ROBUSTI, Domenico (Dominico), detto Tintoretto. – Figlio primogenito del pittore Jacopo Robusti e di Faustina Episcopi, nacque a Venezia il 27 novembre 1560, come indicato nel registro dei battesimi della parrocchia di S. Marziale (Mazzucco, 2009, p. 550). Della sua giovinezza sappiamo poco; Carlo Ridolfi (1648, 1914) racconta che per un certo periodo si dedicò allo studio delle lettere antiche e moderne, ma intorno ai vent’anni cominciò a lavorare stabilmente nella bottega paterna. Conosceva Ludovico Ariosto e la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, di cui illustrò la Morte di Clorinda nella tela del Museum of fine arts di Houston (1600 circa). Partecipò alle veglie letterarie che si tenevano a Venezia, e fra le sue conoscenze figurano Guido Casoni, autore della Magia d’amore (1591)
, e il poeta petrarchesco Celio Magno.
A quest’ultimo nel 1597 Domenico fece un ritratto che il poeta contraccambiò con un sonetto, a sua volta corrisposto dal pittore con una lettera di ringraziamento (Mazza Boccazzi, 2001).
I fatti salienti della sua vita furono senza dubbio il confronto con il «fulminante pennello» di Jacopo (M. Boschini, in Id., 1660, 1966, p. 732) e la pesante eredità della bottega (S. Mason, in Jacopo Tintoretto, 2009, pp. 84-90).
La distribuzione del lavoro fra padre e figlio trovò codificazione già nell’impresa dei Fasti gonzagheschi (Monaco, Alte Pinakothek), commissionati dal duca di Mantova Guglielmo Gonzaga alla fine del 1578, e si precisò meglio nell’ambito dei restauri di Palazzo ducale, avviati durante il dogado di Nicolò da Ponte. All’inizio il ruolo di Domenico fu soprattutto quello di esecutore materiale delle opere, poi di vero e proprio supervisore dei cantieri. In qualità di sostituto del padre, impegnato nella decorazione della Scuola di S. Rocco, Domenico portò a compimento i teleri votivi dei dogi Andrea Gritti, Nicolò da Ponte e Alvise Mocenigo (sala del Collegio), la Battaglia di Zara nella sala dello Scrutinio, il Trionfo di Venezia come regina dei mari nella sala del Senato, il Trionfo del doge Nicolò da Ponte collocato nel soffitto della sala del Maggior Consiglio e l’immenso telero del Paradiso (databile fra il 1588 circa e il 1592; T. Pignatti, in Franzoi - Pignatti - Wolters, 1990, pp. 298-352).
Sebbene il bozzetto conservato al Musée du Louvre dimostri come l’idea originale di rappresentare le sfere celesti secondo un andamento rotante spetti a Jacopo, la critica è concorde nell’assegnare al figlio gran parte della realizzazione. La sua mano s’intravede soprattutto nella pennellata densa di colore che vira in tonalità terrose, nelle caratterizzazioni fortemente realistiche dei personaggi e nelle lumeggiature piuttosto grossolane, che ricordano il modo di disegnare negli schizzi a olio del British Museum. Tutte le modifiche apportate da Domenico tesero a sottolineare l’autocelebrazione della Repubblica, allo stesso modo di altri artisti della sua generazione, come Jacopo Palma il Giovane. Non è un caso che i due pittori, legati da sincera stima e amicizia, divenissero i principali interpreti delle istanze di propaganda di uno Stato ormai in declino, oltre che della Controriforma.
Intorno al 1583 Domenico dipinse tre tele con scene della Passione di Cristo per la chiesa conventuale di S. Andrea della Zirada (Tozzi Pedrazzi, 1967). All’incirca nello stesso periodo, per le clarisse di S. Maria Maggiore realizzò i teleri con lo Sposalizio della Vergine (ora alla Fondazione Cini), la Cacciata di Gioacchino dal Tempio e l’Adorazione dei Magi (entrambe ricollocate nella chiesa di S. Trovaso), dove esibì un naturalismo quasi bassanesco. A lui fu affidata anche l’esecuzione di molte pale d’altare che in quegli anni uscirono dalla bottega con il nome di Jacopo, come la Flagellazione di Cristo e l’Ascensione di Cristo per la chiesa del Redentore (intorno al 1588); nonché di repliche con varianti di dipinti ideati dal padre come i Battesimi di Cristo o le Maddalene penitenti. Lo stesso accadde per i primi ritratti dei dogi nella sala del Maggior Consiglio, di cui soltanto il conferimento dell’incarico è da riconoscersi al padre (P. Rossi, in Pallucchini - Rossi, 1982).
Dal 1585 si inserì nel sistema delle ‘scuole’ e, sull’esempio del padre e del nonno Marco Episcopi, iniziò a frequentare la Scuola grande di S. Marco, per la quale più avanti avrebbe realizzato una delle sue prove migliori, il Sogno di s. Marco (Venezia, Gallerie dell’Accademia).
All’inizio degli anni Novanta stabilì i primi contatti anche con la Scuola dei mercanti e, probabilmente grazie a Perazzo Perazzo che ne fu sindaco, ne ottenne la commissione della Madonna con s. Cristoforo per l’altare della sala terrena. Il 27 dicembre 1592, insieme a Jacopo e al collega Antonio Aliense, firmò il contratto per la decorazione della sala grande superiore. A Domenico spettarono tre teleri con storie del Vecchio e del Nuovo Testamento e, in particolare, l’Adorazione dei Magi (perduta), che Marco Boschini (1664) giudicò «la più singolare opera dell’autore» (p. 430).
Nel 1593-94 lavorò per i benedettini di S. Giorgio Maggiore e per l’ultima volta al fianco del padre nell’esecuzione delle pale con il Martirio dei ss. Cosma e Damiano e con l’Incoronazione della Vergine così come dell’estrema Deposizione collocata sull’altare dei Morti. Nello stesso periodo per la Scuola del rosario dipinse nel soffitto S. Domenico che predica la devozione del rosario al papa, all’imperatore e al doge e, in seguito, per lo stesso ambiente, un’allegoria della Vittoria di Lepanto.
Il 30 maggio 1594, il giorno prima di morire, Jacopo dettò il suo testamento, nel quale designava Domenico erede di «tutte le cose pertinenti alla professione» e continuatore delle opere incompiute: «Voglio che finisca l’opere mie che restassero imperfette di sua mano, usando quella maniera e diligentia che ha sempre usata sopra molte mie opere» (L. Borean, in Tintoretto, 2007, p. 449).
Uno dei primi impegni da pittore indipendente fu quello di cartonista per i mosaici di S. Marco (Rossi, 1996), e altri quadri gli vennero richiesti dai conventi femminili di S. Alvise, S. Marta e Ognissanti e dalle chiese di S. Stae e di S. Trovaso (G. Stringa, in Sansovino, 1604, ad ind.). Anche l’attività di ritrattista subì una notevole impennata: nel 1598 fu chiamato a Ferrara dal connestabile di Castiglia e governatore di Milano Fernando Velasco per dipingere Margherita d’Austria, e nel 1599 fu invitato a Mantova da Vincenzo Gonzaga, che per i suoi servigi gli regalò una catena d’oro (Morselli, 2002).
Se all’indomani della morte di Jacopo il pittore sembrò capace di sostenere il gravoso confronto dimostrando di aver elaborato un proprio linguaggio, al volgere del secolo la sua carriera aveva di fatto già superato il punto ascendente della parabola. Le confraternite, che pure continuarono a inondarlo di commesse, per gli incarichi più importanti iniziarono a preferire altri pittori. Anche Palma, nel 1614, nonostante l’amicizia che lo legava a Robusti, riuscì a sottrargli la committenza della pala d’altare per la Scuola grande di S. Marco, a suo tempo affidata a Jacopo (Rossi, 2004).
Domenico fu chiamato ancora a lavorare a Palazzo ducale dai dogi Giovanni Bembo e Antonio Priuli, tuttavia i risultati non furono altrettanto clamorosi di quelli raggiunti negli anni della collaborazione con il padre. Negli anni estremi si dedicò a completare il ciclo di dieci teleri per la Scuola grande di S. Giovanni Evangelista, iniziato sul finire del Cinquecento (Mason Rinaldi, 1979), con le storie del santo eponimo.
Domenico fu un pittore prolifico, ma la qualità della sua produzione non corrispose sempre alla quantità. Un tentativo di emancipazione dall’estenuante confronto con la lezione di Jacopo si riconosce nel campo del ritratto, un genere in cui si distinse fin dalla giovinezza, come testimonia il giro della committenza: dai dogi Pasquale Cicogna, Marino Grimani, Marcantonio Memmo, ai tanti senatori della Repubblica. Non ci fu tipologia di ritratto in cui Domenico non si cimentasse, da quelli singoli a quelli inseriti in contesti narrativi, quali i brani ritrattistici del committente Vincenzo Morosini e della sua famiglia nella pala con il Cristo risorto nella chiesa di S. Giorgio Maggiore (1587-88; Mozzetti - Sarti, 1997, p. 146).
Sebbene i ritratti di Domenico non abbiano quella «energia trasfigurante» che caratterizza quelli di Jacopo, che pure costituirono per lui il naturale punto di partenza, essi ostentano una vivacità e un’accentuazione realistica paragonabili a certi esiti raggiunti più avanti da Annibale Carracci (Rossi, 1974, pp. 75-81).
La caratterizzazione fisiognomica e degli elementi identificativi, resi attraverso una pennellata densa e compatta, spinse a rivolgersi a lui una cospicua parte della nuova aristocrazia mercantile, ma anche letterati e artisti, che riconobbero nel suo pennello un efficace strumento di promozione. Tra gli esempi più significativi: il Ritratto di gentiluomo con crocefisso (1589) della Sutherland Collection di Mertoun, St. Boswells (Scozia), il Ritratto di giovane con petrarchino della Galleria Colonna di Roma e il Ritratto di scultore (Ascanio dai Cristi?) dell’Alte Pinakothek di Monaco.
La sua inclinazione al naturale emerse soprattutto nella prassi disegnativa, connessa alla rappresentazione della figura umana. In alcuni casi, come nel celebre Studio di donna sdraiata della parigina Fondation Custodia (n. 1362), raggiunse esiti di brusco realismo, quasi deformante, in un consapevole rifiuto della bellezza (Rearick, 2001, pp. 203-207). Proprio lui, che con i suoi ritratti ideali di dame e cortigiane fece la fortuna di un genere divenuto identitario della cultura figurativa veneziana tra il XVI e il XVII secolo. La bella Donna che scopre il seno (1585-90 circa) del Museo del Prado a Madrid e il Ritratto di dama (1586 circa) del Worcester Art Museum, in Massachusetts, sono entrambi distintivi di quell’erotismo languido, già secentesco, che attraversò la sua pittura.
Nel corso della sua carriera, Robusti sperimentò tutte le possibilità tecniche del disegno, dal gessetto ai modernissimi ‘pennellati’ a olio su carta e fondo scuro, con cui realizzò la spettacolare serie preparatoria per le Tentazioni di s. Antonio abate del British Museum di Londra (Rossi, 2001 e 2012).
Domenico non si sposò mai e forse non ebbe figli. Rimasto infermo a causa di un ictus, morì nel maggio del 1635 all’età di settantacinque anni. La sua eredità, che contava ancora i fondi della bottega paterna, tra cui disegni, dipinti e sculture, venne divisa tra i fratelli Marco e Ottavia e il fedele assistente Sebastian Casser (Mazzucco, 2009, pp. 739-759). Venne sepolto alla Madonna dell’Orto, nella tomba del nonno Marco Episcopi, accanto a Marietta e a Jacopo. Con lui si estinse «l’ultimo lume della famiglia gloriosa de’ Tintoretti» (Ridolfi, 1648, 1914, p. 263).
Fonti e Bibl.: F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare [...] corretta, emendata e [...] ampliata dal M.R.D. Giovanni Stringa, Venezia 1604; C. Ridolfi, Le maraviglie dell’arte (1648), a cura di D.F. von Hadeln, II, Berlin 1914, pp. 257-263; M. Boschini, La carta del navegar pitoresco (1660), a cura di A. Pallucchini, Venezia 1966 (in partic. pp. 454-456; Id., «Breve Instruzione» premessa alle «Ricche minere della pittura veneziana» (1674), p. 732); Id., Le miniere della pittura, Venezia 1664, p. 430; R. Tozzi Pedrazzi, Domenico Tintoretto a S. Andrea della Zirada, in Arte veneta, 1967, vol. 20, pp. 253-258; P. Rossi, Jacopo Tintoretto. I ritratti, Firenze 1974, pp. 75-81; S. Mason Rinaldi, Contributi d’archivio…, in Arte veneta, 1979, vol. 32, pp. 293-301; R. Pallucchini - P. Rossi, Tintoretto. Le opere sacre e profane, I, Milano 1982, pp. 239-257; U. Franzoi - T. Pignatti - W. Wolters, Il Palazzo Ducale di Venezia, Treviso 1990; P. Rossi, I cartoni di Jacopo e Domenico Tintoretto…, in Arte veneta, 1996, vol. 48, pp. 42-55; F. Mozzetti - G. Sarti, Biografia, immagine e memoria: storia di Vincenzo Morosini, in Venezia Cinquecento, VII (1997), 13, pp. 141-158; B. Mazza Boccazzi, Ut pictura poesis: Domenico Tintoretto per Celio Magno, ibid., XI (2001), 22, pp. 167-175; W.R. Rearick, Il disegno veneziano del Cinquecento, Milano 2001; P. Rossi, Per il catalogo di Jacopo e Domenico Tintoretto: novità e precisazioni, in Arte veneta, 2001, vol. 55, pp. 30-47; R. Morselli, Vincenzo Gonzaga, Domenico Tintoretto…, in Figure di collezionisti a Venezia tra Cinque e Seicento, a cura di L. Borean - S. Mason, Udine 2002, pp. 77-117; P. Rossi, Temi marciani di Domenico Tintoretto, in Arte veneta, 2004, vol. 59, pp. 246-251; Tintoretto (catal.), a cura di M. Falomir, Madrid 2007; M.G. Mazzucco, Jacomo Tintoretto e i suoi figli..., Milano 2009; Jacopo Tintoretto. Actas del Congreso internacional… 2007, a cura di M. Falomir, Madrid 2009, pp. 84-90; P. Rossi, Disegni della bottega di Jacopo Tintoretto, in Arte veneta, 2012, vol. 68, pp. 57-89.