Rivoluzione
di Jack A. Goldstone e Massimo L. Salvadori
di Jack A. Gladstone
Per quasi due secoli, dalla Rivoluzione francese sino agli anni settanta, numerosi studiosi cercarono di spiegare le origini delle rivoluzioni attraverso un modello astratto di società basato sulla dicotomia masse/élites.
Molti degli autori che adottarono questo approccio erano interessati alle motivazioni che spingono l'uomo comune a partecipare alle rivoluzioni, e focalizzarono quindi l'attenzione sulla psicologia individuale e di gruppo. Sia Sigmund Freud che Max Weber affermarono che le masse sono spinte alla lotta rivoluzionaria da leaders 'carismatici': per Freud si tratta di surrogati della figura paterna, in grado di creare un senso di appartenenza, mentre per Weber i leaders carismatici agiscono come profeti che promettono la redenzione. In una prospettiva analoga, Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca sostennero che a spingere o a costringere le masse all'azione rivoluzionaria sono individui eccezionali che aspirano al potere; le masse tuttavia conservano sempre un ruolo subordinato, sicché le rivoluzioni si risolvono in un mero avvicendamento di élites. Alexis de Tocqueville per contro attribuì alle masse un ruolo più attivo, affermando che le rivoluzioni hanno le maggiori probabilità di verificarsi quando le condizioni di vita delle masse migliorano e vengono abolite le istituzioni sociali più inique, perché proprio allora il popolo sentirà maggiormente il gravame delle restanti ineguaglianze e istituzioni oppressive. Di conseguenza, secondo Tocqueville, sarebbero le élites che cercano di riformare istituzioni obsolescenti a favorire le rivoluzioni, in quanto insegnano alle masse che le istituzioni possono cambiare e che un loro cambiamento è necessario.
Nel secondo dopoguerra si affermarono approcci più materialistici. James Davis e Ted Robert Gurr sostennero che le rivoluzioni si verificano allorché le masse percepiscono una "deprivazione relativa", vale a dire un divario tra le loro condizioni attuali e il benessere atteso. Altri studiosi analizzarono i meccanismi che spingono l'uomo comune a partecipare alle rivoluzioni sulla base del modello della scelta razionale, arrivando alla conclusione che gli individui non aderiranno alla lotta rivoluzionaria nemmeno in una situazione di deprivazione o percepita come tale, a meno che non vi siano spinti da forti incentivi di potenziali ricompense e da profondi legami con le comunità coinvolte.
La principale alternativa al modello basato sulla dicotomia masse/élites è stata la teoria delle classi sviluppata da Karl Marx. Nella concezione marxiana la società è divisa in diversi gruppi con differenti posizioni economiche: alcuni controllano la terra, altri il commercio, e altri ancora, infine, non possiedono null'altro che la propria forza lavoro. Normalmente una classe domina tutte le altre, e i governanti agiscono negli interessi di tale classe. Le rivoluzioni si verificano quando la classe dominante risulta indebolita a seguito delle trasformazioni intervenute nell'organizzazione economica, e le classi subordinate si rivoltano contro di essa.
Questa concezione offriva non solo una spiegazione delle rivoluzioni, ma anche un modello del processo storico. Nella teoria marxiana la storia si svolge attraverso una serie di rivoluzioni. Dapprima i signori feudali e le élites di possidenti vengono rovesciati dalle rivoluzioni attuate dai mercanti e dai capitalisti manifatturieri (la borghesia), a seguito delle quali il feudalesimo scompare lasciando il posto a una fase di espansione capitalistica. La Rivoluzione inglese del 1640 e quella francese del 1789 sono esempi chiave nella storiografia marxista, secondo la quale però anche il sistema capitalistico è destinato a entrare in crisi per l'eccessivo sfruttamento cui sottopone i lavoratori; la borghesia diverrà allora vittima di una rivoluzione del proletariato volta a rovesciare il sistema capitalistico basato sul lavoro salariato e sulla proprietà privata e a sostituirlo con una economia socialista e con uno Stato minimale.
Sebbene le teorie della rivoluzione basate sulla dicotomia masse/élites e sul conflitto di classe abbiano dominato la scena per quasi due secoli, negli ultimi decenni sono state progressivamente abbandonate in quanto offrono una visione eccessivamente schematica dell'organizzazione sociale, che non può essere ridotta a una semplice contrapposizione tra governanti e governati. Esiste piuttosto una gamma altamente differenziata di gruppi sociali, con diversi livelli di status, di ricchezza e di potere. Le 'masse' stesse non costituiscono una categoria omogenea, ma si differenziano in gruppi rurali e urbani, coorti d'età giovani e vecchie, lavoratori delle industrie e addetti ai servizi, differenti gruppi etnici e regionali e così via, sicché diventa impossibile parlare semplicemente delle condizioni e dei possibili comportamenti di un individuo 'tipico'. Inoltre, nonostante decenni di studi dedicati all'identità e alla coscienza di classe, alla storia del proletariato e della borghesia, e nonostante gli sforzi per ricollocare il motore del capitalismo nel commercio internazionale e nello sfruttamento del Terzo Mondo, le teorie marxiste della rivoluzione sono state progressivamente abbandonate in quanto approfondite analisi empiriche dei due casi paradigmatici - la Rivoluzione inglese e quella francese - hanno dimostrato che non si è affatto trattato di rivoluzioni di classe: né coloro che le sostennero, né i loro obiettivi e i loro esiti possono essere legittimamente attribuiti a una 'classe' in particolare.
Gli scienziati sociali di conseguenza preferiscono parlare di 'sistemi' complessi e di 'strutture' sociali con molteplici componenti interrelate, e riconoscono che i sistemi sociali possono continuare a funzionare nonostante livelli elevati di ingiustizia, oppressione e ineguaglianza. Al fine di comprendere perché si verificano le rivoluzioni, occorre allora guardare alle modalità di funzionamento delle società, ai fattori che determinano la coesione o la disgregazione delle strutture che le compongono.
Considerare la società come un sistema significa considerare un complesso di relazioni, che possono essere sia esterne che interne. Le prime includono le relazioni tra la società da un lato e il suo ambiente fisico (disponibilità di materie prime, flussi della popolazione, processi tecnici di produzione, smaltimento dei rifiuti, ecc.), economico e politico dall'altro (scambi commerciali, rapporti di dipendenza economica da altri paesi, difesa internazionale, trattati internazionali e programmi di aiuti ai paesi stranieri). Le seconde includono le relazioni tra i diversi gruppi di una società che hanno funzioni differenti (lavoratori, leaders religiosi e politici, leaders dell'informazione e dell'intrattenimento, imprenditori e uomini d'affari). In circostanze normali l'oppressione, le ingiustizie e il malcontento sono diffusi in tutto il sistema sociale e vengono tenuti sotto controllo attraverso la separazione e gli equilibri tra i vari gruppi che lo compongono.
Alcune relazioni possono essere fonte di conflitti e di tensioni, mentre altre possono funzionare in modo più o meno regolare. Partendo da questa considerazione, Chalmers Johnson ha affermato che solo quando in una società esistono disfunzioni multiple - ossia quando molte delle normali relazioni esterne e interne sono fonte di tensioni - è probabile il verificarsi di una rivoluzione.Se tutte le società possono essere concepite come sistemi, resta nondimeno vero che alcune sono più stabili di altre. La differenza va ricercata nel particolare tipo di struttura sociale - l'organizzazione dei vari gruppi sociali e le loro relazioni. Là dove la struttura sociale è estremamente rigida, il sistema è stabile finché resta tale il sistema esterno, ma difficilmente riesce a far fronte alle modificazioni di quest'ultimo (mutamenti demografici, guerre, cambiamenti tecnologici nel settore economico, ecc.), senza subire disfunzioni multiple che si diffondono in tutta la società. Là dove invece la struttura sociale è flessibile, e vari gruppi hanno la capacità di introdurre innovazioni nella leadership e nella politica sociale (è questo il caso di tutte le moderne democrazie industriali), le modificazioni dell'ambiente esterno possono essere affrontate attraverso cambiamenti radicali nell'azione dei pubblici poteri e negli schieramenti politici, consentendo alla società di sopportare gravi stress sociali senza subire una rivoluzione.
Theda Skocpol ha dimostrato come le strutture sociali dei paesi che hanno sperimentato 'grandi rivoluzioni' (come la Francia sotto il re Luigi XVI, la Russia sotto lo zar Nicola II e la Cina sotto il regime nazionalista di Jiang Jieshi) presentassero determinate caratteristiche che le rendevano particolarmente esposte a un rovesciamento rivoluzionario. I loro governi monarchici o imperiali erano deboli sul piano finanziario e militare rispetto a quelli di altri Stati, e ciò li rendeva vulnerabili a guerre costose. Le loro aristocrazie non detenevano il controllo assoluto sulle campagne, sicché il controllo dei contadini dipendeva dalla forza del governo centrale (già debole). Infine, i contadini avevano forme di organizzazione autonome in grado di promuovere un'azione collettiva contro le élites (le tradizionali assemblee di villaggio in Francia e in Russia, e il Partito comunista organizzato nella Cina rurale tra gli anni trenta e quaranta). Di conseguenza, nel caso di una guerra che indeboliva lo Stato, o di conflitti tra Stato ed élites che paralizzavano il governo, le sollevazioni popolari non potevano essere arginate. Le crisi fiscali e le ribellioni dell'élite nella Francia del 1789, la sconfitta militare della Russia nella prima guerra mondiale e l'invasione giapponese della Cina nella seconda aprirono dunque la strada a rivolte di massa.Nell'Inghilterra e nella Germania del XIX secolo invece - paesi in cui lo Stato era più forte e l'aristocrazia aveva un maggior controllo sia del governo che delle campagne - le pressioni della guerra e il malcontento popolare non sfociarono in una rivoluzione, ma in movimenti di riforma flessibili sostenuti dallo Stato e dalle élites.
Considerando le società come sistemi, ognuna con una particolare struttura sociale, possiamo dunque comprendere perché le rivoluzioni si siano verificate in determinati paesi mentre altri ne sono rimasti immuni. Le società e le strutture sociali tuttavia sono così numerose e differenziate tra loro che si rendono necessari elementi ulteriori per arrivare a una spiegazione generale del quando e del perché in una data società si creino le condizioni per una rivoluzione.
Spesso per praticità le rivoluzioni vengono considerate come eventi singoli e unitari, sicché si parla ad esempio della Rivoluzione russa del 1917, o della Rivoluzione del Nicaragua del 1979. Di fatto, però, le rivoluzioni hanno il carattere di lunghi processi in cui il vecchio sistema di governo si indebolisce, si verifica una lotta per il potere e infine l'autorità viene ripristinata con l'instaurazione di un nuovo governo. Sebbene spesso tali processi vengano identificati attraverso la data in cui il vecchio governo viene abbattuto, le rivoluzioni non si esauriscono in questo singolo episodio.
Charles Tilly ha affermato che le rivoluzioni iniziano quando un movimento di opposizione riesce a intraprendere una mobilitazione popolare contro il governo. A suo avviso, oltre ad analizzare le motivazioni che spingono il popolo a ribellarsi, o le ragioni della vulnerabilità di certe strutture sociali alle rivoluzioni, occorre considerare anche in che modo venga organizzata l'azione rivoluzionaria e come reagiscano i governi una volta che la rivoluzione abbia preso l'avvio.Esaminando le rivoluzioni dal XVII secolo agli anni ottanta del nostro secolo, Goldstone e altri (v., 1991) sono giunti alla conclusione che esistono certe relazioni tra le rivoluzioni europee dell'età moderna e quelle verificatesi di recente in Nicaragua e in Iran. Secondo questi autori, una volta compreso il processo caratteristico della rivoluzione è possibile stabilire quando in una data società si siano create le condizioni per un rivolgimento rivoluzionario e quale ne sarà il probabile decorso. In base a questo modello processuale, all'origine di una situazione rivoluzionaria vi sono differenti combinazioni di cause e strutture sociali.
A prescindere dalle cause specifiche, comunque, una condizione necessaria perché si verifichi una rivoluzione è l'esistenza di conflitti a vari, differenti livelli della società. Solo tali conflitti diffusi possono portare al rovesciamento del governo in carica e a un radicale cambiamento sociale.
È dunque possibile stabilire se le potenziali cause di un conflitto rivoluzionario (mutamenti economici e demografici, corruzione diffusa, conflitti religiosi, crisi fiscali, ecc.) produrranno una rivoluzione in una data società valutando i seguenti fattori: il livello di malcontento e il potenziale di mobilitazione popolare; il grado di conflittualità all'interno dell'élite; il grado di debolezza dello Stato. Altri fattori essenziali di cui occorre tener conto quando si considera la rivoluzione come un processo sono le forze internazionali, le coalizioni rivoluzionarie, l'ideologia e il nazionalismo, la guerra e il terrore di Stato, e infine gli esiti dell'azione rivoluzionaria.
Malcontento e mobilitazione popolare. - Una rivoluzione richiede delle forze sociali che la sostengano: masse di cittadini che assaltino i rappresentanti del governo e organizzino tumulti e dimostrazioni, contadini che assaltino i proprietari terrieri e appoggino la guerriglia rurale, armate rivoluzionarie che scatenino e difendano la rivoluzione. Il popolo ha dunque bisogno di una motivazione per partecipare a una rivoluzione.Tuttavia, per un vecchio paradosso della storia, i gruppi che partecipano alle rivoluzioni in genere non sono interessati alla rivoluzione in sé, ma piuttosto a specifiche rivendicazioni. I contadini che con le loro sollevazioni nelle campagne sostennero la Rivoluzione francese volevano semplicemente più terra a minor costo - per loro era del tutto indifferente se fosse il re o l'assemblea rivoluzionaria ad abolire tasse e tributi feudali. Gli allevatori e gli agricoltori che sostennero le armate rivoluzionarie di Pancho Villa e di Emiliano Zapata nella Rivoluzione messicana volevano semplicemente essere tutelati dagli speculatori che cercavano di impadronirsi della loro terra. I dimostranti che sostennero Khomeini contro lo scià in Iran volevano una società più autenticamente islamica e iraniana, in cui la virtù delle donne e i redditi delle famiglie non fossero costantemente minacciati da trafficanti stranieri, speculatori corrotti e modernizzatori occidentali. Se lo scià non avesse sostenuto le loro rivendicazioni, erano pronti a rivolgersi a qualcun altro disposto a farlo.Il malcontento popolare che dà origine a una rivoluzione dunque spesso non è altro che la richiesta di tutelare diritti, sistemi di vita e valori tradizionali. Le richieste di cambiamento non provengono dai più poveri tra i poveri - vagabondi, criminali e indigenti non hanno praticamente alcun ruolo nelle folle rivoluzionarie - ma piuttosto dai ceti sociali che dispongono di un certo reddito e di mezzi modesti, e che rischiano di perderli. A creare questa minaccia sono fondamentalmente due processi: in primo luogo la crescita demografica, che nelle società tradizionali influisce negativamente sulle campagne, sui mercati del lavoro e sulle risorse alimentari, determinando la scomparsa delle routines e dei sistemi di sussistenza tradizionali; in secondo luogo il rapido sviluppo economico, che sebbene spesso comporti un miglioramento economico e sociale, a volte può compromettere i sistemi di sussistenza tradizionali prima che la popolazione possa adattarsi e trovare nuove occupazioni nell'industria e nel settore dei servizi. In particolare, la crescita economica può originare un grave malcontento popolare quando è gestita da una classe politica corrotta, dimodoché i suoi benefici vanno principalmente a una élite ristretta, mentre il resto della popolazione ne sopporta gli oneri.
Tuttavia il malcontento popolare non sfocerà in una rivoluzione a meno che le forze sociali non abbiano gli strumenti per promuovere, programmare e attuare un'azione collettiva in nome delle proprie rivendicazioni, con la prospettiva che essa dia un qualche esito.
L'azione collettiva è facilitata quando gli individui fanno parte di comunità i cui membri sono abituati a discutere i problemi comuni e a cooperare per risolverli. Tali comunità non sono necessariamente organizzazioni formali o partiti rivoluzionari: possono essere gruppi di vicinato, gruppi di lavoro, congregazioni religiose, scuole o università, villaggi di contadini. È su organizzazioni di questo tipo che si basa di solito il reclutamento e la solidarietà reciproca degli attori rivoluzionari.Inoltre, ambienti quali villaggi contadini autonomi, regioni di frontiera e grandi concentrazioni urbane, in cui gli individui non sono sottoposti a una stretta sorveglianza da parte delle autorità pubbliche o dei proprietari terrieri, offrono maggiore spazio per la discussione e per l'organizzazione dell'azione collettiva. La migrazione interna - verso le aree di frontiera o le città - offre dunque maggiori opportunità per una mobilitazione popolare.
Infine, occorre osservare che molte rivoluzioni si sono verificate in periodi in cui le masse giovanili costituivano una quota significativa della popolazione. L'audacia e l'idealismo della gioventù possono dunque essere un fattore importante nella mobilitazione rivoluzionaria.
In sintesi, la partecipazione popolare alle rivoluzioni è probabile solo là dove vi sia un significativo potenziale per la mobilitazione di massa, originato da una combinazione di malcontento, esistenza di reti di relazioni, concentrazione della popolazione in ambienti favorevoli alla mobilitazione e ardore giovanile.
La sola azione popolare, tuttavia, non può creare né coordinare un movimento nazionale o un nuovo regime rivoluzionario. Affinché ciò avvenga, all'azione popolare deve associarsi quella sostenuta dalle élites.
Élites e processi rivoluzionari. - È un altro paradosso delle rivoluzioni il fatto che esse siano guidate dalle élites, vale a dire da individui e gruppi che nel sistema sociale esistente hanno uno status privilegiato e un notevole potere. La Rivoluzione francese fu guidata dai nobili in rivolta contro il sovrano; quella iraniana da capi religiosi e commercianti in rivolta contro lo scià; la Rivoluzione del Nicaragua fu guidata dai rampolli delle élites economiche e appoggiata dai grandi imprenditori. Ciò non significa che in una rivoluzione tutte le élites si rivoltino contro il regime; piuttosto, in una situazione rivoluzionaria determinati individui e gruppi elitari entrano in conflitto con il governo e cercano sostegno attraverso una mobilitazione degli strati del popolo i quali, come abbiamo osservato, hanno dal canto loro proprie rivendicazioni da avanzare. Questa coalizione tra élites rivoluzionarie e gruppi del popolo lotta quindi contro il governo per impadronirsi del potere.
Al fine di comprendere perché le élites si oppongano al sistema esistente che ne garantisce le posizioni di privilegio, occorre esaminare le relazioni di determinate élites con lo Stato, con le altre élites e con le masse. In una società stabile, le élites sono sostenute dal governo e a loro volta lo appoggiano, e per quanto siano tra loro in competizione per il potere e lo status, non lo sono al punto da distruggersi a vicenda. È dal popolo, d'altro canto, che le élites ricavano status e reddito - sia direttamente attraverso rendite e imposizioni fiscali, sia indirettamente attraverso i profitti derivanti dalla proprietà o dal controllo di importanti cariche pubbliche - fornendo in cambio determinati servizi, tra cui protezione legale, sostegno in tempi di crisi e attività di governo.
Quando queste varie relazioni vengono meno, tuttavia, le élites possono diventare divise, competitive, ed entrare in conflitto con lo Stato e con altri gruppi elitari. Quando vedono attaccati i loro privilegi e le loro ricchezze dallo Stato che cerca di accrescere il proprio potere di governo; quando vedono restringersi le opportunità di acquisire status e ricchezza, rischiando di perdere le loro posizioni; quando la povertà e i disordini popolari rendono loro difficile sfruttare economicamente la popolazione, le élites possono convincersi che è necessario instaurare un nuovo governo, se non addirittura un nuovo regime.Sono molte le potenziali cause di disgregazione delle relazioni tra le élites: un cambiamento nell'economia internazionale o un coinvolgimento militare che minaccia i loro redditi o il loro status; la crescita demografica o una crisi economica che crea una diffusa penuria, riducendo profitti e beni da spartire tra le classi privilegiate; l'insieme delle trasformazioni dell'economia nazionale, o la corruzione del governo, che indebolisce o annulla le loro tradizionali posizioni; la comparsa di nuovi aspiranti a posizioni elitarie, provenienti da gruppi etnici o economici che in precedenza avevano status e ricchezze modesti, ma che si sono arricchiti e reclamano ora di entrare a far parte dell'élite della società.
In una società flessibile, caratterizzata da una diffusa partecipazione delle élites al sistema politico e dalla mobilità sociale, è improbabile che insorgano conflitti di questo tipo. I gruppi elitari saranno in grado di sopportare i mutamenti della politica statale, di formare coalizioni con altre élites e categorie del popolo, e di introdurre riforme per risolvere i conflitti. In una società rigida, per contro, in cui molte élites si trovano escluse dal potere - è questo il caso delle monarchie tradizionali o delle dittature personali moderne -, tali conflitti possono aggravarsi arrivando a un punto di rottura. Il verificarsi di una rivoluzione non è dunque legato soltanto ai conflitti delle élites, ma anche alla loro capacità e a quella dello Stato di risolvere pacificamente tali conflitti.
Debolezza dello Stato. - Affinché uno Stato possa governare la società occorrono due condizioni. In primo luogo, esso deve avere mezzi finanziari sufficienti, derivati dalle entrate fiscali o dal controllo delle attività economiche o delle materie prime (ad esempio il petrolio). In secondo luogo, deve poter contare su un adeguato consenso politico - da parte della burocrazia, dell'esercito, della classe imprenditoriale e di altre élites, nonché della popolazione in generale - affinché i suoi ordini vengano eseguiti, perlomeno di buon grado se non con entusiasmo. In certa misura, la forza in un ambito può compensare la debolezza nell'altro. Ossia, se ha mezzi finanziari insufficienti ma un adeguato consenso politico, lo Stato può far approvare nuove politiche volte ad aumentare gli introiti fiscali. Viceversa, se è economicamente forte può assoldare militari e forze di polizia per garantire l'esecuzione delle sue disposizioni. Tuttavia uno Stato non può funzionare quando è in bancarotta, né per quanto ricco può sopravvivere se nessuno rispetta i suoi ordini. Dunque uno Stato può essere forte (ricco di risorse e di consenso politico), debole (scarso sia di risorse che di consenso) o moderatamente debole (forte in un ambito e debole nell'altro).
Uno Stato forte può far fronte a un diffuso scontento popolare e a una (limitata) opposizione da parte dell'élite. Se dispone di risorse sufficienti e di un consenso politico adeguato può intraprendere la strada del compromesso e delle riforme. Quando invece uno Stato è debole, il malcontento popolare e l'opposizione dell'élite possono dar luogo a conflitti che esso non può risolvere senza mettere a repentaglio la sua stessa esistenza. In questi casi, i conflitti tra Stato e gruppi sociali possono aggravarsi sino a sfociare in una rivoluzione.
Due esempi di Stato moderatamente debole sono le monarchie tradizionali (ad esempio la monarchia inglese e quella francese della prima età moderna, o i governi imperiali della Russia e della Cina) e le moderne dittature personali (ad esempio le dittature dello scià in Iran e di Ferdinand Marcos nelle Filippine). Le monarchie tradizionali spesso sono politicamente forti perché la lunga tradizione della corona ereditaria gode di prestigio e di rispetto sia tra il popolo che tra l'élite. Tuttavia altrettanto spesso sono deboli sul piano economico, in quanto i sistemi fiscali tradizionali in genere sono rigidi e incapaci di adattarsi ai cambiamenti demografici ed economici. Di conseguenza quando cessano di espandersi e i loro introiti si congelano o diminuiscono, mentre la popolazione continua a crescere, imperi e monarchie diventano frequentemente vulnerabili alle rivolte. Quando questa debolezza economica si associa a una sconfitta militare, o a un aumento della corruzione, o a conflitti religiosi che portano a una perdita di consenso politico, le monarchie e gli imperi tradizionali risultano fatalmente indeboliti ed esposti a una rivoluzione.
Le dittature personali spesso sono economicamente forti grazie alle entrate derivate dal controllo degli aiuti esteri, delle attività economiche e delle risorse. In genere, però, sono deboli sul piano politico in quanto concentrano il potere sia politico che economico nelle mani del dittatore e di una ristretta cerchia di fedeli escludendone tutti gli altri gruppi. In questi Stati, il governo appare potente sinché resta sufficientemente forte sul piano finanziario da gestire in modo efficiente l'economia, ricompensare generosamente i sostenitori e punire gli oppositori, ma risulta fatalmente indebolito allorché le sue risorse diminuiscono a seguito di un cambiamento nella situazione economica o politica interna e internazionale. Gli oppositori possono allora far sentire la propria voce e reclamare un cambiamento. Lo Stato può rispondere cercando di aumentare la pressione fiscale sul popolo e sull'élite, oppure reprimendo l'opposizione; tuttavia il più delle volte queste misure non riescono a rafforzare il governo, conducendo piuttosto all'isolamento del dittatore e suscitando un odio generalizzato nei suoi confronti. Sono proprio queste le condizioni che hanno portato alle rivoluzioni dell'Iran, del Nicaragua e delle Filippine.
Negli anni ottanta gli Stati comunisti dell'Europa orientale e l'Unione Sovietica mostravano entrambe le forme di debolezza: le rigidità e l'inefficienza dei loro sistemi economici portarono alla debolezza finanziaria, mentre un governo chiuso, che escludeva chiunque tranne i leaders dei partiti comunisti dal potere politico ed economico, portò a una perdita di consenso politico. Verso la fine del decennio questi Stati divennero così vulnerabili alla rivoluzione.
Nella Cina comunista, d'altro canto, le riforme nel settore agricolo e commerciale determinarono un'eccellente performance economica (con un tasso di crescita di quasi il 10% annuo del prodotto interno lordo negli anni ottanta), rafforzando lo Stato sul piano finanziario e assicurandogli il consenso politico. Sebbene l'esclusione dal potere di quanti non erano membri del partito e un periodo di elevata inflazione nelle città determinassero la protesta degli studenti e dei lavoratori nel 1989, il governo cinese era allora abbastanza forte da soffocare gran parte dell'opposizione. Con l'allontanamento dal socialismo, tuttavia, il partito ha perso il suo sostegno ideologico, e la crescita economica non può continuare sempre a un ritmo altrettanto sostenuto. Se si verificasse una stagnazione economica, o se al regime venisse a mancare la forza finanziaria per controbilanciare una struttura politica chiusa e ideologicamente indebolita, anche il regime comunista cinese potrebbe diventare vulnerabile a un cambiamento rivoluzionario.
Pressioni internazionali. - Le relazioni tra masse, élites e Stato non si sviluppano in un ambiente chiuso; spesso la politica interna è condizionata da forze esterne: un aiuto economico o militare da parte dei paesi stranieri può consolidare un governo debole; la situazione economica internazionale può influenzare la crescita nazionale e le entrate di uno Stato; un intervento straniero diretto può cercare di sostenere o di abbattere un governo. Ad esempio, l'intervento dell'Unione Sovietica nei paesi dell'Est europeo stroncò le rivoluzioni tentate in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968. Quando però, nel 1989, Michail Gorbačëv ridusse l'influenza sovietica nell'Est europeo, si verificarono rivoluzioni a catena.
Coalizioni e conflitto. - Come abbiamo già osservato, in una situazione rivoluzionaria i vari gruppi sociali possono opporsi al governo per diverse ragioni. In una società esistono differenti élites -politiche, economiche e religiose - e anche le masse sono costituite da gruppi diversificati - rurali, urbani, religiosi, etnici, ecc.
Alcune élites possono opporsi al governo in quanto escluse dal potere; altre possono criticarne la corruzione o l'incompetenza; alcune possono ribellarsi alla mancanza di opportunità di migliorare il proprio status e la propria situazione economica; altre ancora possono vedere con sfavore l'influenza straniera o la dipendenza da altri paesi. I gruppi popolari tendono ad avere preoccupazioni di tipo più tradizionale - la perdita della terra per i contadini, la disoccupazione e l'eccessivo aumento dei prezzi per i lavoratori urbani. Sia le élites che le masse possono sentirsi minacciate dalle politiche del governo che violano principî religiosi o culturali tradizionali, o che privilegiano un determinato gruppo etnico o regionale. Una volta iniziata la fase delle dimostrazioni e delle rivolte la repressione del governo, se troppo estesa o erratica, può spingere élites e masse tra le file dell'opposizione.
Per potersi coalizzare promuovendo una rivoluzione, anziché entrare in conflitto reciproco e subire la repressione del governo, i diversi gruppi sociali debbono trovare un qualche principio di cooperazione, uno strumento per coalizzarsi contro lo Stato. Una siffatta coalizione interclassista, capace di unire diversi gruppi delle élites e del popolo è la chiave di una rivoluzione riuscita.
Nelle prime fasi di una rivoluzione, tale coalizione in genere è guidata dai riformatori moderati (poiché i radicali più estremisti sono in carcere, in esilio o alla macchia), ma al progredire della rivoluzione si trova ad affrontare una varietà di conflitti. In primo luogo, deve lottare contro il governo e le forze controrivoluzionarie. In secondo luogo, una volta rovesciato il vecchio governo, viene dilaniata da conflitti interni tra estremisti e moderati, conflitti che di solito portano a una trasformazione dell'ideologia rivoluzionaria, e poi al terrore di Stato e alla guerra.
In particolare, la coalizione rivoluzionaria spesso si disgrega in diverse fazioni che lottano tra loro per conquistare il consenso popolare e per impadronirsi del potere. In questi casi, la guerra civile e la violenza rivoluzionaria possono essere più distruttive dopo la caduta del vecchio regime che non nel periodo che ne ha preceduto il crollo. Le campagne dei rivoluzionari francesi contro i gruppi moderati delle regioni occidentali e meridionali, la campagna stalinista contro i contadini, la 'rivoluzione culturale' di Mao contro i burocrati moderati e i pragmatici in Cina, e la campagna del clero iraniano contro i liberali occidentali furono altrettanto se non più violente di quelle che portarono i rivoluzionari al potere. In questi conflitti, gli scontri ideologici e fisici possono subire un'escalation, imprimendo alla politica rivoluzionaria un orientamento più radicale.
Ideologia e nazionalismo. - Nella prima fase di una rivoluzione si rende necessaria un'ideologia generale e onnicomprensiva in grado di unire gli oppositori del governo. Di solito si tratta di formule assai semplici, che sembrano promettere a tutti qualcosa e non richiedono spiegazioni dettagliate: slogan quali 'creare la democrazia' o 'forgiare una repubblica islamica' ne sono un esempio. D'altra parte, via via che la lotta con le forze controrivoluzionarie si fa più aspra, i capi della rivoluzione devono proporre una ideologia più forte, in grado di ispirare il sacrificio per la causa e creare legami più profondi tra i sostenitori. In genere un'ideologia di questo tipo prende la forma di un nazionalismo estremo, di una posizione del 'noi contro tutti', in cui i rivoluzionari e i loro sostenitori si proclamano gli autentici difensori della virtù del loro paese, bollando tutti i controrivoluzionari come nemici e traditori.
Nelle fasi iniziali delle rivoluzioni, pertanto, troviamo di solito un'ampia coalizione che formula obiettivi moderati in grado di soddisfare tutti. Man mano che procede la lotta per il potere, però, gli obiettivi moderati risultano sempre meno soddisfacenti. Spesso vengono alla ribalta leaders più estremisti, con un'ideologia più forte e più radicale, che rivendicano il ruolo di veri difensori della rivoluzione e della nazione e attaccano chiunque si opponga a tale rivendicazione.
L'ideologia dei capi rivoluzionari inoltre influenza profondamente le istituzioni dello Stato postrivoluzionario. I leaders di orientamento liberale cercano di istituire regimi costituzionali che promuovano l'iniziativa economica privata e limitino il potere statale; i rivoluzionari di orientamento marxista-leninista, per contro, cercano di creare Stati monopartitici che reprimano il dissenso e controllino l'economia. Le convinzioni religiose dei capi rivoluzionari - siano esse di stampo fondamentalista (è questo il caso dei puritani nella Rivoluzione inglese e dei religiosi in quella iraniana) oppure secolare (come nel caso delle rivoluzioni francese, russa e cinese) - hanno governato le organizzazioni e le pratiche religiose. L'adesione al capitalismo o al socialismo ha determinato in che misura gli Stati postrivoluzionari hanno adottato politiche redistributive della ricchezza e del reddito. E democrazie postrivoluzionarie si sono affermate solo là dove, come nelle Filippine e in Nicaragua, la leadership rivoluzionaria aderiva fermamente alla democrazia considerandola l'obiettivo primario.Infine, un ruolo importante nell'ostacolare o favorire la rivoluzione è svolto dal più ampio contesto culturale di una società. Là dove esistono modelli culturali caratterizzati da una concezione progressista della storia, in cui in particolare viene messo l'accento sulla purificazione della società terrena quale segno o requisito di un futuro trionfo divino, i leaders rivoluzionari si serviranno di queste idee per promuovere e giustificare una riforma radicale della società. La teologia protestante e le sue derivazioni laiche del liberalismo razionalistico e del marxismo hanno costituito modelli culturali estremamente favorevoli per un cambiamento rivoluzionario, e la loro diffusione spesso ha preparato la strada a una rivoluzione. Là dove invece domina un modello culturale caratterizzato da una concezione ciclica della storia in cui i cambiamenti terreni sono considerati irrilevanti rispetto alle vittorie spirituali (è questo il caso del cattolicesimo conservatore e di gran parte delle religioni dell'Asia orientale), l'aspirazione a una trasformazione radicale della società ha poche probabilità di affermarsi. Nelle società che conoscono solo modelli culturali di questo tipo, anche quando si verificano crisi politiche e tracolli dello Stato, le élites cercheranno di ripristinare le istituzioni tradizionali anziché di attuare una riforma globale della società.
Guerra e terrore di Stato. - È un altro paradosso della storia il fatto che le rivoluzioni, le quali mirano in genere ad alleviare il malcontento espresso sia dalle élites che dalle masse, siano spesso causa di gravi sofferenze e perdite. I rivoluzionari che lottano per il potere sono impegnati in una guerra totale, in primo luogo contro il vecchio governo e i suoi alleati. Quando le forze controrivoluzionarie si trovano per la maggior parte all'interno del paese, può scaturirne una guerra civile, mentre quando sono i paesi stranieri che cercano di soffocare la rivoluzione, il risultato è una guerra internazionale. La maggior parte delle rivoluzioni, comprese quelle in Iran, Nicaragua e Vietnam, portarono sia alla guerra civile che a una guerra internazionale, con centinaia di migliaia di vittime.Inoltre, le coalizioni rivoluzionarie spesso si disgregano allorché si tratta di decidere fino a che punto ci si debba spingere nella prosecuzione di una guerra, nella distruzione del vecchio governo o nella redistribuzione della proprietà e del potere. Le correnti moderate e i radicali estremisti finiscono per entrare in conflitto, e poiché questi ultimi in genere hanno maggiori capacità di mobilitare il consenso popolare, spesso riescono per un certo tempo a impadronirsi del potere, istituendo un regime di terrore contro gli avversari.
Nel periodo del terrore di Stato, il nuovo governo cerca di eliminare le forze controrivoluzionarie dalla società conducendo una caccia al nemico senza quartiere che dà una sferzata all'entusiasmo popolare e spesso avviene senza troppi riguardi per la legalità: l'epurazione della società viene anteposta a tutto. Il periodo di terrore può essere breve, può durare anni, o può ripresentarsi a intervalli. Tra gli strumenti del terrore di Stato vi sono l'uso di informatori e l'istituzione di una polizia segreta, processi esemplari, esecuzioni, condanne a lunghe pene detentive o all'esilio, campi di rieducazione per qualunque atto di opposizione. Significativi periodi di terrore di Stato si ebbero nelle rivoluzioni francese, russa, cinese, cambogiana e iraniana, mentre nei regimi rivoluzionari vietnamita, cubano, messicano, afghano e iracheno la repressione è stata per certi versi meno sanguinosa.
I rivoluzionari spesso giustificano i costi del terrore e della guerra proclamandoli sacrifici necessari per raggiungere gli obiettivi della rivoluzione. Di fatto, peraltro, le rivoluzioni hanno prodotto risultati non omogenei e spesso deludenti.
Le rivoluzioni hanno come esito una serie di mutamenti nelle istituzioni, negli atteggiamenti, nei rapporti geopolitici e nell'organizzazione economica. Sebbene gli esiti rivoluzionari varino a seconda del grado e dell'efficienza del cambiamento prodotto, è possibile operare alcune generalizzazioni.
Rafforzamento dell'autorità del governo. - Le rivoluzioni si verificano quando i governi sono incapaci di rispondere alle rivendicazioni della popolazione e delle élites e di difendersi dagli attacchi degli oppositori. I rivoluzionari, pertanto, sono in genere consapevoli della necessità di rafforzare il governo onde evitare che esso venga rovesciato a sua volta. I mezzi usati a tale scopo sono in genere un accaparramento delle risorse, un aumento delle tasse e una significativa espansione delle dimensioni dello Stato.
Spesso ai ceti abbienti vengono confiscati terre e beni, che vengono poi amministrati dallo Stato o redistribuiti per conquistare il consenso popolare. Altrettanto frequente è l'abolizione di tasse e imposte impopolari, o di vecchi privilegi dell'élite. Notevoli sforzi vengono inoltre dedicati alla diffusione di una ideologia nazionalista fortemente motivante. Per tutte queste ragioni, una volta conquistato il potere, i governi rivoluzionari possono contare in genere su un vasto consenso popolare, e tendono quindi a essere più forti dei governi che hanno soppiantato, sia sul piano economico che in termini di sostegno politico. Poiché i governi rivoluzionari hanno una notevole capacità di mobilitare la popolazione per una guerra in difesa della rivoluzione, gli Stati nati da una rivoluzione tendono inoltre a essere potenze militari più formidabili e aggressive rispetto a quelli precedenti.
Orgoglio nazionale. - Sebbene forse non sia facilmente definibile, l'esito più comune e significativo di una rivoluzione è quello di creare nei cittadini del nuovo Stato rivoluzionario un profondo senso di orgoglio per la propria indipendenza e autodeterminazione. La sensazione di essere padroni del proprio destino, di tener testa ad altri paesi e ai cattivi leaders rende i periodi rivoluzionari estremamente eccitanti e significativi per gli individui coinvolti. L'orgoglio nazionale può costituire un importante sostegno per un governo rivoluzionario anche quando questo ha cominciato già da tempo a sperimentare notevoli difficoltà economiche o politiche, come accade a Cuba e nella Cina contemporanea. D'altro canto, la repressione dell'orgoglio nazionale nei governi comunisti dell'Est europeo, impostata dalla Russia dopo la seconda guerra mondiale, contribuì a preparare la strada alle rivoluzioni in quei paesi dopo l'indebolimento dei loro governi. Inoltre, là dove nuovi regimi (instaurati attraverso una rivoluzione o con altri mezzi) non riescono a creare un senso di identità nazionale, la debolezza dello Stato può favorire l'affermazione di identità alternative e la nascita di aspri conflitti tra i diversi gruppi sociali, come è accaduto dopo il crollo della Iugoslavia.
Problemi di crescita economica e di ineguaglianza. - Le rivoluzioni, purtroppo, si sono dimostrate incapaci di risolvere simultaneamente il problema di assicurare la crescita economica e di ridurre l'ineguaglianza. Le rivoluzioni sfociate in società capitalistiche - come quella americana del 1776, quella francese del 1789 e la rivoluzione messicana del 1911 - hanno permesso all'imprenditoria privata di produrre e accumulare notevoli ricchezze e hanno raggiunto un notevole sviluppo economico, ma hanno anche tollerato che si sviluppassero vistose diseguaglianze e persino un'estrema povertà, talvolta superiore a quella della società prerivoluzionaria.Le rivoluzioni che hanno portato alla creazione di società socialiste - come quella russa del 1917, quella cinese del 1949 e la rivoluzione cubana del 1958 - hanno avuto esiti più positivi per quanto riguarda l'incremento dell'eguaglianza e l'eliminazione della povertà estrema. Sebbene tutte le rivoluzioni comportino in genere una qualche redistribuzione della terra o del reddito, tali perequazioni sono state più radicali e di lunga durata nelle società socialiste, che sono riuscite inoltre ad assicurare un elevato livello di alfabetizzazione e l'accesso all'assistenza sanitaria a tutte le fasce della popolazione. Nello stesso tempo, però, le società socialiste hanno soffocato l'imprenditoria privata, e la pesante regolamentazione dell'economia ha impedito la flessibilità, l'innovazione e lo sviluppo in generale. Di conseguenza, dopo una rapida crescita economica iniziale, esse sono entrate in una fase di stagnazione. Al crescere della popolazione e vedendosi sorpassati dalle società capitalistiche, i paesi socialisti hanno cercato di offrire ai cittadini una vita economica più egualitaria, ma che ha suscitato crescente insoddisfazione. A questo punto, si è verificato un declino delle risorse economiche e del consenso politico del governo, che ha reso i governi dell'Unione Sovietica e dei paesi dell'Est europeo vulnerabili alle rivoluzioni del 1989-1991.
Problemi di democrazia. - Le rivoluzioni in genere promettono maggiore democrazia ed eguali diritti per tutti, incluse le minoranze religiose ed etniche e le donne. Tuttavia la democrazia finisce spesso per essere sacrificata nella lotta con le forze controrivoluzionarie. La guerra e il terrore richiedono un rigido controllo centrale e portano a una militarizzazione della società. La caccia ai nemici controrivoluzionari tende a conglomerare il popolo in un unico partito rivoluzionario. Di conseguenza le rivoluzioni sfociano di solito in dittature personali o in regimi monopartitici, che offrono scarsa tutela, e spesso perseguitano i gruppi di minoranza che restano estranei al nazionalismo aggressivo del governo rivoluzionario. La persecuzione dei Tibetani in Cina, quella dei Curdi in Iran e degli Amerindi in Nicaragua non sono che alcuni esempi di persecuzione etnica in nuovi Stati rivoluzionari. Inoltre, là dove i diritti delle donne sono stati da lungo tempo negati, le rivoluzioni guidate da uomini, nonostante le buone intenzioni, difficilmente apportano significativi cambiamenti nella condizione femminile.
La democrazia tende ad affermarsi solo nelle società postrivoluzionarie che non devono affrontare forti minacce controrivoluzionarie interne, o dopo che tali minacce sono state scongiurate, e là dove la leadership rivoluzionaria ha una salda fede democratica. L'India, le Filippine, il Portogallo, il Nicaragua e gli Stati Uniti sono tra i pochi esempi di nazioni che dopo una rivoluzione sono diventate democrazie consolidate. Tuttavia, dopo parecchi decenni, con l'affermarsi dei ceti medi e professionali, anche negli Stati rivoluzionari monopartitici i cittadini possono reclamare il ripristino della democrazia pluralistica soppressa nella fase iniziale, allorché lo Stato cercava di consolidare il proprio potere. È quanto è avvenuto in Messico, in Cina, nell'ex Unione Sovietica e nei paesi dell'Est europeo.
La storia delle rivoluzioni mostra un'estrema varietà di cause, sviluppi ed esiti dell'azione rivoluzionaria. Dall'antichità all'epoca moderna vi sono sempre stati rovesciamenti di governi da parte di gruppi sociali che aspiravano a un cambiamento, ma i metodi e gli scopi sono stati assai diversi. Nessun tipo di regime sembra totalmente immune dalla rivoluzione, sebbene le monarchie tradizionali, gli imperi e le dittature personali risultino particolarmente vulnerabili.Le teorie della rivoluzione basate sulla contrapposizione masse/élites e sul conflitto di classe sono troppo semplicistiche per render conto di tale complessità e varietà di situazioni. Più utile si rivela un modello processuale che presti attenzione ai mutamenti nelle strutture e nelle relazioni tra Stati, élites e gruppi popolari, nonché al ruolo delle coalizioni rivoluzionarie, delle pressioni internazionali e delle ideologie.
Le rivoluzioni si verificano in paesi che si trovano ad affrontare le pressioni di un conflitto internazionale o di una crescita demografica con Stati deboli, élites divise e conflittuali, e una popolazione con un livello elevato di malcontento e un significativo potenziale di mobilitazione. Finché queste condizioni continueranno a ripresentarsi - e vi sono tutti i presupposti perché si vengano a creare in molte regioni dell'Africa, nel Medio Oriente, nell'America Latina, in Asia e persino in Cina - la storia delle rivoluzioni non potrà dirsi conclusa. (V. anche Anarchismo; Classe, coscienza di; Comunismo; Conflitto sociale; Giacobinismo; Guerriglia; Marxismo; Movimenti sociali; Proletariato; Riformismo; Socialismo).
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Concetto e forme storiche
di Massimo L. Salvadori
La rivoluzione come fenomeno politico e come processo di lungo periodo.
Nelle scienze storico-sociali il termine 'rivoluzione' si presenta con una molteplicità di significati. Due però sono quelli fondamentali. Da un lato esso indica un processo di sovvertimento - di ampie proporzioni ma compreso in un periodo di tempo definito e in genere accompagnato dall'uso di mezzi violenti - dell'ordine costituito politico e istituzionale, condotto contro i gruppi detentori del potere da parte di forze aventi quale scopo la formazione di un nuovo potere. Si tratta di un sovvertimento che può allargarsi, in maniera più o meno radicale, anche alla sfera delle relazioni economico-sociali. Questo significato ha un carattere primariamente, anche se certo non esclusivamente, politico, in quanto ha come punto di riferimento essenziale lo Stato, i suoi organi e i presupposti della legalità e della legittimità. Dall'altro lato il termine viene usato per caratterizzare una trasformazione di lungo periodo, tale da non poter essere compresa tra un punto iniziale e un punto finale precisi, che ha come effetto di produrre il passaggio da un tipo di orientamento o organizzazione della cultura, della mentalità, dei costumi, dei rapporti sociali ed economici, della tecnologia, ecc. a un altro. I due significati sono però riconducibili a uno solo quantomeno nel senso che entrambi comportano un cambiamento che si può definire qualitativo ed epocale. Esempi del primo significato sono le grandi rivoluzioni politiche moderne e contemporanee. Esempi del secondo sono anzitutto la rivoluzione scientifica del Seicento e la rivoluzione industriale del Sette-Ottocento, e sempre a esso sono da collegarsi le rivoluzioni della stampa, dei prezzi, del commercio, dei costumi, della tecnologia, dei trasporti, dell'organizzazione, demografica, verde, sessuale, bioetica, informatica, quantistica, ecc. In relazione alla natura dei rapporti coinvolti nel processo rivoluzionario, si parla altresì per un verso di rivoluzione politica, sociale, culturale, totale, permanente, per l'altro di rivoluzione internazionale o nazionale; mentre per quanto riguarda i soggetti coinvolti sono correnti espressioni come rivoluzione dall'alto, dal basso, di minoranza, di massa, giacobina, comunista, manageriale; infine dalla base di sostegno economico-sociale derivano concetti come rivoluzione borghese e proletaria. Inoltre, la rivoluzione in senso politico può essere intesa, secondo una metafora di origine astronomica, come un movimento bensì convulsivo ma destinato a riportare il corpo sociale e politico al punto di partenza (concezione questa tipica dei controrivoluzionari) oppure come un processo che sposta le basi dell'ordine sociopolitico da un assetto all'altro in maniera irreversibile.
Nel linguaggio che fa riferimento alle rivoluzioni politico-istituzionali, il concetto di rivoluzione si trova in diretta antitesi con quelli sia di 'evoluzione', sia di 'riforma', presentandosi la rivoluzione come la rottura di un processo evolutivo o il fallimento di un movimento riformatore. Per contro, questa antitesi non si presenta necessariamente per quanto attiene alle rivoluzioni di lungo periodo di carattere sociale o economico, poiché è possibile configurare la rivoluzione politico-sociale che erompe in un determinato momento quale evento culminante di un'evoluzione anche secolare e plurisecolare.
Il significato politico del concetto fa la sua comparsa nell'Italia medievale. Giovanni Villani, per indicare traumatici mutamenti, parla di "novità e varie rivoluzioni", di "diverse rivoluzioni" avvenute a Firenze; Matteo Villani di "rivolture" prodottesi in molte città italiane e di "subita rivoluzione fatta per i cittadini di Siena"; e Domenico Buoninsegni, a proposito dei Ciompi, di "grande novità e rivoluzione quasi incredibile". Il termine si trova altresì nel XVI secolo in Machiavelli, il quale fa riferimento alle "tante revoluzioni di Italia", e in Guicciardini, che scrive, ad esempio, che tutto lo Stato di Milano "era in rivoluzione". Qui 'rivoluzione' ha un significato neutro, in quanto indica un fenomeno di per sé né negativo né positivo; esso è sinonimo di un cambiamento che interviene ad alterare la stabilità delle istituzioni esistenti. Il termine incomincia a diffondersi nel linguaggio politico seicentesco anche in Francia e in Inghilterra. Hobbes nel Behemoth (1679) impiega 'rivoluzione', a proposito della prima rivoluzione inglese, per indicare sia un movimento circolare che, partito da un punto (la violazione dei diritti di sovranità nei confronti di Carlo I), perviene nuovamente a esso (la restaurazione con Carlo II), sia una distruttiva e illegittima ribellione nei confronti dell'ordine costituito. Si tratta di una concezione per un verso analoga e per l'altro opposta a quella espressa da Locke nei Due trattati sul governo civile (1690), dove questi da un lato considera la 'gloriosa rivoluzione' un ritorno a principî precedenti sovvertiti dall'assolutismo, dall'altro legittima la rivoluzione, in quanto diretta a difendere diritti inalienabili, come un atto positivo. Così Locke pone le premesse perché la parola 'rivoluzione' venga impiegata nel Settecento per indicare non solo un sovvertimento violento di grandi proporzioni ed effetti, ma anche un avvenimento che, dati certi presupposti, assicura il benessere della società. Nel Settecento il termine incomincia a diventare di uso corrente, come si può vedere negli scritti di Montesquieu, Hume, Gibbon, Raynal, Voltaire, Rousseau, Mercier, Diderot, Herder, Kant. È da notarsi che nella cultura politica dell'illuminismo le rivoluzioni politiche traggono la loro legittimazione dal fatto di aprire la strada al miglioramento dell'umanità attraverso un'azione che ha la funzione di fondare le istituzioni sul 'ritorno' ai diritti naturali. Significati contemporaneamente presenti di rivoluzione sono quelli di mutamento generale delle condizioni e delle fortune, di profondo cambiamento attinente al potere e alle istituzioni dello Stato, di processo innovativo di lungo periodo e di vasto respiro culturale o economico-sociale. Con Voltaire, il quale parla di una "grande rivoluzione" che ha sede nello "spirito umano", si consolida quest'ultimo significato. E Raynal si serve dell'espressione "rivoluzione commerciale" per descrivere le trasformazioni compiutesi negli scambi di merci a partire dalla scoperta del Nuovo Mondo. Rousseau nell'Emilio (1762) sostenne che si rendevano "inevitabili" rivoluzioni contro l'ordine sociale esistente e che quindi ci si avvicinava al "secolo delle rivoluzioni".
Alla fine degli anni settanta-ottanta nel linguaggio politico americano ed europeo il termine 'rivoluzione' ha quale punto di riferimento privilegiato la lotta di indipendenza condotta dalle ex colonie contro l'Inghilterra. Ma è nel corso della rivoluzione francese che esso entra nel linguaggio di tutti, articolandosi secondo una varietà di accezioni. Mentre definisce rivoluzionario colui che promuove consapevolmente e attivamente il processo che conduce alla libertà, Condorcet nell'Esquisse (1793) presenta la rivoluzione francese non soltanto come un sovvertimento politico-istituzionale, ma anche come il mutamento che investe "l'intera economia della società", così da "cambiare tutte le relazioni sociali". La rivoluzione si configura come una grande crisi che non ha più come scopo un 'ritorno', ma apre la strada a un avvenire di progresso.
Dal canto loro tanto il controrivoluzionario F. Gentz quanto F. Schlegel, per indicare l'insieme delle relazioni coinvolte nella rivoluzione francese, scrivono che essa si presenta come "totale". Una variante assai significativa, che ritroviamo in Robespierre, Kant e Gentz, è quella - che avrà una storia quanto mai ricca - che porta a definire le varie fasi della rivoluzione come tali da saldarsi così da dar luogo a una 'rivoluzione permanente' o 'ininterrotta'. L'osservazione che il sovvertimento politico e sociale avente il suo centro in Francia si estende in più Stati induce J. Mallet du Pan ed E. Burke a descrivere il fenomeno quale "rivoluzione internazionale": un'espressione che diventerà poi corrente nella letteratura e nella pubblicistica, specie marxista, dopo l'ondata rivoluzionaria europea del 1848-1849.
Alle divergenti posizioni, fin dagli inizi della rivoluzione francese, di Burke - che nelle Riflessioni sulla rivoluzione francese (1790) accusò i rivoluzionari di rifarsi a una antistorica "concezione geometrica e matematica" - e di T. Paine - il quale ne I diritti dell'uomo (1791-1792) replicò che "le circostanze del mondo mutano continuamente", che, essendo "il governo fatto per i vivi e non per i morti", i primi hanno "tutti i diritti" di decidere della sua forma e che la rivoluzione francese traeva la propria origine dalla "riflessione razionale sui diritti dell'uomo" - è da ricondursi la contrapposizione, destinata a diventare un topos della letteratura in materia, tra la concezione della rivoluzione quale forzatura artificiosa rispetto al carattere naturale dell'evoluzione storica e quella secondo cui la rivoluzione è creatrice di storia e quindi per sua natura positiva e liberatoria. Secondo Burke, infatti, come anche per Herder, le rivoluzioni come quella francese vengono fatte; e 'fare le rivoluzioni' significa imporre alla società astratti principî, in contrasto con quella sana evoluzione che fonda il nuovo sull'eredità selettiva del passato. Laddove, secondo Paine, la rivoluzione francese rappresenta l'abbattimento di ostacoli divenuti intollerabili in nome dei diritti dell'uomo, della società e della nuova storia. Se a Burke la rivoluzione appare il prodotto di un soggettivismo astratto, per Gentz essa è un "mostro" e per de Maistre un "attentato contro la sovranità" e i suoi fondamenti legittimi. Si tratta, per quest'ultimo, di un crimine permesso dalla provvidenza al fine di rieducare gli uomini mediante lo spettacolo offerto dal peccato trionfante, che ha le sue radici negli 'errori' - quali il protestantesimo, la massoneria, l'illuminismo, il razionalismo - provocati dall'abbandono degli insegnamenti della Chiesa e dalla rivolta contro le istituzioni politiche stabilite da Dio. Di qui il suo considerare la rivoluzione come un moto di allontanamento che prepara il 'ritorno' agli inviolabili principî su cui devono poggiare le istituzioni politiche. Sarà contro questo tipo di approccio che Lorenz von Stein nel 1850 affermerà che "non le verità filosofiche, ma le classi sociali fanno le rivoluzioni", in ciò in piena consonanza con Marx e Tocqueville.
La fase giacobina della rivoluzione francese (17931-794) porrà in primo piano il rapporto tra rivoluzione e violenza. Robespierre e Saint-Just rivendicarono il pieno diritto dei rivoluzionari a istituire un regime eccezionale fondato sull'uso terroristico della violenza per combattere le forze controrivoluzionarie, poiché la rivoluzione - disse Robespierre nel 1793 - "è la guerra della libertà contro i suoi nemici". Il regime eccezionale altro non è che la dittatura. Con i giacobini si stabilisce dunque un rapporto indissolubile tra rivoluzione e dittatura; un nesso che - attraverso Babeuf secondo cui la rivoluzione francese ha la natura di "una guerra dichiarata tra patrizi e plebei, tra ricchi e poveri" - entrerà in maniera costitutiva nella concezione marxista della rivoluzione.
In F. Engels, K. Marx e A. de Tocqueville il concetto di rivoluzione non si trova più correlato ai 'diritti' di natura e dell'uomo, ma ai processi di modernizzazione. Questi tre grandi studiosi hanno in comune il considerare la rivoluzione in una prospettiva di lungo periodo, nella quale è lo sviluppo dei rapporti sociali, economici e giuridici a provocare la rivoluzione politica, che è quindi da considerarsi come un'accelerazione dei contrasti di interesse interni al corpo sociale e l'espressione di un conflitto giunto a una fase culminante tra le componenti in lotta. Senonché il filo rosso della rivoluzione in epoca moderna è costituito per Marx ed Engels dalla lotta di classe tra la borghesia, detentrice del capitale, e il proletariato, detentore della forza lavoro, tra sfruttatori e sfruttati: lotta radicata nella natura disarmonica dei rapporti di produzione, condotta in prima persona dal proletariato e finalizzata a quell'eguaglianza economica da cui dipende sia ogni altro tipo di eguaglianza sia la futura armonia sociale. Tocqueville vede invece nelle lotte generate dalla diseguaglianza giuridica e civile la maggiore fonte della rivoluzione nell'epoca moderna, e nella democratizzazione la condizione del loro superamento. Nel contesto tocquevilliano i punti di riferimento fondamentali non sono come in Marx ed Engels lo sviluppo capitalistico con le sue contraddizioni, a partire dalla rivoluzione industriale inglese, e la futura rivoluzione del proletariato socialista, bensì le istituzioni della diseguaglianza e l'avvento della democrazia americana nonché la rivoluzione che in Francia e in Europa ha spezzato le condizioni di privilegio proprie dell'antico regime, nel quadro del processo secolare di livellamento messo in atto dallo Stato centralistico.
L'idea che la rivoluzione proletaria sarebbe stata il prodotto dello sviluppo oggettivo del capitalismo nella sua forma moderna consentì a Engels, nel suo studio su La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), di elaborare il concetto - che poi avrebbe avuto la più larga circolazione a partire dalle Lectures on the industrial revolution (1884) di A. Toynbee - di 'rivoluzione industriale', usato per indicare il cambiamento, provocato appunto dall'industrializzazione, dell'insieme dei rapporti economici e sociali che ha portato all'avvento della 'società borghese'.In un passo centrale di Per la critica dell'economia politica (1859) Marx ha messo in luce in maniera quanto mai chiara la sua concezione della rivoluzione come conclusione di un processo di lungo periodo di trasformazione dei rapporti economico-sociali, sottolineando che una rivoluzione, la quale rappresenta la fase dell'estremo acutizzarsi della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, non può avvenire prima che quella trasformazione abbia prodotto i suoi effetti: "A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società - egli scrive - entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi si erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. [...] Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza".
Per Marx ed Engels le grandi rivoluzioni sono quelle che pongono fine a una formazione economico-sociale e danno origine a un'altra mediante un periodo di transizione segnato dal sovvertimento violento del vecchio ordine diretto ad aprire la strada a uno nuovo. In questo senso la violenza esercita il ruolo di necessaria levatrice della storia; ed essa si esprime inevitabilmente attraverso la dittatura della classe rivoluzionaria sulla classe o sulle classi controrivoluzionarie. La rivoluzione francese è stata la classica rivoluzione 'borghese'; laddove quella 'socialista' sarà diretta contro la borghesia e il sistema capitalistico e verrà condotta dal proletariato su scala internazionale. La violenza, che avrà un carattere anzitutto sociale, diventerà anche politica a seconda del grado e delle forme della resistenza opposta al dominio del proletariato ovvero alla sua "dittatura", poiché - si afferma nel Manifesto del partito comunista (1848) - il potere politico, nel senso proprio della parola, è "il potere organizzato di una classe per l'oppressione di un'altra".
Nella concezione di Tocqueville la rivoluzione francese, vista come epicentro di un processo storico maturato nei secoli e tale da diventare uno dei grandi capitoli della storia europea, ha avuto - si spiega ne L'antico regime e la Rivoluzione (1859) - due obiettivi essenziali strettamente correlati: l'uno è stato quello di "accrescere la potenza e i diritti dell'autorità pubblica"; l'altro di "abolire le istituzioni politiche [...] designate con il nome di istituzioni feudali, per sostituirvi un ordine sociale e politico più uniforme e più semplice, fondato sull'eguaglianza delle condizioni".
Nel XIX secolo la convinzione che occorresse governare l'inevitabile sviluppo della società divenne dominante, con il contributo fondamentale della cultura positivistica. Si intensificò sempre più il dibattito sul rapporto tra il mutamento regolato dalle riforme e il mutamento scandito dalle rotture rivoluzionarie. Nella seconda metà dell'Ottocento, in maniera essenziale per reazione sia alla 'lezione' del terrore giacobino sia alle rivoluzioni del 1848-1849 sia infine all'esplosione della Comune di Parigi del 1871, emerse l'idea che occorresse far uso delle riforme per impedire la rivoluzione. Erano le posizioni di Burke che tornavano rammodernate. G. Schmoller affermò significativamente nel 1875 che i presupposti del progresso stavano "nel porre la riforma in luogo della rivoluzione". La Germania offrì nel corso del secolo ricorrenti esempi di 'riformismo dall'alto', che trovarono la loro più tipica espressione nell'opera di Bismarck; mentre in Gran Bretagna si affermò un classico esempio di riformismo liberal-parlamentare promosso da élites e leaders politici sensibili alla mobilitazione degli interessi dal basso.
Che le riforme, nel quadro di un sempre maggiore sviluppo della democrazia di matrice liberale e del rafforzamento delle organizzazioni politiche e sindacali, potessero svuotare le istanze rivoluzionarie diventò a fine secolo il Leitmotiv del socialismo riformistico, teso a 'revisionare' la dottrina rivoluzionaria marxista, del quale furono esponenti eminenti in Germania E. Bernstein e in Francia J. Jaurès. A ribadire per contro l'impossibilità per il riformismo di evitare la rivoluzione politica e sociale del proletariato si trovarono in quel periodo in prima fila K. Kautsky e R. Luxemburg. Di grande importanza fu poi il dibattito sviluppatosi tra la fine dell'Ottocento e le rivoluzioni russe del 1917 nella socialdemocrazia internazionale, e in particolare russa, intorno al problema della natura del soggetto preposto a dirigere il processo rivoluzionario e dei presupposti della rivoluzione nei paesi sia capitalisticamente sviluppati sia poco sviluppati.
Marx ed Engels avevano ritenuto che la rivoluzione socialista sarebbe avvenuta solo nella fase terminale dello sviluppo capitalistico ovvero nel momento della crisi generale del capitalismo; che essa avrebbe avuto il proprio agente storico nel proletariato industriale divenuto maggioranza della popolazione; che il proletariato in prima persona, sia pure guidato dai comunisti costituiti in avanguardia 'cosciente', avrebbe stabilito la propria dittatura spezzando le istituzioni dello Stato liberal-parlamentare con lo scopo di introdurre le misure necessarie a procedere alla socializzazione dei mezzi di produzione e alla pianificazione economica. Questa posizione venne respinta a cavallo tra Ottocento e Novecento da Bernstein. Questi, criticando radicalmente la teoria della necessaria crisi generale del capitalismo, della rottura rivoluzionaria e della dittatura di classe, affidò l'avvento del socialismo - considerato come una possibilità da mettersi in atto da un partito 'riformista democratico-socialista' e non una necessità storica - alla difesa e al potenziamento delle istituzioni rappresentative parlamentari di matrice liberale, all'alleanza tra socialdemocrazia e liberalismo democratico, al riformismo economico-sociale e politico. Kautsky e Rosa Luxemburg opposero a Bernstein la validità dello schema generale marxiano, così qualificandosi come 'ortodossi'. Il primo ribadì che la rovina delle classi dirigenti era inevitabile; la seconda che nulla poteva impedire "la crescente anarchia dell'economia capitalistica", su cui si innestavano il bisogno di socializzazione dei mezzi di produzione e il movimento rivoluzionario del proletariato. Essi però negli anni successivi si divisero a loro volta profondamente in relazione a questioni cruciali. Kautsky riteneva che, se pure il proletariato costituiva il naturale protagonista sociale della rivoluzione, gli intellettuali fossero i portatori necessari della coscienza storica rivoluzionaria e il partito - insieme con i sindacati a esso legati - fosse l'agente primario del processo rivoluzionario. Inoltre egli pensava che le elezioni e il parlamento rappresentassero gli strumenti primari della vittoria politica e sociale del proletariato. Rosa Luxemburg si distaccò decisamente da Kautsky su questi punti, arrivando a considerare per contro il proletariato in quanto classe, le sue lotte di massa e lo sciopero generale - in una prospettiva per aspetti sostanziali analoga a quella espressa nelle Riflessioni sulla violenza (1908) da G. Sorel, depurata però dalla pregiudiziale ostilità di questi verso l'azione politica - come i mezzi essenziali su cui occorreva fondare il movimento rivoluzionario. Per Kautsky gli organi politici avevano il compito di guidare la rivoluzione sociale, e la rivoluzione proletaria aveva in Germania il proprio presupposto nella piena democratizzazione in senso parlamentare dello Stato; per la Luxemburg la rivoluzione politica era il prodotto anzitutto del movimento autocosciente delle masse e la lotta per l'allargamento della democrazia in Germania coincideva ormai con la rivoluzione proletaria stessa.
In aspro contrasto con il menscevico Martov, e con Rosa Luxemburg e il giovane Trockij - che lo accusarono di 'neogiacobinismo' autoritario e antimarxista -, Lenin, seguendo un'impostazione accentuatamente elitistica, nel periodo di formazione del bolscevismo (1902-1904) avanzò la tesi che il proletariato in quanto tale fosse incapace di movimento autonomo in senso rivoluzionario e che unicamente un partito di 'rivoluzionari di professione' - ideologicamente coscienti, dotati di una struttura rigidamente gerarchica, capaci di organizzare le masse - fosse in grado di assicurare il compimento degli obiettivi del movimento rivoluzionario. Il partito organizzato, quindi, e non il proletariato in quanto classe, assurgeva a soggetto per eccellenza della rivoluzione. "Il giacobino, legato indissolubilmente all'organizzazione del proletariato, consapevole dei propri interessi di classe, è appunto il socialdemocratico rivoluzionario", affermò Lenin nel 1904. Circa la natura della rivoluzione, data l'arretratezza del capitalismo in Russia, Lenin distinse, ancorché collegandole, due fasi. La prima era quella 'democratica', in cui la socialdemocrazia russa, abbattuto lo zarismo, avrebbe stabilito una dittatura politica in alleanza con gli altri partiti rappresentativi delle masse operaie e contadine, allo scopo di promuovere, in assenza di una borghesia troppo debole, lo sviluppo del capitalismo nel paese. La seconda fase, quella 'socialista', avrebbe avuto inizio quando fosse scoppiata la rivoluzione nell'Europa capitalistica avanzata. Allora la rivoluzione, divenuta internazionale, avrebbe potuto assumere un carattere socialista anche in Russia grazie all'aiuto economico esterno.
Nel corso della prima rivoluzione russa del 1904-1905, il concetto di rivoluzione 'permanente', ripreso da Marx, venne rielaborato prima da Parvus e poi da Trockij in relazione alle condizioni russe, in esplicita polemica contro la posizione dei menscevichi, sostenitori della necessità di una rivoluzione 'borghese', e dei bolscevichi, fautori della distinzione tra le rivoluzioni 'democratica' e 'socialista'. Parvus e Trockij argomentarono che erano impensabili sia una fase della rivoluzione dominata dalla borghesia, poiché in Russia questa non costituiva una potenziale classe dirigente, sia una fase democratica nel senso leniniano, in quanto, se in Russia il capitalismo era globalmente poco sviluppato, il proletariato industriale, fortemente concentrato nelle grandi fabbriche, lo era sufficientemente per venire indotto ad attaccare immediatamente i rapporti di produzione capitalistici con finalità socialiste. Momento democratico e momento socialista erano destinati a saldarsi, così da provocare all'interno della Russia un processo di rivoluzione permanente, nel quadro di una rivoluzione internazionale ormai matura. "Il processo mondiale dello sviluppo capitalistico - scrisse Parvus nel 1904 - conduce al sollevamento politico in Russia e questo sollevamento deve far sentire i propri effetti sullo sviluppo politico dei paesi capitalistici del mondo intero". Se non avesse agito a breve termine come miccia di quella internazionale, la rivoluzione russa non avrebbe potuto sopravvivere né nella forma democratica, né in quella socialista data la dominante arretratezza del paese. In relazione alla comparsa dei consigli degli operai e dei soldati (soviet), considerati quale testimonianza della capacità rivoluzionaria delle masse, Parvus e Trockij teorizzarono inoltre l'apparire della 'democrazia proletaria' o 'sovietica' quale forma originale di democrazia rivoluzionaria antiparlamentare e tipicamente socialista. Una prospettiva, che sarebbe stata fatta propria dal comunismo internazionale dopo il 1917.
Durante gli anni trenta, nel suo riflettere sulle cause della sconfitta subita in Occidente dal comunismo nel primo dopoguerra, Antonio Gramsci - traendo ispirazione da Vincenzo Cuoco, che nel 1801 aveva contrapposto la rivoluzione 'attiva' compiutasi in Francia a quella 'passiva', vale a dire priva di adeguate energie proprie, avvenuta nel regno di Napoli - affermò la necessità nei paesi capitalisticamente sviluppati di una strategia rivoluzionaria tale da fondare il 'dominio' del proletariato (la dittatura comunista) su una matura capacità di 'egemonia', ovvero di direzione del proletariato sui gruppi sociali alleati (gli intellettuali e le masse contadine). La guerra di movimento (il momento culminante della rivoluzione) aveva come condizione, quindi, una lunga guerra di posizione (la lotta per l'egemonia) rivolta a preparare all'interno della società civile l'insieme delle forze necessarie al mutamento qualitativo dei rapporti socioeconomici e dello Stato, poiché "un gruppo sociale può e deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo". Gramsci osservò che, quando in una società si pongono oggettive esigenze di trasformazione qualitativa che le forze progressiste per difetto soggettivo non sono in grado di interpretare in un processo rivoluzionario attivo che coinvolga le masse, allora possono darsi 'rivoluzioni passive' ad opera di forze conservatrici e antipopolari che operano 'dall'alto' con l'intento di riassorbire le istanze popolari nel quadro dei propri interessi e delle proprie strategie. Elementi di rivoluzione passiva si erano avuti a livello europeo durante la Restaurazione e in Italia nel periodo conclusivo del Risorgimento e in certi aspetti della politica fascista.Un'ulteriore variante nella tipologia delle rivoluzioni è la 'rivoluzione culturale', scoppiata in Cina nel 1966 per iniziativa di Mao Zedong. Questi, in esplicita polemica con l''economicismo sovietico' e i suoi seguaci cinesi, ed esprimendo un ipersoggettivismo estraneo al marxismo, sostenne che la fase ultima della rivoluzione proletaria avrebbe avuto come sede privilegiata la sfera non già della struttura economica, bensì delle sovrastrutture ideologiche e istituzionali; poiché era in questa sede che, una volta conquistato il potere, si collocava e si manifestava l'antitesi ultima tra il vecchio e il nuovo mondo. Nel 1969 Lin Biao definì la rivoluzione culturale come "una grande rivoluzione nel campo della sovrastruttura".
Il fascismo e il nazionalsocialismo hanno a loro volta entrambi rivendicato a se stessi il carattere di movimenti rivoluzionari e alla fondazione dei propri regimi quello di 'rivoluzioni nazionali'. Questo al fine di sottolineare il fatto che la lotta vittoriosa da essi condotta contro gli elementi antinazionali per eccellenza (i marxisti e, nel caso tedesco, anche gli Ebrei), i democratici di varia corrente, i liberali, il sistema pluripartitico e plurisindacale, le istituzioni e lo Stato di tipo liberal-democratico, i costumi e la mentalità del vecchio mondo, si è configurata come una forma specifica di rivoluzione intesa a creare un 'ordine nuovo'.
Mussolini, ricollegandosi alla tradizione ideologica del nazionalismo italiano contrappose all'idea marxista di una rivoluzione classista il concetto di una rivoluzione avente come scopo di fare della nazione, mediante lo Stato totalitario, il soggetto primario di una trasformazione epocale, secondo principî che si trovano fissati ne La dottrina del fascismo (1932). Questa trasformazione, con l'emergere del fascismo a corrente internazionale, venne infine concepita altresì come tale da superare i confini nazionali, poiché - egli disse nel 1937 - era andato formandosi "un complesso di dottrine, di metodi, di esperienze, di realizzazioni" che "rappresentano il fatto 'nuovo' nella storia della civiltà umana". Il 10 giugno del 1940 Mussolini affermò che "lo sviluppo logico" della rivoluzione fascista era la lotta dei popoli poveri "fecondi e giovani" contro i popoli ricchi "isteriliti e volgenti al tramonto": "la lotta tra due secoli e due idee".
Anche Hitler, e con lui in specie Goebbels, affermò che l'avvento al potere dei nazisti costituiva una "rivoluzione nazionale". Senonché il nucleo di essa era individuato non già, come nel fascismo italiano, nell'ideologia, nelle istituzioni, nel principio politico elitario, bensì nell'unione misticizzante tra il Führer, il suo seguito, il partito e il Volk in quanto comunità razziale. L'intento di sottolineare la volontà di una rottura profonda con il passato e di una ristrutturazione qualitativa radicale della società indusse altresì Goebbels a riprendere il termine di "rivoluzione totale".
Ciascuna delle grandi rivoluzioni moderne - quella dei Paesi Bassi del 1566-1581, l'inglese del 16281660, l'americana del 1774-1781, la francese del 17891799, le rivoluzioni russe del 1905 e del 1917, la rivoluzione cinese culminata nel 1949 - si distingue naturalmente per le sue specificità. Ciò che tutte hanno però in comune è di aver determinato un radicale trasferimento di potere, di aver creato un nuovo tipo di Stato e di istituzioni, di aver fondato la sovranità e la legalità su nuove basi e su nuove forme di legittimazione. Ogni rivoluzione va caratterizzata in relazione ai propri scopi, al tipo di forze mobilitate, ai mezzi adottati, alle basi di consenso, alle ideologie e ai miti politici elaborati; elementi da considerarsi nel contesto dei condizionamenti interni e internazionali che ne hanno favorito lo sviluppo e infine l'affermazione.
Schematizzando all'estremo, la rivoluzione dei Paesi Bassi e quella americana sono state in primo luogo 'nazionali', guidate da classi dirigenti politicamente e socialmente mature, le quali avevano l'obiettivo di sottrarre delle società evolute alla dominazione esterna, ed erano pienamente in grado di costituire Stati autonomi e istituzioni stabili. In entrambi i casi le élites, svolgendo un'opera di direzione di carattere ideologico-politico (nel caso olandese anche religioso), hanno condotto contro il nemico esterno una guerra rivoluzionaria. Una diversa natura hanno avuto le rivoluzioni inglese e francese. In Inghilterra e in Francia oggetto del contendere non era il problema dell'autonomia del paese rispetto a potenze esterne, bensì quello di una diversa dislocazione del potere all'interno di paesi che detenevano uno status consolidato di grandi potenze. Esse sono state rivoluzioni originariamente dirette contro l'assolutismo monarchico, le quali nel corso del loro sviluppo hanno visto emergere il conflitto tra molteplici gruppi divisi da una diversa concezione degli interessi e delle basi su cui assestare le istituzioni politiche e la distribuzione del potere e della ricchezza, così da dar luogo a una serie di 'ondate' rivoluzionarie. In questo senso diventa essenziale lo studio delle diverse fasi delle rivoluzioni. In tutte e quattro le rivoluzioni - olandese, inglese, americana, francese - determinante per il loro scoppio è stata la questione del prelievo fiscale e della sua legittimazione politica per il fatto che chi era chiamato a pagare non aveva il potere di decisione.
Alle rivoluzioni americana e francese sono da ricollegarsi le origini dei partiti moderni. Negli Stati Uniti, in relazione principalmente alle scelte da compiersi in materia costituzionale circa i rapporti tra i poteri e tra il governo dell'Unione e gli Stati, si formarono correnti ideologiche e politicamente organizzate a opera di élites intese a mobilitare il consenso popolare. Il fenomeno si presentò in una forma più ampia e accentuata in Francia con il sorgere dei vari clubs, tra i quali primeggiò - in modi da costituire il prototipo di partito politico moderno - quello dei giacobini, dotato di una sua ideologia, di una struttura centralizzata e diffusa e di una forte capacità di mobilitazione di massa (in primo luogo dei sanculotti). Lo scontro politico e la mobilitazione delle masse a opera delle élites - soprattutto, ma non solo, nel corso della rivoluzione francese - hanno a loro volta posto l'esigenza di un'efficace trasmissione, per finalità propagandistiche, delle idee politiche e della loro trasformazione in idee-forza e in miti, simboli, riti da far valere in cerimonie, manifestazioni, ecc. Tutte le rivoluzioni, infatti, in particolare nei momenti più acuti e violenti dello scontro, hanno bisogno di mobilitare mediante le 'ideologie' - aventi ancora nelle rivoluzioni olandese e inglese radici in primo luogo religiose, mentre nella rivoluzione francese hanno avuto un carattere essenzialmente laico e persino antireligioso (anche se, nel giacobinismo, fu presente il tentativo di dar vita a una 'religione civile') - le forze del consenso contro quelle del dissenso. Per la determinante influenza del marxismo, la rivoluzione francese è stata presentata, in riferimento al suo carattere sociale, come la rivoluzione borghese per eccellenza. Marx la considerò come il capitolo secondo e culminante, dopo la rivoluzione inglese, della lotta della borghesia per il potere, tanto da scrivere che "in queste due rivoluzioni la borghesia fu la classe che si trovò realmente alla testa del movimento". Nella rivoluzione francese non solo la borghesia è ascesa alla posizione di classe economicamente e politicamente dominante, ma anche si sono manifestati per la prima volta in maniera classica i contrasti di interesse tra l'aristocrazia, le varie componenti della borghesia, i contadini da questa egemonizzati e i settori del proletariato e del sottoproletariato urbano, con la comparsa di correnti di radicalismo sociale sia antiaristocratico sia antiborghese. Una caratteristica importante della rivoluzione francese è stata la comparsa, nel periodo del governo giacobino, del potere concentrato (la dittatura e la 'volontà unica') nelle mani dell'élite rivoluzionaria e del terrore come arma impiegata per schiacciare i controrivoluzionari; mezzi che sarebbero stati portati all'estremo nel corso delle rivoluzioni e nei regimi comunisti. È infine nel corso della rivoluzione francese che si è dispiegata in tutta la sua portata la dialettica rivoluzione-controrivoluzione nel contesto nazionale e internazionale.
Le grandi rivoluzioni del XX secolo, le rivoluzioni russe e quella cinese, si sono completamente emancipate dall'idea che la rivoluzione abbia lo scopo di restituire all'uomo i propri diritti usurpati. Esse sono state il prodotto dei processi di modernizzazione e delle loro contraddizioni, e hanno elaborato le proprie ideologie combinando le esigenze dello sviluppo industrialistico con elementi di neomillenarismo scientistico (la prospettiva dell'abbondanza illimitata di beni, la fine dei conflitti e della politica, l'abolizione dello Stato, il passaggio dall'amministrazione degli uomini all'amministrazione delle cose, ecc.). Ad agire quali forze protagoniste in queste rivoluzioni non sono state, come nelle rivoluzioni precedenti, in primo luogo delle élites intellettuali e sociali, bensì per un verso grandi masse poste in movimento da condizioni di acuta crisi economica e sociale e per l'altro partiti organizzati, diretti da rivoluzionari di professione, e preesistenti allo scoppio delle rivoluzioni stesse. Una netta differenza è nondimeno da notarsi a questo proposito tra la rivoluzione russa del 1905, la prima rivoluzione russa del 1917, la rivoluzione di ottobre e la rivoluzione maoista. Nella rivoluzione del 1905, che finì nella repressione, le masse operaie e contadine si mossero per gran parte del suo decorso in maniera fortemente spontanea, senza che i partiti esistenti avessero ancora modo di imprimere loro la propria determinante direzione, vale a dire di andare oltre una funzione eminentemente agitatoria. Anche nella rivoluzione russa del febbraio 1917 le masse operaie aprirono la fase rivoluzionaria esercitando una enorme pressione spontanea contro l'ordine costituito; ma ben presto i partiti e da ultimo soprattutto il partito bolscevico ne assunsero la direzione facendo prevalere la propria strategia. La rivoluzione di ottobre fu interamente opera del partito di Lenin e di masse relativamente circoscritte a esso legate; e per ciò dai suoi avversari non a caso fu definita un colpo di Stato.
Le rivoluzioni russe ebbero come scenario in primo luogo le due città capitali, dove si svolse la lotta tra i governi, i partiti e le masse (operai e soldati), sebbene fossero stati di enorme importanza i movimenti eversivi delle masse contadine. Le principali forze motrici di queste rivoluzioni furono i partiti socialisti e il proletariato urbano. In Cina la rivoluzione guidata da Mao Zedong e dal partito comunista operò una sorta di rivoluzione copernicana rispetto al marxismo e allo stesso leninismo. Il proletariato urbano, data l'arretratezza industriale del paese, non vi giocò che un ruolo marginale. Essa fu essenzialmente opera di un partito comunista gerarchizzato e militarizzato postosi a capo di grandi masse di contadini poveri, considerate da Mao fin dagli anni venti come la forza rivoluzionaria primaria, al fine di condurre una guerra sociale di lungo periodo contro i grandi proprietari, il partito nazionalista (secondo fasi alterne) e il nemico esterno giapponese in particolare, e in generale le potenze imperialistiche anticinesi.
Un fattore essenziale nel determinare la dinamica delle grandi rivoluzioni a partire dal Settecento è stato altresì la guerra. La rivoluzione americana ha coinciso con la guerra, sostenuta da varie potenze, contro la Gran Bretagna. La rivoluzione francese, se pure ha avuto origini essenzialmente interne, a partire dal 1792 si è sviluppata in indissolubile rapporto con la guerra e i suoi effetti. Le tre rivoluzioni russe sono scaturite in maniera decisiva dagli effetti provocati da guerre perdute. Così la rivoluzione cinese non è comprensibile al di fuori del contesto e delle conseguenze provocate dall'aggressione militare giapponese. (V. anche Anarchismo; Classe, coscienza di; Comunismo; Giacobinismo; Marxismo; Proletariato; Riformismo; Socialismo).
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