VIVARELLI, Roberto
– Nacque a Siena l’8 dicembre 1929, figlio di Lavinio (1900-1942), avvocato, e di Bianca Margherita Cosci, insegnante; ebbe un fratello maggiore, Piero (v. la voce in questo Dizionario).
Nel 1921 il padre, allora studente universitario di giurisprudenza, aveva aderito ai Fasci di combattimento, e l’anno seguente aveva partecipato alla marcia su Roma.
Dopo i primi anni trascorsi a Siena, la famiglia abitò a Milano, dove Lavinio aveva aperto uno studio legale. Nell’estate del 1935, questi partì volontario per la guerra d’Etiopia, come ufficiale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN). La moglie e i figli fecero ritorno a Siena, dove Vivarelli visse fino alla primavera del 1944. Qui fece le esperienze consuete per un bambino italiano degli anni Trenta: la frequentazione del gruppo rionale fascista, la partecipazione ai campeggi dell’Opera nazionale balilla nel periodo estivo.
Il 20 febbraio 1941, l’89a legione (Etrusca) della MVSN, in cui Lavinio Vivarelli era centurione, fu mobilitata; dopo la rapida conquista tedesca della Iugoslavia nell’aprile successivo, si trasformò in truppa di occupazione, e venne presto alle prese con la nascente Resistenza iugoslava. L’8 aprile 1942, Lavinio – all’epoca centurione nella 97a legione (Senese) – fu fatto prigioniero sul monte Vještića (Bosnia) da un reparto appartenente al movimento partigiano comunista (capeggiato da Josip Broz, detto Tito): durante una sosta nei pressi del villaggio di Šajković, il capo di quel reparto decise la sua eliminazione. Il cadavere non fu mai ritrovato; ancora nei primi anni Sessanta, Roberto – allora research fellow al St. Antony’s college di Oxford – cercò di appurare le circostanze della morte del padre attraverso il noto storico Frederick W. Deakin, che durante la guerra aveva tenuto i collegamenti fra il governo britannico e i partigiani di Tito.
La famiglia Vivarelli non era particolarmente agiata, tanto che il 4 giugno 1943 la vedova si rivolse direttamente a Benito Mussolini per un aiuto economico, e ottenne un cospicuo sussidio, pari a 25.000 lire (R.J.B. Bosworth, Mussolini’s Italy: life under the fascist dictatorship, 1915-1945, 2005, pp. 316 e 570).
Dopo l’8 settembre 1943, i due fratelli Vivarelli aderirono alla Repubblica sociale italiana (la cosiddetta Repubblica di Salò): mentre Piero si arruolava nella Decima flottiglia MAS, Roberto cercò di entrare in uno dei reparti dell’esercito ‘repubblichino’, ma senza successo, data la sua giovanissima età (non aveva ancora quattordici anni). Dovette rassegnarsi alla vita di studente liceale fino al giugno del 1944 (quando avvenne la liberazione di Roma), per poi seguire al Nord la madre, che era entrata con ruolo direttivo nel corpo delle ausiliarie della Repubblica sociale, trasferendosi prima a Venezia e poi a Milano, a stretto contatto con Alessandro Pavolini, segretario del Partito fascista repubblicano. Solo nell’autunno del 1944 Vivarelli poté entrare nelle Brigate nere (create da Pavolini in luglio); fu assegnato alla compagnia Giovani fascisti Bir-el-Gobi (in quel momento integrata nella 1a Brigata nera mobile, e in seguito autonoma). Tra l’altro, il 18 febbraio 1945 partecipò allo scontro del castello di Masino (Torino) con le forze partigiane. Dopo la liberazione di Milano (25 aprile), il giovane seguì Pavolini anche nella sua ultima avventura, il tentativo di creare in Valtellina un Ridotto alpino repubblicano (RAR): ma dopo lo scioglimento del suo reparto, riuscì senza difficoltà a rientrare a Milano.
Queste vicende costituirono un rovello per tutto il resto della sua vita; altrettanto decisivi furono però gli anni successivi, quelli della sua ‘acculturazione democratica’. Terminato frettolosamente il liceo scientifico, all’inizio dell’anno accademico 1947-48 si iscrisse alla facoltà milanese di chimica, ma nell’estate del 1948 un attacco di tubercolosi ossea lo costrinse al ricovero nell’ospedale militare di Calambrone (Livorno), dove rimase fino al 1951.
Fu in quegli anni che portò a termine la sua revisione ideologica, attraverso il confronto con gli altri ricoverati (quasi tutti militari deportati in Germania dopo l’8 settembre), la lettura sistematica delle riviste della nuova cultura democratica (come Il Mondo di Mario Pannunzio e Il Ponte di Piero Calamandrei), l’amicizia, dopo le dimissioni dall’ospedale, con lo scrittore Piero Jahier, interventista democratico e poi antifascista, e con il giurista senese di area azionista (poi socialista) Mario Bracci.
Dopo la guarigione, si iscrisse alla facoltà senese di scienze politiche, poi a quella fiorentina (allora chiamata istituto Cesare Alfieri), laureandosi nel marzo del 1954. Vivarelli fu il primo o, almeno, uno dei primi laureati in storia contemporanea prodotti dall’università italiana: all’istituto Cesare Alfieri, di questo insegnamento era incaricato Giovanni Spadolini, che di lui era quasi coetaneo. La tesi di laurea di Vivarelli (La genesi del movimento fascista nel quadro del dopoguerra italiano, 1919-1920) già riguardava quello che sarebbe stato il problema centrale della sua vita di studioso, ma egli sostanzialmente l’avrebbe ‘rimossa’, individuando il vero inizio della sua ricerca nel periodo (1956-57) in cui fu alunno dell’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli, diretto da Federico Chabod, e nella conoscenza, fatta in quei mesi a Sorrento, di Gaetano Salvemini, che volle lasciargli una parte dei documenti sul primo dopoguerra da lui raccolti: dopo la morte di Salvemini, Vivarelli pubblicò – sul Mondo, in cinque puntate, fra l’ottobre e il novembre del 1958 – ampi stralci del suo Diario del 1922-23.
Nella sua maturazione fu decisivo anche il contatto (già negli anni universitari) con il mondo britannico e poi con quello statunitense (subito dopo la laurea studiò alla University of Pennsylvania a Filadelfia): l’avvertì come l’incontro con il ‘mondo moderno’, tutto diverso dall’odiato-amato ambiente toscano e, più in generale, dal contesto italiano, verso il quale – nonostante la prestigiosa carriera accademica dei decenni successivi – provò sempre un’estraneità di fondo, senza riuscire tuttavia a disinteressarsi delle sue vicende politiche e culturali. Statunitense (di Chicago) fu la compagna della sua vita, Ann Sheldon West, sposata il 9 giugno 1960.
Nel 1954 iniziò a collaborare alla rivista di Calamandrei, dove pubblicò una Lettera agli amici del ‘Ponte’ (1955, vol. 11, n. 4-5, pp. 750-754), in cui discorreva della sua esperienza di giovane ‘repubblichino’. Nel 1960 Chabod gli aprì le pagine della Rivista storica italiana, che nei decenni successivi avrebbe ospitato una lunga serie di suoi saggi e recensioni di grande rilievo e lo avrebbe infine accolto, nel 1981, nel proprio comitato direttivo.
Intanto Vivarelli costruiva la sua carriera accademica: Rockefeller foundation fellow nel 1959-60, nel 1962 divenne assistente ordinario di Mario Delle Piane all’Università di Siena, nel 1967 libero docente. Vincitore di concorso, dal 1972 al 1975 fu professore straordinario di storia contemporanea ancora a Siena, passando poi all’Università di Firenze (1975-86).
Nel 1967 comparve – edito dall’Istituto italiano per gli studi storici – il primo volume (Dalla fine della guerra all’impresa di Fiume) della sua storia delle origini del fascismo (Il dopoguerra in Italia e l’avvento del fascismo, 1918-1922), in cui metteva a frutto le ricerche compiute nel quindicennio precedente: il volume fu dedicato (come i due successivi) «Alla memoria di Gaetano Salvemini e Federico Chabod».
Chabodiane erano la struttura e la composizione dell’opera, rispondente a un ideale di ‘storia totale’, nutrita di vastissime letture, basata su una larga base documentaria e (specie nelle ampie note) tutta tesa al confronto con la letteratura precedente. Salveminiana era l’importanza attribuita al dibattito sulla questione adriatica del 1917-18 e alla saldatura che su quel terreno si era attuata fra l’interventismo democratico e il wilsonismo. Alla fine della Grande Guerra, secondo Vivarelli, non era affatto scontata una soluzione autoritaria della crisi italiana, anzi erano aperte opportunità di un vasto rinnovamento democratico, che non trovarono le forze politiche capaci di tradurle in atto, poiché il partito che avrebbe dovuto farsene carico, quello socialista, era tutto conquistato al mito della Rivoluzione d’ottobre. Tutta interna al ‘paradigma antifascista’ era la caratterizzazione della figura di Benito Mussolini, di cui (come sempre in futuro) Vivarelli sottolineava la povertà culturale, la pochezza umana, la precocissima involuzione verso posizioni nazionalistiche: si contrapponeva così alle principali novità del Mussolini il rivoluzionario di Renzo De Felice, uscito due anni prima, cui riservò infatti una dura recensione (Benito Mussolini dal socialismo al fascismo, in Rivista storica italiana, 1967, vol. 79, n. 2, pp. 438-458).
Dopo la pubblicazione del volume e la sistemazione accademica, Vivarelli operò una lunga pausa di riflessione, durata per tutti gli anni Settanta. Anche in questo distinguendosi dal vario ‘revisionismo’ dei decenni successivi, egli era convinto della natura radicalmente ‘antimoderna’ del fenomeno fascista: ma che cos’era la ‘modernità’? Che significato attribuire ai processi di modernizzazione che erano scaturiti dalla rivoluzione industriale? Quali erano le culture che se ne facevano interpreti e quelle che vi si opponevano? Questi problemi lo spinsero a studiare a fondo i processi di industrializzazione, le politiche che li avevano promossi, il loro impatto nei sistemi politici: sullo sfondo, centrale, il mondo rurale e la sua evoluzione. Queste riflessioni sboccarono in alcuni rilevanti saggi della fine degli anni Settanta, soprattutto nell’ampio Liberalismo, protezionismo, fascismo. Per la storia e il significato di un trascurato giudizio di Luigi Einaudi sulle origini del fascismo (pubblicato nella raccolta di suoi scritti Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo, 1981, pp. 163-344); in polemica esplicita con la storiografia di Giuseppe Are, questo saggio era in realtà una riflessione critica sulle note tesi di Rosario Romeo sull’industrializzazione italiana.
Nel 1986 Vivarelli venne chiamato alla cattedra di storia contemporanea allora istituita dalla Scuola normale superiore di Pisa, dove insegnò fino al pensionamento, nel 2005. Per tutto quel decennio lavorò al secondo volume della sua opera sulle origini del fascismo, che uscì nel 1991, con un nuovo titolo e in coppia con il primo volume (Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, I e II).
La prima parte era occupata da un’analisi meticolosa e innovativa della nuova Camera uscita dalle elezioni del 16 novembre 1919: la riflessione poi si ampliava alle caratteristiche dell’intero sistema politico italiano dopo l’Unità e alla sua vocazione centrista e trasformista. La ‘paralisi parlamentare’ era alla base della crisi del sistema liberale: la fine della maggioranza liberale e l’inadeguatezza democratica dei due partiti usciti vincitori dalle urne, quello popolare e, soprattutto, quello socialista. Al cui interno non esisteva alcuna forza genuinamente ‘riformista’, perché anche il socialismo di Filippo Turati non era disposto a farsi carico della gestione e dello sviluppo democratico di uno Stato ‘borghese’. La seconda parte rivolgeva la sua attenzione alle campagne italiane del 1919-20, ai loro problemi endemici e non risolti dalla classe dirigente liberale, alla miseria che vi era diffusa, all’asprezza delle tensioni sociali sviluppatesi dopo la fine della Grande Guerra: nella convinzione che le lotte agrarie del 1920, e non l’occupazione delle fabbriche del settembre di quell’anno, erano all’origine della reazione squadristica dei primi mesi del 1921. Proprio il mancato sviluppo delle campagne e quindi l’inadeguata modernizzazione della cultura contadina stavano alla base del dramma italiano del dopoguerra: ecco perché Vivarelli (con il suo caratteristico tratto ‘moralistico’) metteva sotto processo l’intera classe dirigente dell’Italia unita e ribadiva il carattere illiberale dello Stato postrisorgimentale.
Com’era successo dopo la pubblicazione del volume precedente, lo storico senese per quasi un quindicennio sospese la prosecuzione dell’opera e anzi, a lungo – specie dopo la morte della moglie, nel gennaio del 1999 – pensò di lasciarla interrotta. La pubblicazione del libro di Claudio Pavone, Una guerra civile (1991), in cui si sottolineava la sofferta moralità della guerra di Liberazione, ma sostanzialmente si negava ogni carattere ‘morale’ all’esperienza umana dei ‘repubblichini’, riaprì vecchie ferite: non ci poteva essere alcun dubbio sulla superiorità storica e politica della Resistenza rispetto ai suoi nemici, ma sul piano individuale – questa la tesi espressa nella recensione di Vivarelli al libro di Pavone (Una guerra civile, in Rivista dei libri, 1992, vol. 2, n. 4, pp. 25-28) – una ‘moralità’ era riscontrabile anche in molti di coloro che avevano gettato allo sbaraglio la loro vita in una lotta perduta in partenza.
Qualche sua aspra critica di fine decennio a una certa storiografia resistenziale (Guerra ai civili e vuoti di memoria, in Belfagor, 1998, vol. 53, n. 3, pp. 346-354) e alla gestione degli Istituti storici della Resistenza (L’Istituto della Resistenza e l’Archivio Salvemini. Una bega locale e una questione nazionale, in Nuova storia contemporanea, 1999, vol. 2, n. 2, pp. 147-150) costituirono l’antefatto delle virulente polemiche che accompagnarono la pubblicazione del saggio La fine di una stagione. Memoria 1943-1945, Bologna 2000, sulla sua esperienza di giovane ‘repubblichino’.
Non solo Vivarelli vi ripeteva e sviluppava i temi della sua recensione a Pavone del 1992, ma sottolineava l’«impostura» su cui si era basata – a suo modo di vedere – la storia repubblicana: la condanna senza appello di quei giovani, spesso alla prima esperienza politica, che avevano aderito alla Repubblica sociale aveva avuto come pendant l’assoluzione generalizzata di quanti erano stati collusi con il regime fascista fino al 1943. Attraverso la criminalizzazione dei ‘repubblichini’, la maggior parte degli italiani si era autoassolta e non aveva fatto i conti con il proprio ventennale consenso al regime.
Nel 2000 Vivarelli fu invitato dal suo allievo Antonio Cardini, allora preside di scienze politiche a Siena, a tenere due lezioni, da cui – dopo una lunga rielaborazione – sarebbe scaturito il volume I caratteri dell’età contemporanea (2005).
Si trattava della ripresa sistematica di molte osservazioni sparse in saggi e recensioni dei decenni precedenti, ma con un approccio per molti aspetti diverso: mentre la storia moderna e contemporanea gli era apparsa a lungo un tormentato ma continuo processo di emancipazione dell’umanità – in una prospettiva (si direbbe) ‘neoilluministica’ – all’alba del nuovo secolo la sua prospettiva si faceva molto più problematica e pessimistica; ora scorgeva in quel cammino ambivalenze e aporie che lo inducevano a una valutazione assai più cauta.
Alla fine di quel decennio, anche per le sollecitazioni di qualche amico, si indusse a riprendere in mano e a concludere la sua opera sulle origini del fascismo: il terzo volume apparve nell’autunno del 2012.
Mentre una nuova storiografia veniva elaborando un’analisi ‘antropologica’ del fascismo come prodotto e prolungamento della violenza accumulatasi nel Paese durante la Grande Guerra, in quel volume Vivarelli ribadì il carattere di ‘reazione’ (in senso letterale) dello squadrismo: la miccia che lo fece esplodere fu la violenza diffusa in alcune zone da parte del massimalismo, soprattutto durante le lotte agrarie del 1919-20. Nella guerra civile che seguì si assistette allo scontro fra due violenze: una – quella socialista – che era stata esercitata come intollerabile pressione sociale; l’altra, invece, di tipo militare e chirurgico, da parte di uomini che avevano fatto la guerra spesso in corpi speciali e che si ispiravano a un costume militare. Tale reazione (questa l’altra tesi forte) aveva svolto una funzione di supplenza di un’azione repressiva che lo Stato non aveva svolto, lasciando una parte consistente delle popolazioni di intere parti d’Italia in balia delle ‘satrapie rosse’ (come allora le definivano gli avversari). E questa supplenza fu l’elemento che la rese popolare, o comunque tollerabile, per la maggioranza silenziosa degli italiani: è il fenomeno che Vivarelli chiamava «filofascismo» e a cui attribuiva un ruolo centrale nell’affermazione finale di Mussolini.
Nell’inverno del 2014, le sue condizioni di salute cominciarono a declinare senza possibilità di ripresa.
Morì a Roma il 14 luglio 2014.
Fonti e Bibl.: L’archivio di Roberto Vivarelli venne da lui donato alla Scuola normale superiore di Pisa nel giugno del 2004; il fondo comprende il carteggio e altri materiali manoscritti. Anche la sua biblioteca è stata acquisita dalla Normale.
Per la sua bibliografia: R. Pertici, Bibliografia degli scritti di R. V. (1954-2015), in Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici, 2016, vol. 29, pp. VII-XXIV. La sua opera, nei vari aspetti, è analizzata e discussa in Storiografia e impegno civile. Studi sull’opera di R. V., a cura di D. Menozzi, Roma 2017. Per due temi particolari, si vedano due saggi contenuti in Rivista storica italiana, 2016, vol. 128, n. 3: P.G. Zunino, R. V. e le origini del fascismo, pp. 921-974, e A. Viarengo, Fra testimonianza e ‘aristocratica superbia’. R. V. e la ‘Rivista storica italiana’, pp. 975-1010. Ampia e informata è la voce su di lui nella versione in lingua tedesca di Wikipedia (https://de.wikipedia.org/wiki/Roberto_Vivarelli).