TATAFIORE, Roberta
– Nacque il 22 gennaio 1943 a Foggia, da Guido (1906-1960) e da Augusta Carnovale (1907-1998).
Il padre, nato a Napoli in una famiglia borghese di professionisti, dopo la laurea in chimica e il matrimonio aveva ottenuto il prestigioso incarico di direttore del Poligrafico dello Stato di Foggia. La madre, originaria di Catanzaro, era l’ottava e ultima figlia di una maestra e di un fervente socialista senza un impiego fisso. Nonostante le scarse risorse familiari e grazie al sostegno del fratello maggiore, Augusta aveva potuto iscriversi alla facoltà di chimica dell’Università di Napoli dove aveva conosciuto il futuro marito (Godimenti e paure, 1990, p. 100).
Trasferitisi nella cittadina pugliese nel 1928, i coniugi Tatafiore ebbero tre figlie: Luciana nel 1935, Bruna nel 1937 e, a pochi mesi dai bombardamenti alleati, Roberta. Ancor più della guerra e delle granate, fu il ritorno della pace e della democrazia a segnare fortemente la prima infanzia di Roberta, nel suo ricordo «molto infelice» e dipanata «in un clima di disagi» (ibid., p. 99). Nel secondo dopoguerra, infatti, il licenziamento del padre comportò un repentino cambiamento di status sociale per la famiglia Tatafiore e diede avvio a un lungo periodo di instabilità economica, apprensioni e peregrinazioni tra Foggia, Napoli e Catanzaro.
Rispettabilità, benessere economico e unità familiare furono riconquistati quando il padre di Roberta venne riassunto dal Poligrafico dello Stato e trasferito, in qualità di direttore del personale, nella sede centrale di Roma. Qui la famiglia si riunì e si stabilì definitivamente tra il 1949 e il 1950.
Nonostante la ritrovata serenità economica e la presenza di una figura paterna allegra, rassicurante e accudente, nel corso delle elementari Roberta manifestò asocialità, sintomi di anoressia e segni di quella «infelicità creativa» che, scoperta da bambina, non l’avrebbe più lasciata (ibid., p. 105). Fu per questo che i genitori decisero di ritirarla dalla scuola per farla studiare da privatista dietro la guida attenta e autorevole della madre, personalità premurosa e affettuosa, ma al tempo stesso ricordata come umorale e ansiogena (ibid; 1979-1980. Diario di sesso e di politica, p. 20).
Frequentate regolarmente le scuole medie, si iscrisse alle magistrali e iniziò a studiare la lingua tedesca con una passione alimentata anche da soggiorni di studio in Germania.
A pochi giorni dagli esami, il 1° giugno 1960, la vita della giovane fu sconvolta dalla morte improvvisa e violenta del padre, accoltellato da un operaio del Poligrafico di Foggia di cui nel frattempo era tornato a essere direttore: dramma che la costrinse a confrontarsi – ancora adolescente – con una complicatissima elaborazione del lutto (La parola fine, 2010, pp. 70 s.).
Iscritta alla facoltà di magistero, cercò di garantirsi un’autonomia economica lavorando come segretaria alla facoltà di fisica e presso lo studio dell’urbanista Italo Insolera.
Nello stesso periodo, nel 1970, si sposò a Londra con l’artista Paolo Cotani, da cui però si separò a metà del decennio. Spinta da «un sentimento di rivolta sessuale» e dalla volontà di «collocarsi nel mondo a partire dal proprio sesso» (Memorie degli anni ’70, 1985, pp. 101 s.), si immerse nella febbrile e vivace realtà del femminismo romano. Nei collettivi separatisti – da lei descritti come «luoghi di intelligenza» e come nuove «famiglie allargate di sole donne» (1979-1980. Diario di sesso e di politica, pp. 24 e 45) – fece uno degli incontri che più incisivamente segnarono il suo percorso politico e personale: quello con Michi Staderini, figura di spicco per il femminismo italiano e riferimento di quello romano. Ne scaturì un rapporto di amicizia fusionale, nutrito da un serrato confronto intellettuale soprattutto sui temi legati alla sessualità.
A partire dal 1977 – mentre già svolgeva l’attività di pubblicista e collaborava con il Manifesto – iniziò a trascorrere regolarmente lunghi periodi in Svizzera e nella Germania federale, dove lavorò per Radio Colonia.
Fu durante uno di questi soggiorni che ebbe l’occasione di conoscere la storia di Christiane F., la eroinomane quattordicenne che aveva affidato alla rivista Stern il racconto del suo viaggio «nel sistema e nei suoi spazi di trasgressione» (Ecco la storia di Christiane F., 1979, p. 3). La testimonianza della ‘ragazza dello zoo di Berlino’ (intima, individuale ma al tempo stesso tipica della condizione giovanile della società tedesca) colpì profondamente Roberta, la quale, nel corso del 1980, si dedicò dapprima alla traduzione di questo testo per Rizzoli e poi all’analisi delle condizioni di «marginalità-emarginazione» dei cosiddetti drop-outs delle metropoli occidentali (Introduzione a U. Meinhof, Ammutinamento, 1980, p. 8).
Per quanto frequentemente a Berlino Ovest, il legame con il movimento femminista italiano non si sfilacciò, tutt’altro. Roberta seguì attentamente a Roma le vicende del movimento del Settantasette, animò le riunioni del collettivo Donne e cultura, entrò nel comitato di gestione della Casa delle donne di via del Governo Vecchio e partecipò all’ideazione dell’associazione culturale Virginia Woolf: un laboratorio politico-culturale fondato nel 1979 – proprio mentre molti collettivi separatisti si stavano sciogliendo – con il fine di reimpiegare e rivitalizzare il patrimonio esperienziale e intellettuale acquisito in anni di politica femminista (1979-1980. Diario di sesso e di politica, p. 22). La fase discendente della stagione dei movimenti sociali comportò in Tatafiore una «crisi esistenziale» che si riversò (rielaborata) sulle pagine del diario che scrisse, ispirata dalle parole autobiografiche di Sibilla Aleramo e di Carla Lonzi, dalla fine del 1979 alla fine del 1980, parallelamente a un percorso psichiatrico e psicanalitico: il Diario di sesso e di politica (1979-1980). A differenza di tutti gli altri suoi diari, questo sarà l’unico a essere da lei rivisto e poi donato all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano nel 1986.
Tramontato il ‘lungo Sessantotto italiano’, si destreggiò sempre più freneticamente tra varie attività lavorative: dalla collaborazione con l’Istituto per gli studi sullo sviluppo economico e il progresso tecnico (ISVET) a quella – fondamentale e duratura – con il mensile dell’Unione donne italiane Noi donne che, sotto la nuova direzione di Vania Chiurlotto, si stava aprendo sempre più alle contaminazioni e alle rivendicazioni del femminismo. Come testimoniano gli interventi sulle riviste femministe Memoria, DWF, L’Orsaminore, Quotidiano donna e Reti, proprio in questo periodo maturò in lei una diffidenza per i soggetti collettivi strettamente connessa sia alla percezione di essere ormai una «spettatrice partecipante» del movimento femminista, sia al bisogno di affermarsi – controcorrente – come «donna singola e riconoscibile» nell’epoca della emancipazione diffusa (Tre domande, 1986).
Nel 1983, anno in cui entrò nella redazione di Noi donne, Roberta scoprì quello che sarebbe stato il suo terreno di indagine privilegiato: il fenomeno della prostituzione (maschile e femminile, di strada e non). Fondamentale al riguardo fu l’incontro con Pia Covre e Carla Corso, prostitute e attiviste politiche vicine al Partito radicale, fondatrici del Comitato per i diritti civili delle prostitute. Dal sodalizio con Covre e Corso (da cui nacque il periodico militante Lucciola) derivò l’attenzione con cui trattò la mancata intesa tra una parte consistente del femminismo (italiano e non solo) e le ‘lavoratrici del sesso’: espressione mutuata dal contesto statunitense dove, da qualche anno, movimenti di sex workers avevano iniziato a rivendicare il diritto all’autogestione del proprio corpo, la libertà di scegliere se vendere prestazioni sessuali, la possibilità di rovesciare rappresentazioni vittimizzanti e stereotipate delle prostitute (Le prostitute e le altre, 1986).
Ciò che più la affascinò fu il discorso sulla libera scelta nella prostituzione, «caposaldo del rivoluzionamento culturale e politico» (Sesso al lavoro, 1994, p. 89) messo in opera dalle organizzazioni delle prostitute e principale causa di conflitto con molte frange del femminismo. Femministe e prostitute erano, infatti, «disunite nella lotta» (ibid., p. 85) e distanti sulla scena pubblica a causa di una concezione stigmatizzante e necessariamente patriarcale, coercitiva e degradante della prostituzione che, prevalente allora anche in ambito femminista, codificava la prostituta come vittima e come soggetto debole e discriminato, e non come soggetto politico (Le prostitute e le altre, cit.).
L’esplorazione del mondo della prostituzione, della pornografia e dell’industria sessuale si intensificò negli anni Novanta. Prestò molta cura alle analisi dei dispositivi normativi esistenti in Europa, del contesto storico e politico e, in particolare, degli effetti dell’immigrazione clandestina e del panico causato dalla diffusione dell’AIDS (Sesso al lavoro, cit.). In seguito allargò il campo di indagine esplorando anche il fenomeno della prostituzione maschile (Uomini di piacere... e donne che li comprano, 1998). Questo nuovo viaggio la portò ad avere acute intuizioni non solo sulla figura della ‘donna cliente’ e sui tanti possibili effetti della ‘scoperta’ femminile del diritto al piacere, ma anche sul valore e sul significato della differenza sessuale in una società sempre più mercificata, tecnologizzata, transgender e (perlomeno in prospettiva) postpatriarcale.
Apprezzato pubblicamente il suo acume e il suo peculiare stile di lavoro pragmatico, scevro da pregiudizi e moralismi, in grado di tenere assieme cronaca giornalistica, riflessione teorica e osservazione partecipata, nel 2000 fu incaricata di redigere la voce Sesso per la VI Appendice dell’Enciclopedia Italiana Treccani e, nel 2005, il 4° Rapporto sulla pornografia per l’Istituto di studi politici economici e sociali (Eurispes).
Nel frattempo il Partito radicale divenne il suo interlocutore di riferimento (nel 1988 aderì al Comitato radicale antiproibizionista di Marco Taradash) e il suo individualismo libertario si definì sempre più chiaramente. Fu così che si arrivò a un momento di passaggio molto delicato, carico di strappi e ripensamenti sul piano personale, professionale e politico, alla metà degli anni Novanta. Conclusa dolorosamente una lunga convivenza, Roberta prese le distanze da Noi donne, da il Manifesto e dal Centro Virginia Woolf; seguì con spirito critico e pungente la battaglia femminista contro la violenza sessuale (De bello fallico, 1996); coniò l’espressione «femminismo di Stato» per deplorare l’uso strumentale, dogmatico e moralizzante del femminismo nella politica istituzionale (Femminismo di stato, 1996).
Molti dei fili che a lungo l’avevano tenuta legata al femminismo degli anni Settanta si lacerarono definitivamente all’alba del nuovo millennio quando, sempre più insofferente nei confronti delle politiche di pari opportunità e del «pensiero unico femminile», aderì – unica donna – al polo Laico: un progetto ideato da Taradash e Giovanni Negri con il fine di affermare una linea laica e attenta ai diritti civili all’interno del centro-destra.
Dal punto di vista lavorativo, in questa fase si accentuarono stanchezza e frustrazione. Vanificata l’eventualità di un ingresso in Parlamento, sempre più faticoso divenne per lei tenere insieme le numerose quanto poco redditizie collaborazioni lavorative: dalla conduzione della radiotrasmissione 3131 Fatti e sentimenti (1999) di RadioRai 2 alla consulenza editoriale per l’Associazione italiana malati di cancro (AIMC), fino alla poliedrica attività di giornalista. La sua firma comparve in questi anni su riviste femminili (Anna e D), su giornali liberali (L’Oinione, L’Indipendente) oltre che su molti quotidiani del centro-destra: Libero, Il Foglio e il Secolo d’Italia di Flavia Perina dove, dal 2005, curò la rubrica Thelma&Louise in alternanza (stridente e per questo avvincente) con Isabella Rauti. Dichiaratasi «femminista revisionista, elettrice del centro-destra» («Aiutare una donna povera? Non vedo che c’è di male», 2001) nonostante l’inconciliabilità del suo spirito autenticamente liberale e libertario con alcune battaglie sostenute dalla maggioranza governativa, Roberta riuscì a godere di un ampio spazio di libertà di parola nella sua nuova famiglia politica, ad esempio continuando a sostenere la necessità della depenalizzazione dell’aborto anche in occasione della moratoria promossa da Giuliano Ferrara nel 2008.
Lambita dallo scandalo Affittopoli (la svendita del patrimonio abitativo del Comune di Roma durante la prima giunta Rutelli), nel 2005 lasciò la fatiscente casa di via dei Banchi Nuovi dove aveva vissuto, in pieno centro storico, per trentatré anni e si trasferì nel quartiere multietnico della capitale, l’Esquilino. Qui, tra il 2005 e il 2007, trascorse «un eccezionale periodo senza propositi suicidari» (La parola fine, cit., p. 85). Ma la morte – in realtà mai estranea alla sua riflessione politica e alla sua scrittura pubblica e privata – tornò a essere centrale nei suoi pensieri in un periodo di instabilità emotiva e con l’accendersi del dibattito sull’eutanasia attorno al caso Eluana Englaro. La proposta di legge sul testamento biologico, avanzata dal governo come risposta alla battaglia politica e personale del padre di Eluana, fu una delle ultime vicende a riaccendere la sua vis polemica, portandola a reagire con passione a quello che definì «statalismo chiesastico».
Mentre seguitavano i suoi interventi pubblici (contrassegnati come sempre dalla sua indole ironica e a tratti beffarda), tornò a concentrarsi sulla scrittura privata, pratica di dialogo con sé stessa che aveva scandito tutta la sua vita. Predisposta una condizione di solitudine e ‘clandestinità’, il primo gennaio 2009 cominciò la stesura del suo ultimo scritto autobiografico: il diario con il quale per tre mesi, giorno per giorno, coltivò la scelta del suicidio.
Dopo aver spedito a un ‘comitato amicale’ il testo con il quale aveva composto, materialmente e letterariamente, la propria libera morte, l’8 aprile 2009 si recò in un albergo e assunse la massiccia dose di psicofarmaci che aveva accumulato, accuratamente, nei mesi precedenti. Dopo alcuni giorni di coma, morì il 14 aprile 2009. A un anno dalla morte il suo memoriale fu pubblicato con il titolo La parola fine. Diario di un suicidio.
Opere. Ecco la storia di Christiane F., in il Manifesto, 28 agosto 1979, p. 3; Introduzione a U. Meinhof, Ammutinamento. Storie di adolescenti in un riformatorio femminile tra solitudine e rivolta, Roma 1980; Memorie degli anni ’70, in Memoria, 1985, n. 15, pp. 101-104; Le prostitute e le altre, ibid., 1986, n. 17, pp. 101-114; Tre domande, in DWF, 1986, n. 2, pp. 29-30; Godimenti e paure, in Memoria, 1990, n. 28, pp. 99-106; Sesso al lavoro. La prostituzione al tempo della crisi, Milano 1994; De bello fallico. Cronaca di una brutta legge sulla violenza sessuale, Viterbo 1996; Femminismo di stato, in Volontà. Laboratorio di ricerche anarchiche, Milano 1996, pp. 155-170; Sola, in Tra donne e uomini, a cura di B. Mapelli - M. Piazza, Milano 1997, pp. 150-156; Uomini di piacere... e donne che li comprano, Milano 1998; «Aiutare una donna povera? Non vedo che c’è di male», in Libero, 14 giugno 2001, p. 9; La parola fine. Diario di un suicidio, Milano 2010.
Fonti e Bibl.: Archivio sonoro di Radio radicale (https://www.radioradicale.it/pagine/larchivio); Pieve Santo Stefano, Archivio diaristico nazionale, dattiloscritto, 1979-1980. Diario di sesso e di politica. “Con un piede in una scarpa di un colore e in una di un altro”, DP87; Roma, Archivia. Archivi, biblioteche, centri di documentazione delle donne, Fondo Roberta Tatafiore.
D. Scalise, Comporre una morte, in R. Tatafiore, La parola fine, cit., pp. 5-22; B. Sarasini, Sesso, denaro, libertà femminile, in R. Tatafiore, Sesso al lavoro. La prostituzione al tempo della crisi, Milano 2012, pp. 9-41.
Il suicidio di Roberta Tatafiore fu fortemente dibattuto sul piano pubblico, essendo interpretato in molti casi come un gesto esistenziale, politico o filosofico. Si segnalano al riguardo gli articoli pubblicati su Il Foglio, la Repubblica, Leggendaria e sul sito donnealtri.it in seguito alla notizia del suicidio e in occasione della pubblicazione postuma del suo memoriale.
Si ringrazia Annalisa Biondi per aver condiviso ricordi e documenti e Bruna Tatafiore per aver concesso l’uso e la citazione del Diario di sesso e di politica.