ROSSI, Roberto
de’. – Nacque a Firenze intorno al 1355 da Francesco di Dolcino.
Ancora giovane si dotò di una buona preparazione classica frequentando le dispute erudite che si tenevano nel convento di S. Spirito, presso la cella del frate agostiniano Luigi Marsili. Discendeva da una delle più influenti famiglie fiorentine che, in seguito all’emanazione degli Ordinamenti di Giustizia del 1293, era stata inserita tra i magnati e dunque esclusa dalla Signoria (Martines, 1963, p. 108); ma ciò non inibiva i Rossi dagli uffici cittadini ordinari. Pertanto a partire dal 1° giugno 1385 Rossi ricevette il suo primo ufficio pubblico, la carica (semestrale) di podestà del Chianti, nell’esercizio della quale fu affiancato da due notai e quattro collaboratori. Al ritorno, il 1° dicembre dello stesso anno entrò nella cancelleria dei Dieci di libertà, presso la quale restò in carica fino al 31 marzo 1386. Il 1° maggio 1387 fu nominato per la prima volta nel Consiglio generale del Comune e una seconda volta vi entrò il 1° gennaio 1389.
Tra il 1390 e il 1391, probabilmente per iniziativa personale priva di risvolti pubblici, si recò a Venezia per incontrare i dotti bizantini Manuele Crisolora e Demetrio Cidone, giunti in Italia per una missione diplomatica. A Crisolora, Rossi chiese di essere avviato alla conoscenza della lingua greca. Benché limitato nel tempo, il viaggio di Rossi creò le premesse per quell’iniziativa diplomatica e culturale che, pochi anni dopo, sotto la spinta del cancelliere della Repubblica Coluccio Salutati, condusse Crisolora a Firenze per insegnare greco presso lo Studio.
Intanto, dal 1° aprile al 31 luglio del 1392, Rossi fece parte degli Ufficiali della Grascia. Nemmeno due settimane dopo aver terminato questo incarico, il 13 agosto 1392, fu nominato podestà di Montevarchi e il 1° settembre 1393 entrò per l’ultima volta nel Consiglio generale del Comune (Martines, 1963, p. 157). Ma dopo tale data non si hanno più notizie di cariche pubbliche, e ciò può dare corpo all’idea che egli si sia allontanato volontariamente dalla vita politica per dedicarsi agli studi.
Come ricorda Giannozzo Manetti nel suo Adversus Iudaeos et Gentes, Rossi non di rado sostenne che avere incarichi pubblici fosse un’occupazione di livello inferiore (p. 108) e, d’altra parte, dai registri delle Prestanze egli risulta benestante: possedeva beni fondiari dai quali traeva una rendita tale da non essere obbligato a dividere il suo tempo tra impegno civile e studia humanitatis (p. 109).
Forse già a partire dal 1394 cominciò a frequentare le lezioni di Giovanni Malpaghini, che proprio quell’anno fu chiamato come professore di retorica, poesia e filosofia morale presso lo Studio, dove insegnò, con alcune pause, fino al 1403, e di nuovo dal 1412 al 1417. Inoltre, dal 1396 insieme con Iacopo Angeli da Scarperia, Leonardo Bruni, Guarino Guarini, Poggio Bracciolini, Palla Strozzi e Pier Paolo Vergerio cominciò a studiare la lingua greca sotto il magistero di Manuele Crisolora, che tenne regolari lezioni presso lo Studio fino al 1400. Si dimostrò un allievo brillante e quando Crisolora ripartì da Firenze alla volta di Pavia, lo stesso Rossi iniziò a impartire lezioni di lettere greche e latine presso la sua abitazione. Egli doveva godere, in città, di solida fama di studioso, poiché tra i suoi studenti vi furono alcuni giovani provenienti dalle più influenti famiglie fiorentine, come Cosimo de’ Medici, Domenico Buoninsegni, Luca di Maso degli Albizi, Alessandro degli Alessandri e Bartolo Tebaldi. Le lezioni vertevano sull’insegnamento della lingua latina e greca, ma anche sulla filosofia di Aristotele, del quale Rossi – secondo la testimonianza di Vespasiano da Bisticci (Le vite, a cura di A. Greco, II, 1970, pp. 168 s.) – tradusse tutte le opere, sia di logica sia di filosofia.
Nell’ultima parte della sua vita, alla reputazione di dotto uomo di lettere Rossi affiancò nuovamente l’apprezzamento e la stima diffusa in ambito politico: nella semplice veste di privato cittadino, nei primi anni del XV secolo, venne infatti più volte convocato dalla Repubblica per esprimere il proprio parere riguardo vari affari di politica estera. Le minute delle Consulte e Pratiche attestano la sua presenza nei Consigli degli anni 1403, 1411-12 e 1414 (Martines, 1963, pp. 159, 257). Morì a Firenze nel 1417.
Secondo le testimonianze di Vespasiano da Bisticci (Le vite, cit., p. 168) e di Giannozzo Manetti nell’Adversos Iudaeos et Gentes (Baker, 2015, p. 124), Rossi non ebbe moglie né figli. Fece testamento dividendo la sua biblioteca personale tra i suoi allievi (p. 169).
La figura e il ruolo intellettuale di Rossi furono centrali nella Firenze a cavallo della fine del XIV secolo e gli inizi del XV secolo, tant’è che Poggio Bracciolini, in una lettera ad Andrea Alamanni (P. Bracciolini, Lettere, a cura di H. Hart, 1987, pp. 353-356), lo inserì in un elenco di glorie umanistiche insieme con Francesco Petrarca, Coluccio Salutati, Niccolò Niccoli, Leonardo Bruni, Ambrogio Traversari, Giannozzo Manetti e Carlo Marsuppini. Bruni, invece, lo annoverò, con Salutati, Niccoli e Pietro Sermini, tra i personaggi dei suoi Dialogi ad Petrum Paulum Histrum e scelse la sua casa per ambientare la seconda giornata dell’opera.
Nonostante la notevole fama di cui godette presso i contemporanei, molto poco resta della sua produzione letteraria. Il testo più importante è di certo la traduzione latina degli Analytica posteriora di Aristotele (conservata dal codice Lat. Z.231 (= 1572) della Biblioteca nazionale Marciana di Venezia, con note di possesso in greco e in latino di mano del cardinale Bessarione), l’unica rimasta di un più ampio lavoro che doveva coinvolgere l’intero corpus del filosofo greco. I Posteriora sono ascrivibili al 1406, come risulta dai versi latini che seguono la traduzione e che fanno riferimento all’assedio di Pisa da parte delle truppe fiorentine. La traduzione è accompagnata da una lettera di dedica della quale non si conosce il destinatario.
Aldo Manetti (1951, p. 52) ha provato ad avanzare l’idea che si tratti di Guarino Guarini – forse in virtù del fatto che nel 1411 Guarini dedicò la sua traduzione della Vita di Flaminio di Plutarco proprio a Rossi –, ma non esistono elementi interni che possano avvalorare tale ipotesi. Nell’epistola, che si inserisce a pieno titolo nella polemica intorno agli antichi e moderni, particolarmente viva agli inizi del Quattrocento, Rossi difende la scelta di tradurre Aristotele, superiore – a suo dire – agli altri autori greci: «Sed antecedat merito Aristoteles, doctrina magnus sed porro doctrine ordine excellentissimus» (pp. 54 s.).
Oltre alle traduzioni aristoteliche, Rossi si dedicò almeno alla composizione di canzoni e sonetti in volgare, di epigrammi latini e di sermoni, che pur gettando poca luce sulle sue abilità letterarie, lasciano credere che la sua produzione fosse più vasta di quello che oggi rimane. In particolare si conservano una canzone, nella quale, mutuando lo stile e il lessico petrarchesco, intesse un dialogo con le Muse, e un sonetto, anche questo non privo di reminiscenze petrarchesche, entrambi in risposta a Domenico da Prato (pp. 39-45). Con buona probabilità tutti e due gli scritti risalgono alla fine del primo o gli inizi del secondo decennio del XV secolo.
Un altro sonetto responsivo è indirizzato invece al signore di Pesaro, Malatesta Malatesta, detto dei Sonetti, che nel 1409 fu assoldato per la durata di nove mesi dalla Repubblica fiorentina al fine di contrastare l’espansionismo del re di Napoli, Ladislao I d’Angiò-Durazzo. Il componimento, che ha per tema l’amore, potrebbe appartenere a questo periodo e lascia intravedere una corrispondenza poetica tra Rossi e Malatesta ben più ampia di quella rimasta. Lo si desume chiaramente dai vv. 9-10 del sonetto scritto dal signore di Pesaro a Rossi: «quella amistà, la qual per carmi / più volte mostrata m’hai» (Manetti, 1951, p. 45). In questo componimento Malatesta loda più volte la dottrina di Rossi e il suo ingegno poetico meritevole dell’alloro.
Restano, infine, pure un epigramma latino dedicato alla figura di Ercole, simbolo della Repubblica fiorentina, e un’esercitazione scolastica dal titolo Sermo Roberti de Rossis super detractatione rhetorice (pp. 48-52).
Gli scritti di Rossi, a eccezione della traduzione degli Analytica posteriora, sono pubblicati in A. Manetti, Roberto de’ Rossi, in Rinascimento, s. 2, II (1951), pp. 33-55.
Fonti e Bibl.: Vespasiano da Bisticci, Le vite, II, a cura di A. Greco, Firenze 1970, pp. 141, 168 s., 405 s.; P. Bracciolini, Lettere, a cura di H. Hart, III, Firenze 1987, pp. 353-356.
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