DA RONCO, Roberto (pseudon. Berto da Cogolo)
Nacque a Cogollo di Tregnago (prov. di Verona) il 9 sett. 1887 da Benvenuto e da Teresa Pomari. Originaria di Gemona nel Friuli, la famiglia s'era stabilita già da due generazioni nel villaggio lavorando sempre il ferro: per cui l'apprendimento del giovane D. fu quasi una necessità; in questo borgo solitario ai piedi dei monti, il D. imparò dal padre l'uso della fucina, dell'incudine, del martello e del maglio; frequentò la scuola d'arte di Soave dove apprese il disegno, la sbozzatura del marmo, la scultura del legno; fu indirizzato, pure, allo studio degli stili del passato.
Il D. cominciò a lavorare su commissione oltreché a fare il fabbro vero e proprio: fu questo lavoro quotidiano, tra l'altro, che gli fece apprendere tutti i segreti del mestiere e fu l'unico, ad un certo momento della vita, che lo aiutò a sopravvivere. Lavorò molto il legno in età giovanile e presso gli eredi o altri privati resta, di questo suo periodo, una meravigliosa serie di consolle, trumeaux, cassepanche.
Dopo il servizio militare, a Bassano del Grappa, si dedicò esclusivamente al ferro battuto; la particolare disposizione ad accogliere l'antico e rifarlo con le stesse tecniche diede presto fama al giovane D.; dalle sue mani uscirono spade e corazze, elmi ed alabarde, pugnali e misericordie; ma le cose migliori del periodo furono i rifacimenti delle armature del castello di Soave. Nel 1909 si recò a Venezia: era un momento particolarmente importante per la città lagunare dal punto di vista culturale; all'ombra della famosa mostra di Ca' Pesaro (1910), il ferro battuto conosceva un ritorno notevole. Il D. conobbe U. Bellotto, uno dei grandi artigiani del ferro battuto di questo secolo; fu al servizio delle maggiori botteghe, in particolare di quella del Bellotto, e frequentò irregolarmente i corsi che si tenevano all'accademia.
Del soggiorno veneziano restano tracce splendide: poggioli, ringhiere, cancelli, inferriate. Ma l'anonimato che quasi sempre ha accompagnato i lavori di tutti i grandi artigiani impedisce, oggi, attribuzioni precise.Dopo un breve ritorno a Cogollo, il D. ripartì trasferendosi a Parigi dove rimase per due anni sino al 1914. Nella capitale francese l'ambiente delle arti decorative era stato messo a soqquadro dallo stile floreale. La breve e rigogliosa epoca del Liberty colse il D. nel pieno della sua capacità artistica, ma non lasciò sulla sua arte tracce importanti. L'esposizione parigina del 1900 aveva rilanciato il ferro battuto che aveva agonizzato per oltre un cinquantennio. A Parigi, il D. imparò le tecniche dei grandi menuisiers francesi del passato e imitò alla perfezione le serrature di M. Jousse.
Ritornato in patria, combatté nella grande guerra, alla fine della quale si sposò. Da allora non si sarebbe più allontanato dal paese natale se non per brevissimi periodi. Ricominciò il lavoro del fabbro; lo pseudonimo con cui fu chiamato da quel momento fece dimenticare, anche, il suo vero nome. Berto da Cogolo iniziò, così, una vita quotidiana, ritirato nell'armonia agreste della collina veronese; e tuttavia il suo mordace e dichiarato antifascismo gli procurò non lievi dispiaceri soprattutto quando fu colpito dal divieto d'eseguire opere per edifici pubblici. Nel 1924, quando il comune di Verona decise di rifare alcune parti delle cancellate delle Arche scaligere, la più alta produzione dell'attività fabbrile del '300,il lavoro fu affidato ad una notissima bottega veronese, la quale assoldò il D. che restituì alla bellezza originaria le trine restaurate.
Nel 1930 tentò d'espatriare, ma fu arrestato; visse, così, in un'altalena di rimandi e d'incertezze sino alla liberazione. Fu costretto a fare il carradore, ma proprio verso la fine del quarto decennio, il D. cominciò a produrre quelle opere per cui è da ricordare la sua attività di grande artigiano del ferro battuto. Spentosi A. Mazzucotelli, morto già C. Rizzarda e appressandosi ad un immeritato oblio le opere di A. Calligaris, di U. Bellotto, di A. Gerardi, mentre ancora operava il trio della Bottega del ferro (G. Vergerio, E. Coletti, G. Coriani) e A. Benetton cominciava a creare le sue prime opere, il D., che pure era rimasto totalmente estraneo alla cultura ufficiale ed era pressoché ignoto al grande pubblico nazionale, conobbe il periodo migliore della sua maturità artistica.
Il primo esempio della sua perizia è dato dal Gallo, databile tra il 1938 e il 1939; informale, esso era nato sulla scia del secondo futurismo. Tecnicamente esso si rifà all'antico: battitura a caldo, con chiodatura e ribattitura; da allora in poi, sempre, il D. rifiuterà i ritrovati moderni; egli batteva il ferro dopo averlo fucinato mentr'era ancora rovente senza l'ausilio di stampi o saldature; usava il maglio e il martello unendo, talvolta, più parti con grafite o ribattendo il ferro con fasce o chiodi; le sue sculture appaiono, così, all'occhio abituato alla levigatezza impropria in un metallo malleabile ma non brillante, quasi grezze; un modernismo, appena sentito si sposa con l'arte tradizionale passando attraverso la semplicità formale e l'accurata rappresentazione dei soggetti le cui dimensioni, eccetto il Cancello Cavaliere (Villa Cavaliere, Tregnago, Verona) raramente raggiungono l'altezza dei 50 centimetri. Preciso, metodico, il D. non eseguì alcun lavoro senza disegno, a cui concesse un'accentuata importanza. Quasi mai calligrafico, carico di vitalità gioiosa, un po' naïf nei soggetti, il D. fu ricchissimo nell'accoppiare la sofferta visione quotidiana dell'esistenza ai grandi temi dell'uomo. Il suo linguaggio è originale, pure ripetendo motivi antichi; manca del tutto il gioco intellettuale e la purezza del segno è confermata dalle parole che un critico ebbe a scrivere di lui: "...il garbo fresco e gentile trasforma nelle sue mani la materia in fiore ed è sorretto da un antico filone di poesia..." (S. Bertoldi, Cronache d'arte, in L'Arena [Verona], 15 ag. 1955).
Anche nelle figure di gruppo la concatenazione dei movimenti è determinata da accorgimenti che, di volta in volta, si presentano necessari; così, lo studio anatomico, che con il ferro pare quasi dileguarsi, in lui acquista una sfumatura elegante che si ritrova con l'equilibrio del corpo e la bellezza della forma. C'è anche da rilevare che il D. sapeva fare corrodere il metallo, grazie ad un particolare acido, sì da restituirgli quasi immediatamente la patina del tempo.
Le sue opere, quasi tutte in collezioni private o nella collezione Da Ronco presso gli eredi, si possono dividere in tre gruppi; quello religioso che comprende una Crocefissione (1940), Schola (1943), Via Crucis (1943-44) composta di quattordici stazioni, Annunciazione (1946);quello bucolico, che è il più poetico perché certamente il più caro al D., comprende, tra le altre opere, Ritorno dai campi (1947), Corsa (1948-49), Ritorno dalla caccia al cervo (1950), Aratura (1952), Suonatore di flauto (1955);ed infine quello mitologico-leggendario i cui esempi migliori sono Tauromachia (1947), Ratto di Europa (1948), Idra (1949), S. Giorgio e il drago (1949) cui sideve aggiungere una Biga (1948),"fiabesco cocchio reale trainato da cavalli corrosi dal loro stesso movimento".
L'ultima parte della sua vita fu allietata dall'amicizia di artisti, letterati e uomini di cultura fra cui R. Di Bosso, Q. Sacchetti, L. Montano, G. Mardersteig, E. Meneghetti, U. Zampieri. Sue opere furono acquistate da Vivian Leigh (cfr. L'Arena, 15 ag. 1957),Claire Booth Luce, la famiglia reale di Svezia, P. Bargellini. Espose a Firenze (1951 e 1955),New York (1951),Milano (1953), Parigi (1955),Stoccolma (1957),Verona (1956,1957),Venezia (1957:cfr. N. Dessy, Mostra d'arte a La Bevilacqua la Masa..., in Cronache venete, 30 ott. 1957).
Il D. morì a Cogollo il 26 nov. 1957.Tutta la sua opera fu esposta a Tregnago e Verona nel 1977;una parte di essa invece, trovò posto nel 1980 a Stia (Arezzo) in occasione della II Mostra di Toscana-Scultura.
Fonti e Bibl.: G. Fassio, Verona nei quattro anni di amministr. fascista 10 maggio 1923-23dicembre 1926, Verona 1927, pp. 67 s.; R. Chiarelli, Artisti del ferro nella vallata silenziosa, in La Gazzetta di Mantova, 26 ott. 1951; G. Faé, Berto da Cogolo, in Civiltà delle macchine, nov. 1951, p. 51; G. Solinas, Berto da Cogolo artigiano e artista, Verona 1952; G. L. Verzellesi, I ferri battuti di Berto da Cogolo, in Corriere del mattino, 11 ag. 1957; A. Sartori, A Cogollo un mago del ferro battuto lavorava per gli artigiani di New York, in L'Arena, 8 sett. 1961; E. Stanghellini-G. M. Cambié, Berto da Cogolo e la tradizione del ferro battuto, Verona 1966; G. Volpato, Una vita per il ferro battuto. Berto da Cogolo e la sua opera, Milano 1977; Id., I disegni di Berto da Cogolo, in Vita veronese, XXX (1977), 9-10, pp. 263-272; Id., Il ferro come strumento d'arte popolare. Per una lettura delle opere scultoree di Berto da Cogolo, in Terra Cimbra, IX (1978), 33. pp.22-26; Id., Difesa dell'"homo faber", in Primarno, Quad. dell'Acc. Casentinese di lett., arti, sc. ed econ., 8-9, 1982-83, pp. 43-55; Id., Ferro e battiferro della Lessinia veronese, in Arte e artigianato della Lessinia, a cura di G. Faé,Verona1984, pp. 34-37.