MALATESTA (de Malatestis), Roberto detto Roberto il Magnifico
Figlio naturale di Sigismondo Pandolfo, signore di Rimini, e della nobildonna fanese Vannetta di Galeotto Toschi, nacque a Fano tra il 1441 e il 1442.
La condizione di illegittimità fu sanata, nell'agosto 1450, da papa Niccolò V tramite breve pontificio. La regolarizzazione era determinante per garantire una pacifica continuità dinastica, in previsione della quale Sigismondo Pandolfo non tardò a investire il figlio, ancora bambino, di gravose incombenze di governo. In assenza del padre il M., nel 1451, fu nominato luogotenente di Fano e, con ogni probabilità, rivestì la medesima carica a Rimini.
L'effettivo esercizio dei poteri, trattandosi di abilitazioni formali rivolte anche ai fratellastri Giovanni e Sallustio, era naturalmente delegato ad altri, ma è indubbio che il M. manifestò in giovane età una spiccata propensione per l'attività di governo.
Nel 1453 il progetto di nozze del M. con Eleonora d'Aragona, in ossequio a un'oculata politica matrimoniale, fallirono: Sigismondo Pandolfo, capitano generale dei Fiorentini, mirava a un'intesa strategica con la Serenissima, che avrebbe consentito all'accordo solo se i Malatesta, troncata l'alleanza con Firenze, avessero stretto un'intesa con il re di Napoli. In tale contesto, l'unione del M. con una figlia di Alfonso d'Aragona sarebbe stata determinante, ma i rinsaldati legami con la Repubblica fiorentina invalidarono infine il piano nuziale.
A breve distanza temporale fallì anche un altro progetto matrimoniale maturato all'interno della corte aragonese. Il M., inviato a Napoli nel febbraio del 1458 per le trattative di pace con Alfonso d'Aragona, abbozzò un nuovo accordo che lo avrebbe unito a una nipote di Lucrezia d'Alagno, nobildonna napoletana favorita del re. Durante la permanenza del M. a Napoli, tuttavia, Sigismondo Pandolfo si macchiò di un delitto ai danni di Fiuzo Spina, uomo d'armi al seguito di Iacopo Piccinino, strenuo nemico dei Malatesta e protetto dell'Aragonese. Il fatto scatenò l'ira dei Napoletani, contribuendo all'insuccesso dei progetti nuziali e della stessa ambasceria del M., congedato in malo modo.
L'attività amministrativa e le rappresentanze politiche non potevano prescindere da un parallelo tirocinio nell'arte della guerra, condotto con assiduità dal M. al fianco del padre. L'effettivo debutto militare del M. risale al 1460 quando, alla testa di 1200 cavalli e 500 fanti, conquistò in fretta la fama di valoroso condottiero combattendo con gli Anconetani in guerra contro Jesi. L'intervento del pontefice ricucì la spaccatura tra le città marchigiane e, conclusa la pace, il M., carico di onori e gloria, fece ritorno a Rimini. Il promettente esordio indusse Sigismondo Pandolfo a caricare il figlio di nuove responsabilità nella lotta intrapresa contro il pontefice Pio II. Nel 1461, pertanto, il M. fu inviato nella Marca con un seguito di circa 1500 uomini per contrastare le milizie pontificie al comando di Federico da Montefeltro. Lo scontro decisivo si svolse nei pressi di Castelleone di Suasa (2 luglio 1461) dove i contingenti papali, benché numericamente superiori, furono sbaragliati dagli eserciti riuniti di Sigismondo Pandolfo e del Malatesta. Pio II scomunicò prontamente Sigismondo Pandolfo sancendo la decadenza del vicariato e sollevando, di conseguenza, i sudditi da obblighi di obbedienza. Lo stato di isolamento in cui operavano i Malatesta fu aggravato dalla rovinosa disfatta subita sul fiume Cesano il 13 ag. 1462. Sigismondo Pandolfo fece invano ricorso ai confederati angioini, mentre il M., poco più che ventenne, rimase a presidiare Fano e Senigallia. Nel dicembre successivo il M. aveva già riconquistato importanti posizioni, riuscendo persino a sventare una congiura mirante a consegnare Fano nelle mani di Federico da Montefeltro. Questi, tuttavia, non abbandonò l'impresa e nel giugno 1463 pose la città sotto assedio. A fine estate Sigismondo Pandolfo ruppe il blocco, rifornendo di uomini e provviste il figlio ormai incapace di protrarre oltre la resistenza. Il M., rinfrancato dagli aiuti, passò al contrattacco, ma la schiacciante superiorità del nemico lo costrinse alla resa nel settembre. Le porte della città furono spalancate e il M. si ritirò con la madre e le sorelle nella rocca, luogo deputato a ospitare le trattative con Federico da Montefeltro. Ottenuta l'incolumità per coloro che avevano partecipato alla difesa di Fano, il M. si rimise nelle mani del vincitore che accettò di scortare personalmente tutta la famiglia Malatesta sino al porto. La pace, ratificata l'8 nov. 1463 con il cardinale legato Niccolò Forteguerri, sanciva il trasferimento di tutte le terre malatestiane, fatta eccezione per Rimini e il relativo contado, al dominio diretto della S. Sede.
Durante la militanza di Sigismondo Pandolfo in Morea nella crociata contro i Turchi, il M. si pose al servizio del duca di Milano Francesco Sforza, ma lo zio Domenico Malatesta, detto Malatesta Novello, prossimo alla morte, lo chiamò al proprio capezzale, intenzionato a trasferire sul nipote la cospicua eredità dinastica. Il M. accettò l'invito, forte del sostegno di Milano e Firenze che non gradivano le mire espansionistiche del pontefice sulla Romagna. Quando, il 20 nov. 1465, Malatesta Novello morì, il M. prese subito possesso di Cesena, rivendicata al contempo da Federico da Montefeltro, che assediò la città. Il M. presidiava la rocca, risoluto a patteggiare una resa vantaggiosa. In cambio della consegna di Cesena e Bertinoro, il M. ottenne un piccolo dominio personale che, estendendosi tra i fiumi Ronco e Bidente, comprendeva Meldola, Sarsina, Dogara, Turcino, Montevecchio, le Caminate, Cuglianello, Ranchio, Perticara, Polenta, Turrito, Gaibana, Sapigno, Casalbono.
Federico, a dispetto delle direttive pontificie, riusciva in tal modo a creare uno Stato cuscinetto in grado di fermare l'avanzata territoriale della Chiesa. Il favore del pontefice si diresse, quindi, sul M., che fu inviato a Pontecorvo a sorvegliare i confini dello Stato ecclesiastico. Frattanto, nell'aprile 1466, aveva fatto ritorno a Rimini Sigismondo Pandolfo che, su istigazione della moglie Isotta degli Atti decise di estromettere dalla successione il M. in favore di Sallustio figlio adottivo di lei.
Gli insuccessi riportati dal M. a Fano e a Cesena giustificavano ufficialmente il provvedimento che, peraltro, cozzava palesemente con la popolarità acquisita dal M., ormai noto a tutti come il Magnifico. Secondo le volontà testamentarie di Sigismondo Pandolfo, redatte nell'aprile 1466, Isotta e Sallustio, eredi universali, avrebbero assunto il comando della signoria relegando il M. a uno stato di subalternità.
Alla morte di Sigismondo Pandolfo, sopraggiunta il 9 ott. 1468, Isotta e Sallustio si affrettarono a chiedere la protezione di Venezia, che inviò nella città romagnola il podestà Giovanni Emo scortato da un presidio di 200 fanti. Il rischio che Rimini divenisse un protettorato veneziano allarmò Paolo II che, convocato il M. a Roma, gli ordinò di recarsi in quella città e reclamare la legittima prelazione sul diritto di successione, rimettendo infine la signoria nelle mani della Chiesa. Nella speranza di assicurarsi in tal modo il vicariato su Rimini, il M., fidando nell'appoggio di alcuni maggiorenti riminesi - tra i quali Alberto Petrucci da Mondavio e Matteo Belmonti -, il 20 ott. 1468 riuscì a introdursi furtivamente in città. Accolto calorosamente, il M. conseguì il sostegno necessario per rompere il compromesso con il pontefice e prendere possesso della città e, al fine di sventare il rischio di spinte centrifughe, coinvolse nell'attività di governo la stessa Isotta e il fratellastro Sallustio, risollevando le sorti dello Stato.
Le dissestate finanze richiesero un intervento risolutivo attraverso un editto di liberalizzazione del commercio (1468) che, incentivando l'apertura di nuove botteghe e la creazione di mercati, assicurò il rilancio dell'economia locale. L'iniziativa era, inoltre, tesa a colpire la Serenissima, la cui azione di controllo sul territorio fu drasticamente ridimensionata con il licenziamento del presidio veneziano di stanza a Rimini.
Nel panorama politico italiano il M. cercò quindi sostenitori e alleati. Utili si rivelarono, in tale frangente, i passati rapporti di collaborazione intercorsi con il Ducato di Milano; il sodalizio con Galeazzo Maria Sforza, alla guida dello Stato dal 1446, fu sancito con l'ingresso del M. nella lega antipontificia patrocinata da Milano, Firenze, Urbino e il Regno di Napoli. A dispetto dei burrascosi precedenti, il M. conquistò persino il favore di Federico da Montefeltro, che esercitò una forte pressione sui confederati affinché assoldassero il M. e Sallustio al servizio della lega. Il 4 febbr. 1469 furono ratificati i capitoli della condotta, che avrebbero dovuto garantire al casato malatestiano una solida rete di aiuti a difesa e salvaguardia della signoria: incombeva la minaccia delle milizie pontificie che, nel marzo 1469, alla testa di Alessandro Sforza e Napoleone Orsini si introdussero nel territorio riminese. I due condottieri pontifici riuscirono a occupare Borgo San Giuliano, spingendosi fin sotto le mura di Rimini, che fu cinta d'assedio. Il M. oppose all'offensiva una ferma resistenza, conseguendo insperati risultati, vista l'inferiorità numerica delle proprie truppe. Federico da Montefeltro inviò corpi di rincalzo e fece anche pressioni sui collegati che, timorosi di un'aperta rottura nelle relazioni con il pontefice, indugiavano a fornire assistenza. Solo l'arrivo di truppe aragonesi, in agosto, capeggiate da Alfonso duca di Calabria, costrinse Alessandro Sforza a levare l'assedio alla città: il 30 agosto infine, nei pressi di Vergiano, le forze della lega ebbero la meglio e costrinsero alla rotta i pontifici. La clamorosa vittoria assicurò al M. la riconquista dei domini paterni - fatta eccezione per Verucchio, Santarcangelo, Montefiore e Savignano - e lo illuse di poter ricostituire gli antichi confini del vicariato con l'annessione di Fano. L'azione armata, tuttavia, cedette il passo alla mediazione e, su iniziativa di Napoli e Firenze, nel luglio 1470 il M. e il pontefice predisposero un accordo in base al quale Rimini veniva concessa al M. e ai suoi eredi, alla sola condizione che Fano fosse resa alla Chiesa. La morte di Paolo II, nel luglio 1471, spinse nuovamente il M., ancora privo di una regolare investitura, all'assalto, ma dovette piegarsi al volere del Collegio cardinalizio e di re Ferdinando, che gli imposero l'immediata restituzione di tutti i territori.
Valore e prestigio avevano, dunque, consacrato il M. al vertice del casato malatestiano che, nel frattempo, aveva perduto esponenti di rilievo a causa di una serie di morti sospette.
Nell'agosto 1470 Sallustio fu ritrovato cadavere in un vicolo cittadino; il M. incolpò Niccolò e Giovanni Marcheselli, contrari alla relazione clandestina che Sallustio aveva allacciato con una loro sorella, ma circolarono anche voci insistenti che indicavano proprio il M. come il mandante dell'omicidio. Poco dopo scomparve dalla scena politica anche Valerio, fratellastro del M., ucciso da alcuni briganti nei pressi di Longiano. L'episodio fu subito messo in relazione con il coinvolgimento, peraltro mai provato, della vittima in un complotto teso a rovesciare la signoria e a consegnare il vicariato alla Chiesa. Da ultima scomparve Isotta che, ritiratasi da tempo a vita privata, fu colpita da una febbre acuta, a parere di qualcuno proditoriamente aiutata dal veleno.
Tramontata sul finire del 1470 con la morte dei fratellastri l'epoca del governo consortile, il M. rimaneva l'unico e legittimo padrone della signoria; le promesse di matrimonio tra il M. ed Elisabetta, figlia di Federico da Montefeltro, stipulate nell'aprile 1471, sancivano un solido legame tra le due casate, un tempo acerrime nemiche. Intensi e produttivi furono anche i rapporti con Ferdinando d'Aragona che, richiesta la presenza del M. a Napoli, lo creò cavaliere per compensarlo degli indiscussi meriti militari, affidandogli il comando delle milizie. Spalleggiato da Aragonesi e Feltreschi, il M., approfittando della transizione sul soglio pontificio, in seguito alla morte di Paolo II, riuscì a sanare la frattura con il Papato. Il 16 sett. 1471 il nuovo pontefice, Sisto IV, liberò Rimini dall'interdetto e prosciolse quanti erano incorsi nelle pene per disobbedienza alla S. Sede. In un clima di diffuso entusiasmo si giunse, nel settembre 1473, alla formale riconciliazione che per il casato malatestiano implicò, da un lato, la restituzione di Fano e, dall'altro, il vicariato su Rimini sino alla terza generazione. Nel dicembre 1474, inoltre, l'adesione del pontefice alla lega tra Napoli e Firenze corroborò la rinnovata intesa con il M. che, secondo alcune fonti, fu coinvolto nella campagna promossa da Sisto IV allo scopo di espellere Niccolò Vitelli da Città di Castello.
La felice congiuntura consentì al M. di conseguire ottimi risultati sui versanti politico e militare. Il 25 giugno 1475 si celebrarono fastosamente le nozze del M. con Elisabetta da Montefeltro, a lungo differite per la giovane età della sposa.
I festeggiamenti, protratti per diversi giorni, furono rinnovati il 5 luglio seguente con la nascita di Pandolfo, figlio del M. e dell'amante Elisabetta Aldobrandini. Incurante degli obblighi coniugali, il M. non aveva interrotto la relazione con E. Aldobrandini, nella cui casa si formò, di fatto, una corte parallela a quella della legittima consorte. La preferenza apertamente accordata dal M. all'amante era destinata a riversarsi sui figli: mentre Elisabetta da Montefeltro partorì una sola figlia femmina di nome Battista, morta giovane, E. Aldobrandini diede alla luce un secondo figlio maschio, Carlo, assicurando al casato l'imprescindibile successione dinastica. Nella vita del M. è documentata un'altra concubina, anche lei di nome Elisabetta, discendente dalla nobile famiglia di Antonio degli Atti. Durante la sua relazione con il M. le fu ucciso il primo marito Nicola Adimari, mentre il secondo consorte, Adimaro Adimari, subì la prigione e l'esilio.
Rafforzato il sodalizio con i Montefeltro, il M. tornò a coltivare gli strategici rapporti con la S. Sede e, nel settembre 1476, fu nuovamente assoldato dal pontefice. In veste di capitano delle milizie pontificie impugnò le armi contro il cognato Carlo Fortebracci, marito della sorellastra Margherita, reo di aver palesato ambiziose mire espansionistiche. La militanza al servizio della Chiesa portò, in seguito, il M. nella Toscana scossa, nella primavera del 1478, dall'assassinio di Giuliano de' Medici, vittima della congiura dei Pazzi. Ritardi nel pagamento del soldo e degli approvvigionamenti alle truppe, tuttavia, spinsero il M. a rientrare anticipatamente a Rimini, rescindendo gli impegni presi con il pontefice. I rapporti con la S. Sede, d'altra parte, avevano già accusato una crisi con la nascita del vasto dominio signorile tra Imola e Faenza del quale era stato investito Girolamo Riario, nipote di Sisto IV. Il M. passò, dunque, agli stipendi di Firenze, promotrice, con Venezia e Milano, di un'alleanza finalizzata a contrastare il pontefice e il re di Napoli. Nominato capitano generale della lega, il M., nel giugno 1479, riscosse una clamorosa vittoria a Magione, in prossimità di Perugia, mettendo in rotta l'esercito avversario. La pace siglata nella primavera del 1480 grazie alla mediazione della Serenissima, sollevò Rimini dall'interdetto e dalla scomunica a cui era stata condannata, in tempo di guerra, dal pontefice.
La fama di invincibilità valse al M. un redditizio ingaggio conferitogli da Venezia, che lo nominò capitano dell'esercito con uno stipendio di 30.000 fiorini in tempo di pace e 60.000 in tempo di guerra. Congedatosi dalla condotta fiorentina, il M., nel febbraio del 1481, si presentò al Senato della Repubblica che lo accolse con ogni riguardo, ascrivendolo alla ristretta cerchia dei nobili veneti, onore trasmissibile a tutti i discendenti legittimi. Ligio agli ordini della Serenissima, il M. si portò nel Forlivese in aiuto agli Ordelaffi, ribellatisi alla Chiesa. La campagna, tuttavia, subì un brusco arresto per il capovolgimento delle alleanze.
Venezia e Sisto IV, infatti, deposero le ostilità per stringere una coalizione in previsione di un conflitto che li contrapponeva a Ferrara, Napoli, Milano, Firenze e Bologna. Mentre Federico da Montefeltro espletava il ruolo di capitano supremo della coalizione antipontificia, il M., supportato da Girolamo Riario, gonfaloniere della Chiesa, fu eletto generalissimo dei Veneziani. Inviato alla riconquista di Città di Castello, caduta nuovamente in mano a Niccolò Vitelli, il M. fu raggiunto da un missiva del papa che lo convocava con urgenza a Roma, minacciata dalle truppe di Alfonso d'Aragona, duca di Calabria. Il M. accorse prontamente e, il 23 luglio 1482, entrò trionfalmente nella città per poi lasciarla, dopo avere conferito con papa Sisto IV, il 15 agosto, irrobustito da 50 squadre di cavalli e 12.000 fanti. Mentre il M. recuperava postazioni conquistando castelli e saccheggiando campagne, Alfonso di Calabria aveva stabilito il proprio accampamento a Campomorto, zona malsana delle paludi pontine. Il M., facendo mostra di una formidabile abilità tattica, il 21 agosto sferrò un duplice attacco, cogliendo di sorpresa le truppe nemiche. La battaglia si risolse con la vittoria dei pontifici che costrinsero lo stesso Alfonso a cercare la salvezza via mare.
All'apice della gloria il M. si ammalò, colpito con ogni probabilità da febbre malarica; trasportato a Roma, ricevette l'estrema unzione dalle mani del pontefice. Sul letto di morte dettò a Raimondo Malatesta le proprie volontà testamentarie affidando al figlio Pandolfo la signoria, affiancato dalla madre e da un consiglio di tutela. Il M. morì a Roma il 10 sett. 1482 e fu tumulato in S. Pietro, onorato da un monumento funebre che ben si confaceva all'epiteto di Magnifico.
Elisabetta Aldobrandini ottenne, dunque, per sé e per i figli l'attesa legittimazione pontificia, mentre Elisabetta da Montefeltro, tornata in Urbino, si rinchiuse in convento.
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