VISCONTI, Roberto (Robertino, Roberto iunior)
– Nacque forse a Milano, negli anni a cavallo tra XIII e XIV secolo, da Leonardo di Redolfo Visconti di Pogliano.
Suoi fratelli furono Giovanni, Franceschina (sposa di Guarazio da Pirovano) e Redolfo detto Staffa, che nel 1341 risiedeva a Ronchetto Visconti, sede di altri possedimenti familiari (un figlio di Staffa, Giovannolo, nel 1351 abitava invece a Milano, in parrocchia di S. Simplicianino; Palestra, 1971, pp. 81 s.).
Il ramo dei Visconti di Pogliano (località in pieve di Nerviano) fu distinto da quello dei signori, ma ebbe tuttavia una presenza altrettanto robusta nelle istituzioni ecclesiastiche ambrosiane. Roberto infatti è talora chiamato Robertino per distinguerlo dallo zio omonimo (fratello di Leonardo), dal 1297 arciprete del capitolo maggiore del duomo, ove sedeva con il fratello Guido; un terzo zio era Visconte, padre di Ottorollo, che nel 1341 sarà canonico di S. Donato in Strada.
Roberto senior e Matteo, nipote dell’arcivescovo Ottone, pure canonico e poi cimiliarca della cattedrale, furono i due ecclesiastici viscontei più in vista fino all’avvento di Giovanni. Il secondo fu destinato senza successo alla cattedra novarese, mentre Roberto nel 1312 fu eletto dal partito ghibellino a quella di Lodi, resistendo sino al 1319 al frate minore Leone Palatini, che infine prevalse. Morì tra il 20 marzo 1340 (quando comparve assieme a ‘Robertino’ nel capitolo riunito sede archiepiscopali vacante per autorizzare la fondazione di un beneficio sacerdotale nella chiesa di S. Nazaro in Pietrasanta) e il 15 maggio 1341 (quando si chiese un arbitrato sulla sua eredità: Palestra, 1971, p. 77, che erra, p. 17, dandolo per morto entro il 1339). È ricordato per la promozione del culto del Corpus Domini: nel testamento del 7 settembre 1327, poi modificato, nominando esecutori il fratello Guido, il nipote Robertino e Giovanni Visconti, lasciò al capitolo un messale che menziona tale festa, commissionato a Giovanni da Leggiuno (Milano, Biblioteca Ambrosiana, da qui BAMi, C.170 inf.) e un legato per erigere la cappella del Sacramento: i beni furono rilasciati dagli eredi il 10 giugno 1342 (Archivio di Stato di Milano, FR, cartt. 144 e 150, cass. 22, D2, n. 1, in Tamborini 1935, pp. 34-41; il testamento del 1327, in estratto in Tamborini, 1935, pp. 30 s., è invece in BAMi, Perg. 2520: Cadili 2007, pp. 84 s.). L’11 maggio 1338 l’altare del Corpus Domini era officiato da Pietro Cagnola (Archivio di Stato di Milano, cart. 163, cass. 43, c. 15, ancora titolare il 26 agosto 1359: cart. 164); dal 1335 Azzone e Giovanni Visconti avevano promosso la prima processione del Corpus Domini.
La carriera di Roberto iunior si sviluppò nel solco di quella dello zio. Compì studi giuridici a Bologna, forse allontanandosene nel 1321, ma non è attestato un titolo accademico. Al contrario dello zio arciprete e degli ecclesiastici della casata, non fu citato durante i processi antiviscontei promossi da Giovanni XXII nel 1321-23, per la giovane età o per la posizione defilata. L’ingresso nel capitolo della metropolitana è anteriore all’8 luglio 1334 (Archivio di Stato di Milano, AD, PF, cart. 387), quando vi figura con gli zii Guido e Roberto arciprete, mentre la prepositura di Brivio è attestata dal 24 ottobre 1339 (BAMi, Perg. 4478). Ereditò poi dallo zio l’arcipretura: era ancora canonico il 6 febbraio 1342 nell’atto di dotare una consanguinea (Archivio di Stato di Milano, AD, PF, cart. 441, ins. in doc. 22 marzo 1355), mentre il 18 gennaio 1343 era già arciprete (Archivio di Stato di Milano, FR, cart. 154), pur mantenendo la sola ordinazione suddiaconale. Negli stessi mesi Giovanni Visconti veniva nominato da Clemente VI arcivescovo, ultimo passo per la definitiva ‘normalizzazione’ della Chiesa ambrosiana dopo decenni di instabilità. Data l’assenza di Guglielmo Pusterla, cimiliarca (o tesoriere) del capitolo, Roberto cumulò anche tale funzione (BAMi, Perg. 4344, in Palestra, 1971, pp. 78-80) e, pur non essendone mai vicario, fu talora delegato dall’arcivescovo Giovanni per varie operazioni, per esempio per unire l’ospedale di S. Donato all’ospedale Nuovo (7 ottobre 1350; Bascapè, 1937, p. 117).
I legami con Avignone risultano dall’incarico di subcollettore della Camera apostolica, nella cui veste si scontrò con gli inquisitori domenicani per la loro gestione finanziaria, ottenendo dal papa un’inchiesta contro gli stessi (16 marzo 1354).
Il 5 ottobre 1354 morì Giovanni e il 29 Innocenzo VI scrisse a Roberto di averlo nominato successore, richiamando la riserva apostolica, ma di fatto confermando l’elezione capitolare. Il 9 novembre lo stesso pontefice comunicò ai nuovi signori, Matteo, Bernabò e Galeazzo, di avere accondisceso, con l’elezione, alla richiesta loro e del defunto presule. La scelta a Milano era dunque unanime, essendo Roberto il più autorevole tra i Visconti in stato chiericale.
La lettera informava inoltre i signori del prossimo arrivo a Milano del re dei Romani Carlo IV per l’incoronazione a re d’Italia (Ughelli,1719, IV, coll. 250-252). Non essendo Roberto ancora consacrato, il 29 novembre Innocenzo delegava i patriarchi di Costantinopoli, Aquileia e Grado (Frisi, 1794, II, pp. 166-168). Carlo fu incoronato il 6 gennaio 1355 in S. Ambrogio, in un’atmosfera segnata dallo stretto controllo militare visconteo: Roberto consegnò il pomo, delegando per la consacrazione il vescovo di Bergamo, Lanfranco Salvetti, fratello di uno dei più stretti collaboratori del defunto signore.
L’entrata solenne di Roberto, da porta Vercellina al duomo, con il baldacchino rosso portato dai confalonieri, e la consacrazione seguirono in aprile o maggio. Intanto il 24 gennaio 1355 egli aveva ottenuto dal papa di poter governare la diocesi: trentuno lettere relative alla gestione della mensa lo vedono attivo come electus tra il 5 febbraio e il 3 aprile (Palestra, 1971).
Dell’episcopato di Roberto la storiografia si è occupata per il tema dello ‘sfruttamento’ della Chiesa ambrosiana da parte dei signori. La cronaca di Pietro Azario, notaio al servizio visconteo, riferisce che al presule sarebbe stato lasciato «solo l’anello e pochi possessi» e che egli sarebbe stato limitato nella provvista beneficiaria e nell’amministrazione delle giurisdizioni arcivescovili (P. Azario, Liber gestorum in Lombardia, a cura di F. Cognasso, 1939, p. 146). Egli menziona le taglie imposte al clero, aggravatesi, con altre forme di coercizione, in occasione della lotta col papato per Bologna dal 1360, ma riporta gli affanni di Roberto all’intera durata dell’episcopato. La documentazione restituisce però un’immagine più articolata. Nel 1362 Urbano V scomunicò Bernabò, adducendo violenze contro i religiosi, l’imposizione di taglie, la spogliazione di beni ecclesiastici, la collazione arbitraria di benefici e il controllo di questi tramite un funzionario, sino a citare un episodio riguardante Roberto: essendosi questi opposto all’immissione illecita di un monaco a Chiaravalle, Bernabò l’avrebbe ingiuriato e fatto inginocchiare, ricordandogli di essere lui la massima autorità, anche ecclesiastica, nei propri territori, e infine l’avrebbe fatto rinchiudere. L’accumulo di accuse esorbitanti in simili circostanze è consueto, anche se l’imposizione di taglie e l’esistenza di officiali preposti ai benefici vacanti sono documentati. Riguardo poi alla mensa arcivescovile, la cessione ai signori riguardò castelli e giurisdizioni nelle aree lacustri lungo le vie di comunicazione transalpine e avvenne sotto copertura di titoli legittimi.
Bernabò si rivolse alla riviera di Lecco: il 5 ottobre 1355 Roberto gli locò il suo distretto (Archivio di Stato di Milano, FR, cart. 175, estratto da un mastro di Roberto) e nel 1356 gli fu infeudata la Valsassina (Bognetti, 1926, pp. 283 s.). Quanto a Galeazzo, il 20 gennaio 1355, quattro giorni prima di ottenere dal papa la facoltà di governare la diocesi, Roberto lo nominò dominus generalis di Lesa e del Vergante, sul lago Maggiore, il 6 luglio «rettore e governatore» della Valsolda, poi di Porlezza e di Teglio in Valtellina (Palestra, 1971; Gamberini, 2005). Anche lo zio Guido e gli altri ordinari, conti delle valli Blenio e Leventina, locarono le stesse ai due signori. Questi attuarono dunque l’occupazione sin dall’inizio dell’episcopato di Roberto.
Peraltro, non è sempre certo se i funzionari locali a cui il presule scriveva fossero alle sue dipendenze o soggetti a Galeazzo o Bernabò e il quadro è reso ambiguo dalla presenza di officiali provenienti dalla consorteria dei da Pogliano, segno di qualche forma di collaborazione e accordo. La parte patrimoniale rimase al presule (non senza frizioni: Roberto dovette chiedere al vicario visconteo di Varese di rispettare i propri diritti in Valtravaglia; Palestra, 1971, p. 142). Anche nelle aree in cui la giurisdizione fu ceduta, essa convisse con beni e diritti goduti da Roberto; il dazio del Vergante, di cui egli rinnovò il tariffario stabilito dal predecessore nel 1348 (ibid., pp. 107-110), è forse tra questi.
Roberto avallò le scelte documentario-archivistiche e gestionali compiute da Giovanni Visconti ed esse furono confermate dai successori. Negli anni Sessanta i vicari di Pusterla gestirono il patrimonio tramite negotiorum gestores dei beni arcivescovili «pro parte domini Galeaz de Vicecomitis» (ibid.), ma si trattava di un presule ostile. Il funzionamento dell’amministrazione economica si desume dalla continuità dell’apparato burocratico e del sistema di produzione e conservazione delle scritture istituito da Giovanni. I notai alle dipendenze del vicario in temporalibus (alcuni in posizione preminente, come Lanzarotto Negroni, con un ruolo di raccordo tra i due episcopati) redigevano gli atti relativi alla gestione ed esaminavano i rendiconti di fattori e gestori; gli estremi erano registrati nel «libro nero» (organizzato per fictalicie), a cui, nel ricostituire un apparato altrettanto efficiente, si ispirò esplicitamente l’arcivescovo Antonio da Saluzzo producendo due grandi mastri sopravvissuti (1376-1402). Il «libro nero» è attestato in curia, oggetto di ricognizioni, fino al XVI secolo (Mangini, 2019; Cadili, 2020).
La burocratizzazione dell’amministrazione in spiritualibus, adottata anche da Roberto, era invece eredità di un settantennio di prassi consolidata. Come vicari sono attestati Andrea de La Mayrola e Cristoforo de Medicis (poi arciprete del duomo), accanto ai quali operava un vescovo ausiliare, frate Agostino titolare di Siliviri (suffraganea di Costantinopoli, il cui patriarca latino era Pusterla). Roberto disponeva poi di una rete di collaboratori, talora legati alla cattedrale, come Andrea da Abbiate, e di familiari, quali Bono de Balbis o Dalmazio Biffi, a cui delegare singole operazioni. Se Negroni restò al sevizio del vicario in temporalibus, il principale notaio di curia fu Giovannolo Coldirari, ma acquistò influenza Ambrogio Arese, di cui rimane un registro di breviature (1356-58, soprattutto conferme e concessioni di benefici). Oltre agli atti ordinari, si segnala l’attenzione, consueta agli arcivescovi e ai signori trecenteschi, per gli ospedali, con l’unione degli Umiliati di Senago all’Ospedale nuovo, un’indulgenza a favore dello stesso e il consenso alla donazione di Bernabò agli ospedali del Brolo, di S. Caterina, di S. Ambrogio e di S. Antonio. Roberto seguiva diligentemente pure i mandati pontifici: in tempo di pace tra Milano e Avignone, il 14 maggio 1358 impose ai suffraganei la decima per il recupero dei territori ecclesiastici e il 23 marzo 1359 fece consegnare al legato Albornoz i 1400 fiorini raccolti nella diocesi di Milano.
La residenza di Roberto fu l’arcivescovado, addossato alla vecchia cattedrale («in camera cubicularia domini archiepiscopi sita penes sacristiam ecclesie Mediolani»: BAMi, Perg. 2804), ma la morte, l’8 agosto 1361, in tempo di peste, avvenne probabilmente nel castello arcivescovile di Legnano, come attestato dai cataloghi dei presuli compilati nell’ambito della cattedrale, sebbene Azario situi il decesso a Milano.
Il dato non è improbabile: anche Saluzzo morì nel 1402 nel castello di Legnano. Il lascito per la fondazione in cattedrale di due cappellanie in onore del Corpus Domini e di s. Caterina ricalcò quelli dello zio, accanto al quale, dietro l’altare maggiore del duomo, fu sepolto.
La tradizione ha reso fosco l’episcopato di Roberto. Tuttavia quel che si verificò, dopo un arcivescovo-signore, fu l’accettazione da parte di Roberto (di buon grado o meno) dello spazio occupato dalla signoria nella ‘propria’ Chiesa e la conseguente ridefinizione di quello a lui rimasto. Ciò era nelle cose al momento in cui Giovanni aveva designato alla successione temporale i nipoti e a quella spirituale l’arciprete, membro di un ramo secondario della dinastia, ma non certo un curiale voluto dal papa. Un curiale seguì, in pieno conflitto politico; poi (dopo il fugace episcopato di Simone da Borsano) un presule di nuovo voluto da Galeazzo riprese la via di Roberto.
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