ROSSELLINI, Roberto
‒ Nacque a Roma l’8 maggio 1906 da Angelo Giuseppe e da Elettra Bellan.
La famiglia paterna di origini pisane aveva fondato nella Roma umbertina una impresa edile. Il padre si impiegò nella ditta costruendo palazzi nel centro, comprese alcune sale cinematografiche, dove da bambino Rossellini scoprì la sua vocazione.
Primogenito, trascorse con il fratello Renzo e le sorelle Marcella e Micaela un’adolescenza dorata da rampollo dell’alta borghesia. La sua indole nervosa e insofferente lo indusse ad annoiarsi tra i banchi del ginnasio al Tasso e poi del Nazareno. Una vitalità prorompente lo fece scappare di casa decine di volte, fin poi a disertare l’università. Ma la vera formazione avvenne nel salotto di casa, dove il padre, uomo colto e di spirito liberale, riuniva intellettuali e artisti: si accese in lui, quattordicenne, un’insaziabile curiosità culturale, che durò tutta la vita. Nel contempo si manifestarono una natura avventurosa e il suo amore per le auto: tra le prime una Bugatti, con cui si cimentò in gare di corsa. Il gusto del rischio, il furore di vivere, restarono sempre sue prerogative.
Dissipata l’eredità paterna, e venduto l’ultimo appartamento romano, si trasferì nella casa di Ladispoli. Qui conobbe Marcella De Marchis, che sposò nel 1936. Dopo un anno nacque il primogenito Romano. Si avvicinò al cinema come rumorista, poi come tecnico del doppiaggio e del montaggio. Le prime prove da regista furono cortometraggi in forma di ‘favola naturalistica’: Fantasia sottomarina (1939), girato sul terrazzo di Ladispoli con un piccolo acquario e dei pesci mossi da fili invisibili, quindi Il tacchino prepotente, La vispa Teresa, Il ruscello di Ripasottile, ricchi dell’inventiva e del gusto di improvvisazione che furono poi caratteri del suo cinema. Intanto nel 1938 aveva collaborato alla sceneggiatura di Luciano Serra pilota di Goffredo Alessandrini. L’Italia era avviata alla guerra quando nell’agosto del 1941 nacque il secondogenito, Renzino. Con Marcella si trasferì a Roma, nel quartiere Parioli.
Diventato collaboratore stabile della Scalera Film, lavorò nel 1941 con Francesco De Robertis, regista e ufficiale di marina, a un film su una nave-ospedale, La nave bianca – che tradì le intenzioni propagandistiche e divenne la storia di un piccolo microcosmo umano – girato su un’autentica nave ospedaliera, la Arno, e con la partecipazione di ufficiali dell’equipaggio. Emergeva sugli schermi, in nuce, ciò che sarebbe divenuto poi l’atteggiamento neorealista: raccontare un’epica del quotidiano, in cui gli uomini veri sono tali e non eroi di cartapesta.
Nel 1942 il figlio di Benito Mussolini, Vittorio, di cui divenne amico, e che era appassionato di aviazione, stese, sotto lo pseudonimo di Tito Silvio Mursino, il soggetto di Un pilota ritorna e gli affidò la regia. Rossellini prese parte svogliatamente alle sedute di scrittura: voleva riservarsi la più ampia inventiva sul set, affidando ogni cosa alla verità delle riprese, anche quelle aeree che eseguì personalmente a 4000 m di quota. Con il terzo film bellico, L’uomo della croce (girato nel 1942 quasi ‘in presa diretta’ con gli eventi di guerra, e uscito nel 1943), si precisò ancor di più il suo modo di girare. Si servì di un non attore, l’architetto Alberto Tavazzi, e girò a Ladispoli, reinventando l’ambientazione russa e riuscendo a cogliere aspetti di autenticità, di là da ogni ‘oleografia’. Intanto la guerra aveva preso una piega tragica e, come poi sarebbe accaduto in modo ricorrente, fu costretto ancora a cambiare vita.
Nel 1943 cominciò a girare Scalo merci, melodramma immerso nell’ambiente popolare dei ferrovieri, restato incompiuto e poi terminato dopo l’armistizio, con il titolo di Desiderio, da Marcello Pagliero. Quando il 19 luglio di quell’anno Rossellini si avviò agli studi della Titanus per discutere le riprese previste allo scalo S. Lorenzo, lì si scatenò intorno a lui una pioggia di bombe americane. Gli occhi del regista si riempirono di quelle immagini di polvere, di macerie, di donne e uomini urlanti, di corpi spezzati, che tornarono, lancinanti, in quella che divenne poi la sua ‘trilogia del dopoguerra’. Dichiarata Roma ‘città aperta’, Rossellini vi fece ritorno sistemando moglie e figli in un convento presso villa Borghese. Lui si diede invece alla macchia per le strade di Roma. Nella primavera del 1944 si unì alla Resistenza in città e, di lì in poi, biografia e cinema si intrecciarono progressivamente. Nei mesi della clandestinità pensò a un progetto che sempre più lo affascinava e che raccontasse ‘dal vivo’ la Roma dell’occupazione nazista. L’idea era nata nel giugno del 1944 da due episodi reali intorno ai quali costruì il film: la vicenda del prete partigiano don Giuseppe Morosini, fucilato dalle SS, e quella di Teresa Gullace, uccisa da una raffica di mitra dai tedeschi. Per questi ruoli ingaggiò due attori che provenivano dalla rivista, Aldo Fabrizi e Anna Magnani, e come aiutoregista volle un giovane Federico Fellini, che cominciò così il suo apprendistato.
Con la promessa di cinque milioni fattagli da una contessa milanese, e grazie a un anticipo dell’avventuroso produttore napoletano Giuseppe Amato, che inventò il titolo definitivo, cominciò la lavorazione leggendaria di un film che segnò la storia, Roma città aperta. I soldi furono cercati nei modi più rocamboleschi. Si cominciò a girare con pellicola semiscaduta comprata alla borsa nera, di notte, a via degli Avignonesi, accanto a un bordello dove Rossellini saliva per ‘riposarsi’, a sette mesi dall’arrivo degli americani, mentre al Nord si combatteva. L’episodio più emblematico fu quello di Rod Geiger, un tenente americano che precipitò sul set scendendo ubriaco le scale del postribolo: si presentò come un uomo di cinema americano, e in effetti fu lui ad assicurare poi la distribuzione statunitense, punto di partenza per il trionfo mondiale del film. Tra pellicola rimediata, sotterfugi per ottenere soldi in prestito, improvvisazioni di situazioni, intuizioni geniali, emerse la capacità di Rossellini di respirare l’aria del tempo e di farne poesia, dando vita all’epopea di un popolo e al capolavoro di quello che fu chiamato Neorealismo.
Proiettato il 24 settembre 1945 al teatro Quirino di Roma, il film sulle prime non piacque. Politicamente fu criticato dai cattolici imbarazzati da un prete che aiutava i comunisti e dal piglio di verità di un regista che era stato rappresentante per i lavoratori del cinema nel Comitato di liberazione nazionale (CNL), ma fu anche criticato dai comunisti infastiditi da un prete raccontato come un eroe. Nella stagione 1945-46 fu però campione di incassi, e quindi, con il titolo di Open city, trionfò a New York e fu accolto con entusiasmo quando uscì a Parigi da pubblico e cinefili.
Geiger, che aveva portato Open city in America e considerava Rossellini un genio, decise di produrre Paisà. Un film che raccontava in più episodi la risalita delle truppe americane lungo la penisola dalla Sicilia al Po, tracciando il quadro vibrante e umanissimo di un’Italia artefice profonda della propria liberazione, nel suo slancio di solidarietà e fratellanza. Vita e racconto interagivano nel suo cinema che nasceva spontaneamente, come i fatti della vita. Nell’agosto del 1946 era morto a Barcellona, a seguito delle complicazioni di una appendicite, il piccolo Romano. Rossellini fu lacerato dalla perdita che non superò mai: per tutta la vita portò sempre nel portafoglio il guanto di lana del figlio. Intanto il fascino di Anna Magnani, i suoi occhi grigi, lampeggianti, magnetici, i capelli nerissimi e spettinati, il fare indolente intriso di passione e ironia, lo avevano conquistato. Tra lui e l’attrice, colpita da una sofferenza analoga (la poliomielite del suo unico figlio), nacque un amore cementato dal dolore e dalla confidenza, folle e senza mezzi termini. Furono insieme a Parigi, dove un’accoglienza trionfale li immerse in un’atmosfera di avventura intellettuale a Rossellini molto congeniale. Tra l’altro, diventò amico fraterno di Jean Cocteau e di Jean Renoir. Numerose le scorribande in auto con la Magnani verso sud: il Circeo, Napoli, la costiera amalfitana, dove prenotò un intero borgo sul mare, Furore, per soggiornarvi con lei. Erano luoghi che amava particolarmente e dove girò nel 1948 Il miracolo, un atto d’amore per Anna nel personaggio indimenticabile di una folle che sfiora la santità. Insieme al monologo La voce umana da Cocteau, il film compose un dittico, L’amore, dedicato «all’arte di Anna Magnani».
Da un’idea di Eduardo De Filippo iniziò a girare sulla costiera amalfitana anche La macchina ammazzacattivi (terminato nel 1951): una ‘fantasia’ picaresca, restituzione del paesaggio umano di un piccolo paese e meditazione sulla potenza dell’immagine. Intanto si stava profilando l’opportunità di avere un contratto con produttori statunitensi, ma Rossellini era incerto: «L’Europa sconvolta non si abbandona così facilmente. Essa ci lega a sé con una ricchezza ben più complessa e pesante...» (Giammusso, 2004, p. 119). Aveva già in mente un film sulla Berlino distrutta dalla guerra, per restituire con una radiografia dura e insieme pietosa l’Europa del dopoguerra. Il 1948 fu infatti l’anno di Germania anno zero.
Tra i suoi film quello più secco, diretto, di intensità quasi insostenibile, ambientato in una Berlino spettrale e scheletrica, intorno al dolore di un bambino suicida. Il ragazzino protagonista fu scelto in un circo, e quelle immagini lancinanti furono dedicate «alla memoria di mio figlio Romano».
Intanto con Anna Magnani si alternavano scontri furiosi e precipitose riappacificazioni. Proprio durante le riprese del Miracolo erano arrivati emissari americani e si vociferava della possibilità per Rossellini di girare un film con Ingrid Bergman. Anna tratteneva a stento sospetti e livori. Era arrivata al regista una lettera accorata della diva che si diceva pronta a venire in Italia a lavorare con lui. La fascinazione tra i due fu immediata e di lì a poco Rossellini dette avvio a una storia d’amore appassionata con l’attrice svedese, ansiosa di evadere dalla dorata ‘prigione’ hollywoodiana. Dal ricordo di una ragazza lettone, fuggita da un campo profughi con un soldato siciliano, nacque la prima idea del film che diventò Stromboli: una ragazza alta e bionda in quell’isola di fuoco e di cenere, tra pescatori piccoli e bruni. Dopo un litigio chiarificatore con Anna, Rossellini era partito per Hollywood dove prese accordi per un film dal titolo Terra di Dio (in seguito Dopo l’uragano e, infine, Stromboli, terra di Dio, 1950). La storia tra la diva e il regista fece scandalo e occupò per settimane le prime pagine e le copertine dei giornali. In una Roma ancora piagata dalla guerra, l’arrivo della Bergman a Fiumicino assediata dai fotografi fu un significativo preludio di quella che sarebbe stata di lì a poco la Hollywood sul Tevere e la via Veneto della ‘Dolce vita’. La diva, che era sposata con il medico Peter Lindstrom e madre di una bambina, fu ostracizzata da Hollywood che la definì una «depravata» mentre Rossellini era ritenuto un «cocainomane». Inoltre la Magnani, ferita dal tradimento e decisa a vendicarsi, scatenò quella che la stampa chiamò la «guerra dei vulcani». L’attrice romana convinse il regista William Dieterle a girare contemporaneamente con lei un film derivato da un progetto di Rossellini e scritto dalla sorella Marcella, Vulcano. Sul set ogni sera, come una furia mitologica, Anna scarmigliata si metteva sulla punta di Salina e lanciava anatemi in direzione di Stromboli.
Del film di Rossellini furono approntate due versioni, una italiana e una americana, quest’ultima disconosciuta dal regista, che trovò il tempo, nel turbinio di eventi, di girare Francesco giullare di Dio (1950), la sua personale, scarna, ispirata, visione del Poverello come santo degli ultimi e cantore della natura. Dopo l’annullamento del matrimonio con Marcella, le nozze di Roberto e Ingrid avvennero per procura in Messico mentre i due si scambiavano una solenne promessa nella chiesa della Navicella al Celio. Il viaggio di nozze fu a Capri e ad Amalfi, dove Rossellini terminò le riprese della Macchina ammazzacattivi. Nel 1950, mentre la Bergman scriveva una lettera di spiegazioni alla figlia Pia avuta dal primo matrimonio, iniziarono le doglie e nacque il loro primogenito Robertino. Alla Mostra di Venezia furono presentati insieme i due film del regista (Francesco giullare di Dio e Stromboli, terra di Dio): entrambi restituivano un afflato cosmico, drammatico, panteistico, con l’incontro tra l’uomo e la natura. Intanto la vita con Ingrid, tra un nuovo appartamento lussuoso ai Parioli e la villa a Santa Marinella, scorreva a ritmo vorticoso fra amici, invitati, figli, corse in automobile e corse in banca, contratti con produttori e riunioni con gli sceneggiatori.
In questo periodo Rossellini girò L’invidia, episodio del collettivo I sette peccati capitali, da un racconto di Colette, triangolo tra un pittore, la moglie e una gatta. Iniziò quindi le riprese di un documentario che restò incompiuto su un gruppo di suore svedesi che vanno in soccorso degli alluvionati del Polesine, Santa Brigida, in cui Ingrid era a un tempo attrice e coregista. Il 18 giugno 1952 videro la luce due gemelle, Isotta e Isabella. La vita coniugale appare ben rispecchiata nell’episodio Ingrid di Siamo donne (1953, soggetto e sceneggiatura di Cesare Zavattini), girato negli orti di Santa Marinella in cui era filmata l’umana quotidianità dell’attrice alle prese con una gallina dispettosa.
Ma fu Europa ’51 (1952) il film in cui si espresse tutta l’intensità interpretativa della Bergman e la potenza dello sguardo rosselliniano e che segue e viviseziona la solitudine e il dolore di una borghese sofisticata, inerme di fronte all’esistenza dopo il suicidio del figlio.
La donna scopre le borgate con occhi innocenti e disperati e sceglie di dedicarsi anima e corpo ai diseredati, fino allo stremo, fino a essere ritenuta pazza e rinchiusa in una casa di cura. Il film fu insignito del Leone d’argento a Venezia mentre alla Bergman andò il Nastro d’argento.
Intanto Rossellini trovò il tempo di girare per Totò Dov’è la libertà?, la storia di un ladruncolo rimesso in libertà che preferisce tornare in galera, nauseato dalla società. Un film quasi filosofico e preveggente sul cinismo e la corruzione. Nel frattempo il regista dirigeva al San Carlo l’Otello di Giuseppe Verdi e girava in auto l’Italia con Cesare Zavattini progettando un film dal titolo Italia mia.
Poco dopo riprese a lavorare con Ingrid per un progetto internazionale che si rivelò una delle sue opere più belle e anticipatorie, tornando a quei paesaggi napoletani che avevano fatto da sfondo al suo amore per la Magnani e poi per la Bergman: Viaggio in Italia (1954). Il film venne ancora una volta inventato giorno per giorno e ogni tanto interrotto per permettere a Rossellini di fare pesca subacquea. Ma l’attore internazionale scelto per il ruolo del marito di una coppia in crisi, George Sanders, insieme alla Bergman, garantiva la produzione. Sanders, in piena crisi con la moglie Zsa Zsa Gabor, era spesso preda di momenti di grande sconforto, che erano però funzionali al film, e l’accorata malinconia disorientata della Bergman le apparteneva profondamente. Fu per Rossellini e l’attrice come ripercorrere il cammino del loro amore nascente e insieme adombrare la crisi incipiente tra loro.
Girò poi, sullo sfondo delle grotte-rifugio di sfollati a Mergellina (che aveva filmato in Paisà), Napoli 1943, episodio di Amori di mezzo secolo (1954), racconto di un amore sbocciato tra un soldato e una giovane comparsa del San Carlo, in un rifugio durante un bombardamento, che causa la morte di entrambi. A Napoli il San Carlo gli commissionò quindi la regia dell’oratorio Giovanna d’Arco al rogo (basato sul libretto di Paul Claudel con la musica di Arthur Honegger), con la Bergman, da cui ricavò un film tra i suoi più sperimentali.
Le scorribande europee in Ferrari si intensificarono e, forse pensando a un nuovo film, si iscrisse alla Mille miglia. Era frattanto sempre più spesso a Parigi, dove trovò nuovi amici che lo idolatravano e che costruirono sulla sua lezione un nuovo cinema, ossia i giovani critici dei Cahiers du cinéma, i futuri registi della Nouvelle vague: François Truffaut, Jacques Rivette, Jean-Luc Godard. Girò a Monaco di Baviera, nel 1954, La paura, dal racconto di Stefan Zweig: ancora la Bergman, ancora una donna preda dell’angoscia, il cui marito trama alle sue spalle e la ricatta. Ci furono due versioni, una inglese e una tedesca, e, dopo un disastro al botteghino, un rimontaggio con titolo diverso: Non credo più all’amore, quasi allusivo alla crisi tra i due. Fu l’ultimo film con la Bergman.
Si stava preparando l’ennesima svolta nella vita di Rossellini. Dimenticato dalla critica, trascurato dal pubblico, interdetto dai produttori in patria, tanto che pensò di ritirarsi, ma nello stesso tempo in Francia consacrato come un maestro: da una lunga intervista con Truffaut ed Éric Rohmer nei Cahiers du cinéma (1954), da una Lettre sur Rossellini di Rivette (1955) e da una Difesa di Rossellini di André Bazin. I nuovi cineasti francesi assimilarono il suo insegnamento: liberarsi dalle strutture industriali, fare film a bassissimo costo, inventando sul set uno stile. Principi esplicitati dal regista in una lettera aperta al sottosegretario allo Spettacolo pubblicata in L’Espresso (3 febbraio 1956; poi in Giammusso, 2004, p. 225). Marie-Claire Solleville e altri critici dei Cahiers furono suoi compagni in molte corse in auto da Parigi a Roma, in un turbinio di conversazioni intellettuali e di scorribande, tra cui un avventuroso viaggio in Spagna con Truffaut per preparare una Carmen.
Cominciò intanto un suo progressivo interesse per l’India. A Londra, nel 1956, incontrò il primo ministro indiano Javaharlal Nehru da cui ricevette l’invito a girare un film nel «Paese-elefante, che si inginocchia nel limo della vita e della morte» (R. Rossellini, Quasi una autobiografia, 1987, p. 125). Partì così in quello stesso anno per Bombay in aereo, con il minimo indispensabile di mezzi tecnici e con cento chili di spaghetti. In India girò quattro documentari: su Bombay, su un villaggio di pescatori, su un sobborgo industriale, sul viaggio con Nehru. Fu qui che conobbe Sonali Das Gupta, moglie di un giovane produttore, che collaborò con lui e divenne il suo nuovo amore. Riprese le sue abitudini di lavoro: gusto dell’avventura improvvisata, assenze dal set lasciando l’operatore nella giungla, peripezie per trovare il denaro necessario a proseguire il film. La relazione con Sonali suscitò scalpore e arrivò il divieto governativo di proseguire le riprese. La giovane rimase incinta e il 29 dicembre 1957 nacque Raffaella. Con un rapido viaggio a Parigi Rossellini avviò le pratiche per il divorzio dalla Bergman.
L’India aveva inaugurato una nuova fase di vita e di lavoro: si interessò di linguistica, studiò il sanscrito, scoprì la politica economica e l’ecologia. Il materiale indiano era ingente e cominciò un montaggio interminabile da cui scaturirono una serie TV in dieci puntate, L’India vista da Rossellini (1959), e un film, India, Matri Bhumi (1959), che trionfò a Cannes. Un caleidoscopio di vita brulicante in cui l’intensità dello sguardo e del sentimento trasmesso raggiunge immediatezza poetica. Rossellini ne uscì spiritualmente rigenerato.
Con Sonali si ritirò ad abitare in una villa sull’Appia Antica e il lavoro ricominciò a ingranare, in un’oasi di pace lontana finalmente dagli scandali. Volò quindi in Brasile per girare un film intitolato Geografia della fame, dal libro di Josuè de Castro, che non si concretizzò. Carlo Ponti gli propose La ciociara dal romanzo di Alberto Moravia ma lui lasciò tutto. Lo avrebbe poi girato Vittorio De Sica, per il quale nutriva profonda amicizia e sentiva grande affinità e che chiamò come protagonista del suo nuovo film, Il generale Della Rovere (1959), da un episodio resistenziale raccontatogli dal vecchio sodale Indro Montanelli. Il film vinse il Leone d’oro a Venezia nel 1959 ex aequo con La grande guerra di Mario Monicelli.
In questi anni Rossellini sviluppò la sua curiosità tecnica, grazie anche alla doppia passione per cinema e scienza, che divenne un’ossessione negli ultimi tempi. Sperimentò per la prima volta il Pancinor, obiettivo a fuoco variabile, che gli permise di perlustrare la scena in pianosequenza senza montare carrelli, perseguendo un’immediatezza dell’immagine che anticipava le tecnologie digitali contemporanee. Con questa nuova attitudine volle ritornare sui luoghi del Neorealismo e sui temi resistenziali girando Era notte a Roma (1960) e precisando l’idea che il Neorealismo non fosse uno stile ma un’etica, e forse anche un’epica: l’epica del quotidiano. Fu su quest’idea che basò Viva l’Italia! (1961), ancora un film-viaggio con il quale volle portare la Storia vicino agli uomini, inscritta nelle cose e nei paesaggi, qui quelli amatissimi della Sicilia. Il film fu come una scampagnata ‘eroica’ e proprio sotto questa luce veniva vista l’impresa dei Mille.
Con il produttore Morris Ergas, che volle ‘regalare’ un film alla sua compagna Sandra Milo, si imbarcò in una nuova impresa: un film che raccontasse una ‘cronaca italiana’ di Stendhal, Vanina Vanini (1961). Ma fu un’impresa sfortunata: il film fu tagliato e rimaneggiato da Ergas e disconosciuto da Rossellini. L’interesse per la restituzione storica lo spinse poi a girare un documentario per il centenario dell’Unità d’Italia, Torino nei cento anni (1961), e a supervisionare un lungometraggio di Pasquale Prunas su Benito Mussolini. Nel 1961 tornò al teatro lirico per un melodramma del fratello Renzo, compositore e critico musicale, tratto da Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, da cui avrebbe voluto trarre un film. A Spoleto nel 1962 diresse I carabinieri di Beniamino Ioppolo e anche qui progettò un film che poi lasciò dirigere a Godard. Mentre un ulteriore film da un testo teatrale fu Anima nera (1962), dalla commedia di Giuseppe Patroni Griffi, centrato sul rapporto tra un gruppo di donne e un ambiguo avventuriero, seduttore senza scrupoli, ma pervaso da una profonda sete di vivere a tutti costi e di ingannare la vita, nel quale per alcuni versi si riconosceva. Intanto girò un corto ‘metacinematografico’, Illibatezza, episodio di Ro.Go.Pa.G. Laviamoci il cervello (1963), storia di una hostess che manda filmini dal mondo e che prova gusto nel ‘fingere’ per mettere in scacco gli uomini.
In questo periodo maturò una sorta di addio al cinema, e cominciò a pensare alla potenzialità del mezzo televisivo. Aveva voluto ‘liberare’ il cinema dalle catene della produzione oppressiva, combattendo lo strapotere dei produttori, delle mode indotte e affidandosi alla creatività, scoprendo nuove vie. Perciò fu più volte padre, ma lo fu come umile fratello: prima dei giovani usciti dalla guerra e dal fascismo e attratti dal cinema, poi dei ragazzi terribili della Nouvelle vague e infine dei ‘ragazzi di celluloide’ del Centro sperimentale di cinematografia, di cui fu commissario dal 1970. Rossellini ebbe la forza di ripudiare il cinema negli anni più floridi del mercato cinematografico italiano, e per giunta in un momento in cui i giovani erano assetati di un cinema diverso e indipendente, realizzato, come aveva fatto lui da sempre, ‘per le strade’ e con pochi mezzi. Volle adoperare il mestiere e l’esperienza di anni per passare ad altro, per ‘superare’ il cinema. Anche in questo fu profeta e preconizzò un cinema ‘oltre il cinema’. Lo trovò nel mezzo popolare per eccellenza che stava soppiantando il mito-cinema: la televisione. Fu l’utopia di dare vita a un’istruzione permanente attraverso l’immagine, di trovare un linguaggio più diretto, del progetto di un’enciclopedia audiovisiva. Si richiamò a Comenio e alla sua profezia di una «civiltà dell’immagine», di una pedagogia del visivo. Con la società 22 dicembre (fondata da Tullio Kezich ed Ermanno Olmi), con l’Italsider e la RAI produsse L’età del ferro, di cui fu sua la supervisione mentre la regia era affidata al figlio Renzo. Pensò a una struttura a episodi emblematici, all’uso del repertorio mescolato a scene recitate e a una serie di citazioni dai suoi film. Mentre preparava la seconda parte del progetto enciclopedico, La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza, girò per la TV francese nel 1966 uno dei suoi capolavori, La prise de pouvoir par Louis XIV.
La sua perizia tecnica e la sua inventiva filmica gli permisero di girare in ventiquattro giorni un film di quasi due ore, fastoso e minuzioso, che diede l’impressione di una ‘diretta televisiva’ dalla reggia del Re Sole. Il film fece in tempo ad arrivare fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia.
Intanto la lavorazione della Lotta fu interrotta dalla guerra del Sinai e poi completata in parte in Sicilia, dove Rossellini aveva girato nel frattempo Idea di un’isola. Fondata una sua casa di produzione, Orizzonte 2000, portò a compimento La lotta: dodici puntate trasmesse nel 1971. Nel 1968, intanto, aveva girato in Tunisia le cinque puntate degli Atti degli apostoli. Prese avvio la sua idea di televisione didattica, anche qui inaugurando anzitempo una forma di serialità narrativa che si affermò solo negli anni Duemila. Fu la serie dei ritratti storici, mosaico dell’evoluzione del sapere occidentale: Socrate (1970), Blaise Pascal (1971), Agostino d’Ippona (1972), L’età di Cosimo de’ Medici (1972), Cartesius (1973). Rossellini vedeva la «storia in atto» riflessa dalla rivoluzione culturale del maggio del 1968, da lui vissuto a Parigi, dove andò a occupare l’Odéon con Jean-Louis Barrault e la Sorbona con il figlio. Scrisse una pagina a sostegno del Maggio francese in Paese sera. Il giovane Renzino, travolto dall’impegno politico terzomondista, trovava un complice nel padre ultrasessantenne. Insieme andarono in Cile a incontrare Salvador Allende nel 1971, per una lunga intervista, coadiuvati da Emidio Greco.
Cominciò quindi il suo lavoro di commissario al Centro sperimentale di cinematografia conducendo un esperimento di autogestione, abbattendo le sezioni separate, formando gruppi di lavoro di studenti. Mentre, circondato dai figli, vedeva nel 1969 lo sbarco sulla Luna, si confermò nella sua utopia delle nozze tra immagine e scienza. In questi anni parlava sempre più spesso di biologia e astronomia. Volò così a Houston a toccare con mano i sassi lunari e dove, presso la Rice University, cominciò a dare lezioni sulle nuove idee di cinema e progettò la creazione di un Media Center. Dall’Europa agli Stati Uniti, un instancabile Rossellini si dedicò alla formazione dei giovani e a filmati che esplicitassero l’incontro tra il cinema e il progresso umano: all’Université de Nanterre con Enrico Fulchignoni, alla Yale University e alla New York School of arts. Voleva vedere da vicino la rivoluzione scientifica in corso.
Lavorò a un documentario, Rice University (1971), poi montato da Beppe Cino, con cui approntò anche le due ore di The world population presentato alla Conferenza sulla popolazione mondiale di Bucarest del 1974. Immaginò quindi un film su microcosmo e macrocosmo, dalle particelle alle stelle. Avrebbe voluto zoomare con un congegno di sua invenzione dall’interno dell’atomo alle dimensioni umane e da qui alle galassie. Filmò poi l’inaugurazione della Rothko Chapel e prese parte alla conferenza internazionale Human rights/ human reality (1973).
Nel settembre del 1973 sovrintese ai funerali della Magnani, che volle seppellire nella sua cappella di famiglia. Al capezzale del grande amore della sua vita conobbe Silvia d’Amico, figlia di Suso Cecchi d’Amico, illustre sceneggiatrice e grande amica di Anna. Nacque un altro amore, il suo ultimo. Silvia era allegra, vitale, colta, intraprendente. Partirono insieme per New York e lui si separò dalla moglie indiana. Con Silvia scrisse i suoi due ultimi film: un ritorno al cinema per la sala, che somigliò a un congedo.
La sua visione della ‘nascita di una nazione’, il primo, attraverso la figura di Alcide De Gasperi: Anno Uno. Il secondo fu il suo contributo alla più grande figura dell’umanità occidentale, Gesù Cristo, immerso nella luce della storia e insieme nella semplicità del mito: «Vorrei proprio riuscire a vederlo con gli occhi dei giovani d’oggi [...] una immagine [...] ricondotta all’innocenza totale» (G.L. Rondi, Roberto Rossellini, in Id., 7 domande a 49 registi, Torino 1975, intervista del 5 novembre 1974; poi in Giammusso, 2004, pp. 323 s.). Non fu fatta pronunciare a Gesù una sola parola che non fosse nei Vangeli e Cristo fu laico e non compiva miracoli. Maria, testimone della vita del figlio, restava eternamente giovane, e gli apostoli erano una brigata di amici contestatori.
Negli ultimi anni fu presidente della giuria a Cannes dove consegnò la Palma d’oro ai fratelli Paolo e Vittorio Taviani e al loro Padre padrone (1977), suscitando molte polemiche. Fece in tempo a realizzare due brevi omaggi all’eternità dell’arte: Beaubourg e Concerto per Michelangelo (entrambi 1977). Alla sua scomparsa stava lavorando a numerosi progetti con Silvia, con cui aveva parlato al telefono poco prima di accasciarsi: una biografia di Karl Marx, un film su Habib Bourghiba, emblema del riscatto coloniale, un progetto, ancora una volta preveggente, sull’islam, e, titolo emblematico di una vita, un film chiamato Lavorare per l’umanità.
Morì a Roma il 3 giugno 1977.
I fiori di tutte le sue donne e degli amici accolsero la salma alla Casa della cultura. Nella chiesa di S. Carlo ai Catinari fu recitata la messa funebre, senza bara per sua espressa volontà. Diede disposizioni di essere cremato, come si fa in India. L’immagine che avrebbe aperto il Marx resta emblematica: lo sguardo di un neonato al cielo notturno pieno di stelle, e poi una cometa che passa sulla testa dei viaggiatori del battello che va da Treviri a Bonn. «Dobbiamo avere sempre presente la testa della cometa!», diceva ai suoi, a indicare la Conoscenza. La sua utopia concreta e realizzata.
Fonti e Bibl.: R. R.: il cinema, la televisione, la storia, la critica, a cura di E. Bruno, Sanremo 1980; Roberto Rossellini, Quasi un’autobiografia, a cura di S. Roncoroni, Milano 1987; Rosselliniana, a cura di A. Aprà, Roma 1987; Renzo Rossellini, Chat room R. R., Roma 2002 (con O. Contenti); M. Giammusso, Vita di R., Roma 2004; A. Aprà, In viaggio con R., Alessandria 2006; Isabella Rossellini, Nel nome del padre, della figlia e degli spiriti santi, Milano 2006.