. Eustorgio, a Milano (1558). Non sappiamo quando avesse preso l’abito, ma nel 1561 ebbe l’incarico di un insegnamento biblico dal capitolo di Avignone e nel 1564, a Bologna, gli fu confermato il baccellierato in teologia conseguito a Milano, titolo con cui divenne priore del convento di S. Domenico di Torino nel triennio 1565-67. Divenne maestro in teologia nel 1566 e il titolo gli fu confermato durante il capitolo generale del 1569. Più tardi passò forse al convento di Chieri, città in cui nel 1574 predicò per il ciclo della quaresima nella cattedrale.
Eletto vicario provinciale di S. Pietro martire nel 1580, nel 1582 fu indicato come vicario dell’inquisitore astigiano per l’area di Cherasco in una missiva del giudice frate Girolamo Caratto, che lo sostituì come provinciale (Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, S. O., St. St., GG 1-g, c. 107r, alla congregazione del S. Uffizio, 22 luglio 1582). Nel 1587 Rocca fu di nuovo eletto provinciale di S. Pietro martire e il 20 aprile 1588, grazie al favore del duca di Savoia Carlo Emanuele I, entrò in carica come nuovo inquisitore di Torino per succedere al frate maestro Dionigi Cislaghi, già vicario provinciale nel 1568 e priore del convento di Torino nel 1574. Tra la morte di quest’ultimo, nel 1587, e la nomina di Rocca passarono però diversi mesi: segno che la scelta del giudice era stata contrastata.
Infatti Carlo Emanuele, a partire da quegli anni, pretese di decidere le linee di politica religiosa e la nomina degli inquisitori nei suoi Stati, innescando continui attriti con il nunzio e con Roma che riguardarono anche la richiesta di nominare assistenti secolari che sorvegliassero dall’interno l’attività dei tribunali della fede piemontesi, come accadeva nelle Repubbliche di Venezia e di Genova. La congregazione del S. Uffizio dovette chinare il capo e nominare inquisitori sudditi fedeli del duca, e Carlo Emanuele da parte sua ebbe una speciale predilezione per i frati dell’Ordine domenicano, che durante il suo ducato (1580-1630) si divisero al loro interno partecipando alle lotte tra le diverse fazioni della corte di Torino.
Rocca, in quel contesto, fu preferito al suddito milanese frate Giovanni Battista Porcelli, nominato dal S. Uffizio il 6 febbraio 1588, che in seguito prese l’ufficio di Asti per lasciare il posto a Rocca (S. O., St. St., L 7-d , cc. 7v-8r, sommario di lettere del S. Uffizio).
Lo Stato sabaudo aveva superato la crisi di metà Cinquecento, ma l’occupazione francese e la penetrazione della Riforma dalla Svizzera e dalla Francia avevano lasciato il segno, al punto che Rocca, come il predecessore Cislaghi, riconciliò diversi eretici, dovette sorvegliare aree prive di un distretto inquisitoriale come quella di Nizza e tentare la sottomissione delle valli valdesi con l’aiuto del duca e dei missionari cappuccini e gesuiti; senza contare il problema del controllo della circolazione libraria e le accuse di stregoneria, che nel Piemonte ebbero un’incidenza più alta che nel resto d’Italia anche negli anni in cui il frate fu giudice.
Rocca emanò l’editto di fede nei primi mesi del mandato, ma già questo primo atto gli guadagnò un monito della congregazione che gli scrisse «ut amoveatur nonnulla ex dicto edicto tamquam ad rectum non faventia» (7 novembre 1588, S. O., Decreta 1588, c. 153r). Non sappiamo bene a cosa alludessero i cardinali, ma è certo che dieci anni dopo, il 5 marzo 1598, Rocca fu colpito da una nuova ammonizione per avere usato la tortura della veglia e omesso di verbalizzare la ritrattazione di una presunta strega pur di non annullare un processo (Romeo, in I Domenicani..., 2008). Non si trattava evidentemente di un magistrato troppo scrupoloso, e del resto in quegli anni di peste perirono in tutto il Piemonte decine di donne e di uomini accusati di fabbricare veleni e malefici per diffondere il morbo. Ad agire furono soprattutto i tribunali secolari e il giudice, da quanto sappiamo, acconsentì o dovette accettare che i magistrati del duca operassero senza consultarsi con l’Inquisizione. Come si legge in una lettera del cardinale di S. Severina a Rocca del 1599: «quanto alle donne della Valle di San Martino, processate come streghe, ma sono heretiche, se bene contra di esse non si può procedere in vigore delle capitulazioni, già li fu scritto nel mese passato che ella procurasse la conversione loro alla fede cattolica, che poi con più facilità si sarebbe spedita la causa delle pretense stregarie» ([G.B. Porcelli], Scriniolum..., 1610 [1612], p. 530).
Altra materia di conflitto con il duca, nel 1596, fu l’Indice varato da Clemente VIII (molti documenti sul controllo librario a Torino, in G.B. Porcelli, Scriniolum..., cit.). In quell’anno, inoltre, il Senato di Torino – che nel 1593 aveva contestato l’obbligo di denuncia degli eretici occulti da parte dei medici che visitavano gli ammalati – si rifiutò di far eseguire una sentenza emanata da Rocca contro un eretico, e l’episodio si ripeté nel 1597 e nel 1598: a Rocca fu richiesto già dal 1595 di permettere l’assistenza di ufficiali civili nelle sedute del tribunale, ma Roma rifiutò di consentire a una novità che avrebbe indebolito il segreto e il foro stesso dell’Inquisizione papale. Solo intorno al 1601 i conflitti si appianarono e il duca emanò una serie di provvedimenti per costringere gli eretici di vari luoghi a sottomettersi alla Chiesa romana (Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, Sant’Uffizio, Stanza storica, L 7-d, cc. 77v-80r; cc. 67v-69r, 92v-94v, sommario di diverse lettere del S. Uffizio di quegli anni). Rocca, da parte sua, in quell’arco di tempo tentò di introdurre il tribunale a Nizza.
Tra i casi più clamorosi di cui l’inquisitore dovette occuparsi vi fu quello di Giovanni Francesco Berlengo di Poirino, ex servitore della contessa di Tenda, ugonotta, carcerato nel 1590 (c. 91v), e soprattutto quello della vedova dell’ammiraglio di Coligny, Jacqueline d’Entremont.
Catturata già dopo la strage di S. Bartolomeo (24 agosto 1572), la donna fu imprigionata a Nizza, a Torino e poi ancora a Nizza, dove il vescovo della città e il nunzio avevano ottenuto un’abiura segreta che fu sottoscritta dalla fiera dama dopo mesi di resistenza e grazie a una formula ambigua concessa in via eccezionale dal S. Uffizio (1573). Oggetto degli sforzi di conversione di due gesuiti, Achille Gagliardi e André Dawant, una volta liberata l’Ammiraglia divenne l’amante di Emanuele Filiberto, tanto che il duca, dopo avere tentato di appropriarsi dei suoi feudi, ebbe da lei una figlia, Margherita di Non, educata cattolicamente. Dopo il 1590 Jacqueline si guadagnò l’odio di Carlo Emanuele per l’appoggio dato al partito navarrista e per la resistenza ad accettare che la piccola Margherita abbracciasse la vita monastica. Ai primi segni dell’epilessia della figlia gli esorcisti e i medici certificarono che si trattava di manifestazioni di una possessione diabolica e ciò attirò su Jacqueline, fatta carcerare a Moncalieri, l’accusa di avere maleficiato la figlia e altre monache di Torino con l’aiuto di due servitori (1596). Ne nacque un conflitto con l’Inquisizione, che provò a salvare la donna rigettando un memoriale dei giuristi e dei teologi del duca in cui si sosteneva che il processo spettasse al Senato di Torino. In un primo tempo il cardinale di S. Severina si spinse fino a promettere la nomina di una corte giudicante composta di chierici fedeli al duca; più tardi, affidata la causa a Rocca e al nunzio, dietro le insistenze dell’ambasciatore del duca a Roma, il S. Uffizio concesse che il presidente del Senato di Torino potesse presiedere agli interrogatori. I cardinali comunque ottennero che Jacqueline fosse scagionata con semplici ammonizioni (14 marzo 1598) e la donna fu spinta a firmare una seconda abiura delle passate eresie per sanare l’ambiguità del perdono concesso nel 1573. Il duca tuttavia rigettò il provvedimento e fece trasferire Jacqueline a Ivrea, dove morì (1599) sette anni prima che la figlia, sorellastra di Carlo Emanuele, abbracciasse l’abito monastico. In quell’episodio, che vide contrapposte Torino e Roma, Rocca giocò un ruolo di secondo piano ma si trattò di una causa per lui delicata, visti i rapporti con la corte.
Negli stessi anni, inoltre, dovette occuparsi dell’abiura della marescialla di Bellegarde, Margherita di Saluzzo-Cordié, trasferita da Acqui a Torino e affidata alle cure del giudice (Pascal, 1960). Un nuovo episodio clamoroso si sarebbe aperto nel 1603 con la prigionia di Antonio (o Francesco) Nunes, un frate zoccolante indiziato di eresia che il duca voleva castigare accusandolo di complottare contro di lui ([G.B. Porcelli], Scriniolum..., cit., pp. 561-586).
Un fronte importante, infine, fu quello della gestione delle missioni religiose nelle valli valdesi, che videro impegnati a fianco di Rocca e degli altri inquisitori del Piemonte, anche in qualità di vicari, i gesuiti (guidati da padre Giovanni Battista Roseti) e più tardi i cappuccini (guidati da Valeriano Berna), dotati di privilegi di assoluzione dall’eresia per quanti si pentivano e abiuravano. Del cappuccino Filippo Ribotti l’inquisitore fece anche stampare nel 1598 una disputa teologica avuta con il ministro valdese David Rostagno (Jalla, 1936, p. 210).
Negli anni in cui fu giudice a Torino Rocca inoltre fu il promotore della stampa di una traduzione inedita del confratello perugino Timoteo Bottoni, defunto il 13 giugno 1591, già giudice della fede di Genova e per alcuni anni confessore e uomo di fiducia di Carlo Emanuele. Si trattava del Breve trattato delle pie et christiane institutioni di Giovanni Perellio: divise in quattro parti tradotte di spagnolo in italiano (Torino, appresso Antonio de’ Bianchi, 1594). I due inquisitori comunque ignoravano che l’opera, dedicata a Bernardino II di Savoia signore di Racconigi, di cui Rocca era il confessore, non era altro che la versione castigliana del Libellus sodalitatis che il gesuita fiammingo François Coster aveva fatto circolare anche con lo pseudonimo di Johannes Perellius.
Una lettera del segretario del S. Uffizio di Torino del 27 dicembre 1605 informò i cardinali della congregazione che Rocca si era spento a Torino (Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, Sant’Uffizio, Decreta 1606, seduta del 4 gennaio, c. 12v). Il successore, scelto il 20 aprile 1606, fu il confratello Camillo Balliani, già inquisitore di Tortona.
Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, Sant’Uffizio, Decreta 1588, seduta del 7 novembre, c. 153r; Decreta 1606, seduta del 4 gennaio, c. 12v; Stanza storica, L 7-d , «Inquisizione nei domini di Savoia», cc. 7v-8r, 54v-55r, 56v, 67v-69r, 77v-80r, 91v, 92v-94r, 109r-111v, 137v; GG 1-g, c. 107r; [G.B. Porcelli], Scriniolum Sanctae Inquisitionis Astensis, Astae 1610 [1612], pp. 530, 561-583; M.A. Rorengo, Memorie historiche dell’introduzione dell’heresie nelle Valli di Lucerna, Marchesato di Saluzzo, et altre di Piemonte, editti, provisioni, diligenze delle Altezze di Savoia per estirparle, Torino 1649, pp. 134-136; M. Ferreri, Rationarium chronographicum missionis evangelicae ab apostolicis operarijs, praesertim capuccinis, pro ecclesiastico catholico regno propagando in quatuor mundi partibus, signanter in Gallia Cisalpina, exercitae, pars prima, Augustae Taurinorum 1659, pp. 191 s.; A. Torre, Dal convento alla città. La vita torinese attraverso il registro dell’archivio del convento di San Domenico, a cura di V. Ferrua, II, Torino 1995, pp. 1019 s., 1040; G. Villa - P. Benedicenti, I domenicani della ‘Lombardia Su-periore’ dalle origini al 1891, a cura di V. Ferrua, Torino 2002, pp. 186-187.
G. Jalla, Storia della Riforma religiosa in Piemonte durante i regni di Carlo Emanuele I e Vittorio Amedeo I (1580-1637), II, Torre Pellice 1936, pp. 210, 250; S. Vallaro, I Domenicani in un documento antico dell’Università di Torino, in Archivum Fratrum Praedicatorum, VI (1936), pp. 39-88, pp. 49, 79 s.; M. Grosso - M.F. Mellano, La Controriforma nella Arcidiocesi di Torino (1558-1610), III, Città del Vaticano 1957, p. 155; A. Pascal, Il Marchesato di Saluzzo e la Riforma protestante durante il periodo della dominazione francese 1548-1588, Firenze 1960, pp. 574-577; Id., L’Ammiraglia di Coligny Giacomina di Montbel contessa d’Entremont (1541-1599), Torino 1962, p. 550; C. Povero, Missioni in terra di frontiera. La Controriforma nelle Valli del Pinerolese, secoli XVI-XVII, Roma 2006, p. 270 nota; I Domenicani e l’Inquisizione romana, a cura di C. Longo, Roma 2008 (in partic. G. Romeo, Inquisitori domenicani e streghe in Italia tra la metà del Cinquecento e i primi decenni del Seicento, pp. 309-344, in partic. p. 328; V. Lavenia, L’Inquisizione del duca. I domenicani e il Sant’Uffizio in Piemonte nella prima età moderna, pp. 415-476, in partic. pp. 440, 443 nota, 469 nota); P.P. Piergentili, «Christi nomine invocato». La Cancelleria della Nunziatura di Savoia e il suo archivio (secc. XVI-XVIII), Città del Vaticano 2014, pp. 127, 131, 671, 726 s.