VALTURIO (de Valturibus, de Valturribus, Valtorri), Roberto
Figlio di Cicco di Jacopo, nacque probabilmente a Rimini intorno al 10 febbraio 1405; non è noto il nome della madre.
La famiglia Valturi, originaria di Macerata Feltria, si era trasferita a Rimini nella seconda metà del Trecento; il magister Cicco insegnò umane lettere, pur avendo compiuto studi notarili, e divenne cittadino riminese. Ambedue i fratelli di Valturio furono notai: il maggiore, Giacomo (morto prima del 1438), fu famiglio di Carlo Malatesta e successivamente scriptor apostolico e funzionario papale sotto Eugenio IV; Pietro fu cancelliere del comune di Cesena e, dal 1437, governatore del castello di Torrita per conto dei Malatesta.
Dopo primi studi di cui non abbiamo notizia, Valturio si spostò presso lo Studium di Bologna dove, probabilmente già da studente, fu lettore di retorica e poesia dal 1427 al 1437; compare col titolo di doctor artium dal 1438. In tale anno verosimilmente si trasferì a Roma, in curia, come scriptor et abbreviator apostolicus. Restò nell’Urbe fino al 1446, entrando in contatto col fertile ambiente culturale della Curia. Rientrato a Rimini, si stabilì nella casa paterna in S. Giorgio in Foro (donde si spostò nel 1450 nella contrada di S. Martino). Il 12 agosto 1446 già compare come «consciliarius» di Sigismondo Malatesta (Rimini, Archivio notarile, Prot. F. Paponi, 1445-47, c. 66r); pochi mesi dopo (in autunno) sposò Diana del fu Rainirolo Lazzari, già vedova del cesenate Giovanni Francesco degli Aguselli, dalla quale non ebbe figli.
Sin da allora Valturio ebbe un ruolo non insignificante nella politica malatestiana.
Secondo il racconto di Cesare Clementini, nel dicembre 1447 l’umanista, partecipando al Consiglio dei XII, suggerì a Sigismondo Malatesta (schieratosi con Venezia e Firenze, tradendo Alfonso d’Aragona che lo aveva ingaggiato come capitano) di non restituire i compensi della condotta (60.000 alfonsini): il consiglio determinò l’ovvio risentimento del re (Clementini, 1617-1627, II, pp. 355 s.). Fu inoltre impegnato in missioni diplomatiche a Roma presso Niccolò V (novembre 1447, aprile 1452).
Ma decisivo fu, nella corte riminese, il suo impulso alla vita culturale, assecondando gli orientamenti umanistici già inaugurati da Sigismondo. Alla sua intercessione è da imputarsi l’ingresso di Basinio da Parma e di Porcellio Pandoni nella corte malatestiana; stretti furono i contatti con Ciriaco d’Ancona, come documenta un’epistola datata 24 giugno 1449 e tramandata nell’appendice di testi che corredano i mss. del De re militari. Già durante il soggiorno romano Valturio era probabilmente entrato in contatto con Poggio Bracciolini, col quale fu in corrispondenza negli anni successivi.
Un’epistola di Bracciolini del 1454, oltre a informare Valturio delle polemiche con Valla e Perotti, consente di intravedere il ruolo attivo che Valturio ebbe nella concezione del programma figurativo del Tempio Malatestiano, in particolare a proposito dell’iconografia de sybillis che dovevano decorarne una delle cappelle (Poggio Bracciolini, Lettere, a cura di H. Harth, Firenze 1987, III, pp. 280-282). Il coinvolgimento di Valturio è confermato anche da un promemoria dello stesso anno che Sigismondo, occupato sul fronte senese, inviò a Rimini tramite Sagramoro Sagramori: in esso il signore si raccomandava di parlare con «messere Ro. [scil. Valturio] et Pietro di Gennari et m. Agostino» sull’argomento delle Sibille, e incaricava Valturio di comporre l’epigrafe della Torre di Carignano (novembre 1454, Archivio di Stato di Siena, Particolari, Famiglie forestiere, b. 8, Malatesta Rimini: il fascicolo conserva anche una Memoria d. Roberti, messaggio autografo del Valturio diretto a Sigismondo). In un’altra missiva dell’autunno del 1455 Poggio, cosciente della posizione di rilievo assunta nella corte riminese, scrisse all’amico comunicandogli di aver deciso di dedicare il dialogo De miseria humanae conditionis a Sigismondo (Poggio Bracciolini, Lettere, a cura di H. Harth, Firenze 1987, III, p. 404).
In quegli anni Valturio fu in corrispondenza anche con l’abate aretino Girolamo Aliotti, da una lettera del quale (24 febbraio 1455) si apprende che egli si accingeva alla composizione di un’opera storica sulle imprese di Sigismondo (scritto di cui non rimane alcuna testimonianza né manoscritta né indiretta).
Conservate sono invece l’epistola indirizzata a Federico di Montefeltro per la morte di Battista Sforza (1472, ms. Città del Vaticano, Biblioteca apost. Vaticana, Urb. lat. 1193, cc. 40v-47v) e la lettera scritta per conto di Sigismondo Malatesta a Maometto II, che Matteo de’ Pasti avrebbe dovuto consegnare nella sua missione a Istanbul.
Nel novembre del 1461 infatti l’artista di origine veronese, Matteo de’ Pasti, in missione per conto del Malatesta, accusato di recarsi a Istanbul per invitare il gran Turcho a venire in Italia, venne arrestato dai Veneziani a Candia. Riportato nella città lagunare cum libris et scripturis suis e sottoposto al giudizio del consiglio dei Dieci, il Pasti venne rilasciato nel dicembre ma i doni del Malatesta che recava con sé (un libro e una cartina dell’Adriatico) vennero sequestrati. I dettagli della vicenda sono ricostruibili proprio dall’epistola dedicatoria del Valturio, dalla quale si apprende che il sultano aveva richiesto l’intervento del Pasti affinché quest’ultimo ne eseguisse il ritratto. Aderendo alla richiesta, Sigismondo aveva inviato il suo contubernalis offrendo nel contempo al sovrano, come ulteriore dono, una copia del De re militari. Fu proprio il volume valturiano, contenente notizie di argomento bellico, a motivare l’arresto a Creta dell’inviato malatestiano: l’esemplare manoscritto dell’opera, inviato a Pio II per un esame dettagliato che potesse supportare le accuse contro Sigismondo, non venne mai riconsegnato al Senato veneto che, ancora nel 1463, ne sollecitò la restituzione (esso non sembra identificabile con alcuno dei manoscritti pervenutici).
Non precisabile cronologicamente è poi l’attività che (come apprendiamo dal De re militari) Valturio svolse per incarico di Sigismondo, insieme con altri intellettuali non specificati, nella ricerca di libri per le nuove biblioteche che il signore aveva intenzione di realizzare («bibliothecasque novas maximis impensis tuis illis erigere, data mihi ac plerisque aliis librorum perquirendorum facultate»: De re militari, I, 13).
Il Valturio fece testamento due volte (in data 15 maggio 1458 e 3 maggio 1475): in entrambi i documenti la moglie Diana venne indicata quale erede universale dei beni.
Nelle disposizioni del 1475 espresse la volontà di essere sepolto nella chiesa di S. Francesco; i suoi libri, destinati alla biblioteca annessa e dichiarati non alienabili, avrebbero dovuto essere adoperati «ad usum studentium et aliorum fratrum et hominum civitatis Arimini» (Archivio di Stato di Rimini, Fondo Notarile, Atti di Bartolomeo di Sante, filza 1472-1478, cc. 96r-97v) in una sala apposita, nel piano superiore del convento (per la costruzione della quale dispose la cifra di 300 lire). Se un buon nucleo della sua biblioteca era ancora riconoscibile nell’inventario del 1560 e ancora, agli inizi del Seicento, il Clementini poteva distinguere i volumi valturiani secondo «la nota del prezzo, e del luogo e ove comprati furono» (Clementini, 1617-1627, II, p. 459), a metà del secolo solo due codici sicuramente appartenuti all’umanista sopravvissero allo smantellamento della libraria e passarono alla biblioteca Gambalunga appena istituita: l’Anticlaudianus di Alano di Lilla (Rimini, Biblioteca Gambalunga, SC-MS 77) e l’autografo dell’Hesperis che Basinio da Parma consegnò all’amico (SC-MS 34).
Non è certa la data di morte dell’umanista, che dovette comunque verificarsi poco prima del 30 agosto 1475, quando la vedova stese un inventario dei beni mobili. Fu probabilmente sepolto nel cimitero adiacente alla chiesa di S. Francesco a Rimini e solo dopo qualche tempo (non prima del 1490) Pandolfo Malatesta adempiendo al volere del defunto, ne fece trasferire la salma nella quarta arca collocata sul lato destro del Tempio Malatestiano.
Da un inventario di beni del funzionario malatestiano Rainerio Migliorati (febbraio 1499) si apprende che Valturio scrisse un De agro Riminensi (forse per aiutare Biondo nella stesura dell’Italia illustrata) e un’apologia di sé stesso (Li appologie).
L’opera della sua vita fu il De re militari, principiato probabilmente fin dall’arrivo a Rimini nel 1446, su invito dello stesso Sigismondo («multis me ad scribendum rationibus impulisti», De re militari, Ad Illustrem heroa Sigismundum Pandulphum Malatestam, ediz. 2006, p. 31)e terminato attorno al 1455. Si tratta di un’enciclopedia bellica, di matrice prettamente letteraria e dalle scarse applicazioni pratiche, che si ricollega ad una lunga tradizione in cui i modelli classici di Frontino e Vegezio si innestano con la trattatistica militare quattrocentesca. A differenza degli antecedenti, interessati all’ambito bellico-militare dal punto di vista funzionale, amministrativo o organizzativo, il De re militari mira a fornire un inventario completo delle caratteristiche, delle qualità e dell’educazione necessarie al buon condottiero, configurandosi di fatto come un esempio di speculum principis. L’intento del trattato – suddiviso in dodici libri – è principalmente encomiastico: il principe ideale trova un’incarnazione nella figura di Sigismondo Malatesta, cui l’opera è dedicata, unico capitano moderno degno di essere menzionato accanto ai grandi condottieri del passato.
L’elenco delle fonti adoperate, allegato dallo stesso autore con funzione paratestuale all’inizio dei testimoni manoscritti e dell’editio princeps del 1472, rivela l’uso esclusivo di modelli latini e greci riconducibili all’età classica e alla tarda latinità; Sigismondo e i dignitari della sua corte – come Giusto de’ Conti, Jacopo degli Anastagi e Francesco Visconti ricordati nel IV libro – sono gli unici personaggi contemporanei nominati. Le fonti medievali e tardomedievali (per es. il Petrarca dei Rerum memorandarum libri e del De remediis utriusque fortunae, il Boccaccio delle Genealogiae deorum gentilium) sono presenti ma intenzionalmente non dichiarate, in funzione della strategia antiquaria adottata dall’autore. Valturio peraltro, pur dedicando grande enfasi ai modelli greci, non sembra avere una conoscenza approfondita della lingua ellenica: gli auctores sono spesso citati solo attraverso la mediazione di fonti latine intermedie.
Non ci è pervenuta la copia di dedica a Sigismondo, che pure dovette esistere, e perduto è anche l’originale autografo, altrettanto ipotizzato dagli studiosi. La fortuna dell’opera, manoscritta e a stampa, fu notevolissima e dovuta principalmente all’apparato iconografico che ne correda il testo. I mss. sono in totale 23; di alcuni testimoni l’autore stesso curò la trascrizione «in serie», ospitando in casa propria il famulus Sigismondo di Niccolò Alemanno (che operò per più di dieci anni e fu autore di otto codici, sottoscrivendone quattro: Città del Vaticano, Bibl. apost. Vaticana, Urb. Lat. 281, Bibliothèque national de France, Par. lat. 7236, Venezia, Biblioteca naz. Marciana, lat. VIII 29 e Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. F. 150 sup.). Lo stesso Valturio preparò probabilmente l’assemblaggio di un dossier encomiastico di sé stesso, che figura in appendice al De re militari e comprende testi di Basinio, di Mario Filelfo, di Ciriaco d’Ancona, di Marco da Rimini oltre alla lettera indirizzata a Maometto II. Il Veneto (Padova, Verona) fu tra le aree di più intensa circolazione e fortuna dell’opera. L’editio princeps uscì a Verona (1472, vivo dunque l’autore; tipografo Giovanni da Verona), e nella stessa città furono pubblicate le due successive edizioni (13 e 17 febbraio 1483), quest’ultima corredata di un volgarizzamento, entrambe a cura di Paolo Ramusio e per i tipi di Bonino Bonini. Nel Cinquecento la fortuna del De re militari in Francia fu considerevole (tre edizioni nel 1532, 1533 e 1534, una traduzione nel 1555). Gli esemplari firmati in ‘serie’ e appartenenti al primo periodo di diffusione furono con molta probabilità commissionati dallo stesso Sigismondo che, utilizzando il De re militari in funzione diplomatica, fece dell’opera valturiana uno strumento di propaganda e personale apologia. Oltre alla prevedibile circolazione entro il milieu riminese – si pensi al già ricordato Jacopo degli Anastagi, possessore di due copie del trattato – e all’invio della copia a Maometto II, il Malatesta donò esemplari dell’opera a Francesco Sforza (1462, non pervenutoci) e a Mattia Corvino (l’attuale ms. 447 della Biblioteca Estense di Modena).
Le illustrazioni che determinarono la fortuna del trattato, concentrate soprattutto nei libri X e XI con sporadiche attestazioni nel resto della trattazione, occupano in sequenza circa un centinaio di carte e hanno il compito di supportare la descrizione testuale delle macchine e degli strumenti da guerra. Il corpus, variabile però nella sequenza delle macchine e nella diversa disposizione rispetto allo spazio di scrittura, è caratterizzato da disegni a tratto che solo in alcuni testimoni ricevono un trattamento chiaroscurale o sono acquerellati. I modelli delle macchine raffigurate, attraverso la mediazione delle compilazioni quattrocentesche e medievali, possono farsi risalire fino alla tradizione bizantina e non sono pertanto innovazioni di Valturio (fa eccezione la celebre «arabica machina ad expugnationem urbium» raffigurante un immane drago alato). L’ideazione del programma iconografico del trattato sembra da ascriversi allo stesso autore; il professionista che realizzò le immagini è stato dapprima identificato in Matteo de’ Pasti, ma prevale ora l’identificazione in Giovanni di Bartolo della Bettina, il miniaturista dell’Hesperis di Basinio da Parma, attivo a Rimini almeno dal 1462.
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