rivoluzione scientifica
Espressione che comunemente è riferita al complesso di eventi che ha segnato la nascita e l’affermazione in Europa della scienza moderna, nel periodo convenzionalmente compreso tra la pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium di Copernico (1543) e quella dei due capolavori di Newton, vale a dire i Principia mathematica philosophiae naturalis (1687) e gli Opticks (1704).
Le origini e il significato della r. s. sono stati oggetto di vivaci discussioni in ambito storiografico e teorico, divenendo teatro di confronto, tuttora assai vivo, di differenti interpretazioni della storia della scienza e della conoscenza scientifica nel suo complesso, dei suoi rapporti con la filosofia, la religione, il contesto economico, politico e sociale. L’idea di una sostanziale discontinuità tra la scienza moderna e la tradizione scientifica antico-medievale e rinascimentale fu inizialmente promossa dagli stessi «filosofi naturali» che ne furono protagonisti. I maggiori esponenti della r. s. assunsero, nei confronti dell’antichità, una posizione in contrasto con quella degli umanisti, negando il carattere esemplare della civiltà classica e la superiorità delle fonti antiche in campo scientifico. L’insistenza sul tema della novità permeò larga parte della cultura europea del Seicento, come dimostra l’impiego del termine novus nel titolo di centinaia di volumi scientifici, tra i quali il De mundo nostro sublunari philosophia nova di Gilbert (pubblicato postumo nel 1651), l’Astronomia nova di Kepler (1609), il Novum Organum di Bacone (1620), i Discorsi intorno a due nuove scienze di Galilei (1638). La convinzione che la nascita della scienza moderna fosse all’origine e nel contempo il prodotto di una radicale rivoluzione di pensiero, progressiva e irreversibile, fu diffusa nel Settecento dalla cultura illuminista, soprattutto dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Quest’ultimo, nel Discours préliminaire e nella voce Expérimental fece iniziare la nuova concezione della natura e della scienza con Bacone e Descartes, capifila dell’empirismo e del razionalismo secentesco, secondo uno sviluppo culminante nell’opera di Newton. L’idea della nascita della scienza moderna come «improvviso rivolgimento del modo di pensare», determinato dall’affermazione dall’eliocentrismo copernicano e dalla nuova fisica di Galilei fu sostenuta da Kant nella celebre prefazione alla 2a ed. (1787) della Critica della ragion pura, tesi ribadita e sviluppata nella History of inductive sciences di Whewell (1837) e nella ricostruzione di Mach delle origini della meccanica, incentrata sull’analisi del ruolo innovativo dell’opera di Galilei, presentata come incarnante l’ideale positivistico di scienza. L’immagine discontinuista del progresso moderno delle scienze si incrinò, a cavallo tra Ottocento e Novecento, con la professionalizzazione della storia della scienza e il grande sviluppo della ricerca documentaria su testi manoscritti della tradizione fisica e matematica medievale. I monumentali studi di Duhem, condotti nel quadro di una prospettiva epistemica di stampo marcatamente positivistico e convenzionalistico, sui «precursori» trecenteschi di Leonardo da Vinci e di Galilei, rivalutarono il ruolo scientifico delle scuole di Oxford e di Parigi, rivendicando le profonde radici scolastiche della scienza moderna e il contributo decisivo a essa apportato dalla matrice religiosa cristiana del pensiero medievale. Di convinzioni cattoliche, e critico degli ideali illuministici, Duhem gettò le basi di una storiografia sostanzialmente continuista dell’evoluzione del sapere scientifico, che ha trovato nel secondo Novecento sviluppi soprattutto in alcuni storici della scienza angloamericani (A.C. Crombie, M.C. Glagett, E. Grant, S. Shapin ecc.), i quali hanno incentrato le loro ricerche sul periodo precedente la r. s., affermando le origini medievali del metodo sperimentale e della matematizzazione della fisica, caratterizzanti l’atteggiamento scientifico tipicamente moderno. Alle tesi di Duhem si contrappose, a partire dagli anni Trenta, uno dei massimi storici della scienza del Novecento, Koyré, che interpretò la nascita della scienza moderna come la maggiore rivoluzione intellettuale mai compiuta dai tempi dell’invenzione del Cosmo a opera del pensiero greco, che ha comportato una riorganizzazione radicale del modo di concepire il mondo della natura. Avverso all’immagine positivistica e neopositivistica della scienza come accumulo di osservazioni e di nuovi fatti, Koyré fece derivare la r. s. da un mutato quadro metafisico-concettuale, mirante a sostituire l’immagine aristotelica della scienza – fondata sull’analisi delle determinazioni sostanziali e delle qualità sensibili –, con una concezione, di matrice platonica e archimedea, volta alla geometrizzazione dello spazio fisico e alla matematizzazione delle leggi della natura. Gli studi di Koyré sui massimi artefici della nuova scienza (Copernico, Keplero, Galilei, Descartes, Newton) hanno contribuito in maniera determinante all’imporsi tra gli storici della scienza nel secondo Novecento della categoria di r. s. – alla cui diffusione hanno contribuito in partic. i lavori di H. Butterfield, A.R. Hall, I.B. Cohen, Kuhn –, nonché, grazie alla fortunatissima The structure of scientific revolutions (1962, trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche) di quest’ultimo, alla fondamentale estensione del suo impiego nel dibattito epistemologico contemporaneo. Dagli studi marxisti di storia della scienza (B. Hessen, E. Zilsel, ecc.) presero avvio negli anni Trenta ricerche sul ruolo della tecnica e dell’ascesa sociale degli artigiani nella nascita della scienza moderna, mentre sulla scia degli studi di W. Pagel su Paracelso, J.B. van Helmont e W. Harvey, di Yates sull’ermetismo e le arti della memoria, di P. Rossi su F. Bacon, di Garin sul Rinascimento, di R. Westfall e Mamiani sul Newton teologo e alchimista accanto al Newton scienziato, è ormai generalmente riconosciuta l’importanza delle idee metafisiche e religiose nella scienza e nella medicina nella prima età moderna, del loro intreccio con concezioni di carattere magico, alchemico e astrologico, tradizioni che l’epistemologia e la storiografia positivistica aveva considerato incompatibili con il procedere della scienza. All’orientamento, facente capo agli studi di R.K. Merton sui fattori economici, politici e sociali che hanno segnato la nascita della scienza moderna, è da ricondursi l’interpretazione sociologica della storia della scienza, diffusa soprattutto nel mondo anglosassone, che ha incorporato la concezione kuhniana della scienza come processo caratterizzato dall’alternanza di fasi di ricerca ‘normale’ e fasi rivoluzionarie, determinate dalla sostituzione di un paradigma (l’insieme di teorie, pratiche metodologiche e valori condivisi dalla comunità scientifica). L’immagine attuale della r. s. si presenta come un intreccio particolarmente complesso di eventi di carattere tecnico-scientifico, filosofico, sociale, religioso, che si è sviluppato secondo un percorso tortuoso, non lineare, condizionato da un insieme eterogeneo di fattori, e articolato in specifici ambiti di ricerca, facenti capo a gruppi di discipline, come ha sottolineato Kuhn, appartenenti a tradizioni distinte e destinate a restare sostanzialmente contrapposte (eccezion fatta di Galilei e soprattutto di Newton, capaci di applicarsi con successo in entrambe) sino a Settecento inoltrato, e cioè la tradizione delle scienze fisiche «classiche», d’impronta matematica (astronomia, ottica geometrica, statica, armonia, le uniche discipline a costituirsi, durante l’antichità, come oggetto di una tradizione di ricerca caratterizzata da terminologie e tecniche inaccessibili al profano) e quelle d’impronta ‘sperimentale’ (arti meccaniche, metallurgia, chimica, storia naturale, ecc), affermatesi a partire dal Rinascimento. Tali tradizioni, caratterizzate da una pluralità di metodi e di approcci, non sono riconducibili a una immagine univoca della natura.
Il gruppo di scienze classiche d’impronta matematica fu coltivato durante il Medioevo a un livello di competenza specialistica paragonabile a quello dell’antichità, su una base empirica che non richiedeva la trasformazione delle tradizionali tecniche osservative o lo sviluppo di esperimenti in senso moderno. Come ha ben mostrato Koyré, la rivoluzione operata da Copernico non è affatto consistita in un perfezionamento dei metodi d’indagine astronomica, ma nell’edificazione di una nuova cosmologia, fondata da un lato sugli stessi assunti di fondo dell’astronomia aristotelico-tolemaica – sfericità e finitezza dell’Universo; perfezione della figura sferica; moto circolare uniforme degli orbi planetari –, ma implicante dall’altro, con l’ammissione del moto terrestre, una nuova immagine dell’Universo fisico, destinata a trovare il suo completamento nella meccanica celeste di Newton. Il divorzio, risalente a Tolomeo, tra cosmologia fisica e un’astronomia puramente ‘calcolistica’, volta a formulare mere ipotesi matematiche capaci di «salvare i fenomeni» e di spiegare le anomalie osservative, fu all’origine di contraddizioni e difficoltà teoriche che l’opera di Copernico, interpretata in senso realistico, fece esplodere. Nata in un quadro concettuale legato a influssi platonici, pitagorici ed ermetici, la tesi copernicana della centralità del Sole e del movimento della Terra aspirava a una maggiore semplicità e armonia rispetto al sistema del mondo tolemaico, consentendo di eliminare gli epicicli e gli equanti, e di riferire le apparenti irregolarità del moto dei pianeti al continuo mutamento di punto di vista dell’osservatore posto sulla Terra in moto. L’assunzione del movimento della Terra implicava, in partic., da un lato, l’abbandono della distinzione, postulata dalla tradizione cosmologica aristotelica, tra fisica celeste e fisica terrestre, che derivava dalla divisione del cosmo in due sfere, la prima perfetta e incorruttibile, la seconda imperfetta e soggetta al divenire; dall’altro, la messa in questione della distinzione tra moti naturali e moti violenti, e la progressiva equiparazione ontologica di quiete e movimento come stati di un corpo, non comportanti in esso alcun mutamento. Studiando la grande cometa apparsa nel 1577 – un nuovo oggetto nelle immutabili regioni celesti della tradizione astronomica –, la cui traiettoria risultava dai calcoli intersecare le orbite dei pianeti, l’astronomo danese T. Brahe giunse a negare l’esistenza delle aristoteliche sfere cristalline, solide e reali (ammesse anche da Copernico), trasportanti i pianeti, postulando nel De mundi aetherei recentioribus phaenomenis (1588) la fluidità dei cieli, affermata su basi puramente speculative anche nella Pancosmia (1591) di Patrizi. Il sistema del mondo proposto da Brahe non accoglieva la teoria geocinetica copernicana, incompatibile con le leggi aristoteliche del moto, presentando un’immagine dell’Universo in cui la Terra è il centro immobile della sfera delle stelle fisse e delle orbite della Luna e del Sole, mentre attorno a quest’ultimo sono fatti ruotare i pianeti. All’eliocentrismo aderì invece pienamente Bruno, che contrastò con veemenza polemica la riduzione, operata da Osiander, del sistema copernicano a mera ipotesi di calcolo, saldando la nuova astronomia alla metafisica infinitista di Cusano e alla visione dell’Universo infinito e animato, di matrice neoplatonica e lucreziana, articolato in una pluralità di mondi, su cui si accese un secolare dibattito per il rifiuto che comportava del tradizionale punto di vista antropocentrico dei fini della creazione. Anche Kepler si oppose all’interpretazione di Osiander, sorretto dall’idea, di fede neoplatonica e pitagorica, dell’esistenza di ragioni geometriche alla base della struttura del mondo, creata da un Dio matematizzante. Da una prospettiva fortemente legata a posizioni finitiste, nel Prodromus dissertationum cosmographicum, continens mysterium cosmographicum (1597) Kepler pose in relazione il numero dei pianeti e dei loro orbi con i rapporti tra i cinque solidi regolari della geometria euclidea, mentre nell’Astronomia nova (1609) e negli Harmonices mundi (1619) formulò le tre celebri leggi del moto dei pianeti attorno al Sole, che determinarono l’abbandono del millenario postulato del carattere perfettamente circolare e uniforme del moto dei corpi celesti, convinzione che era stata di Copernico e che sarà ancora sostenuta da Galilei. Il problema della determinazione geometrica delle orbite dei pianeti, ora riconosciute come ellittiche, era connesso all’edificazione di una «fisica celeste», capace di risolvere l’inedito problema (compiuta la trasformazione gli orbi solidi nelle moderne traiettorie orbitali) della causa del moto planetario, che Kepler identificò, sulla scorta delle idee di Gilbert, con una forza motrice di tipo magnetico, emanante dal Sole. Le straordinarie scoperte astronomiche (determinazione della natura «terrestre» della superficie lunare; scoperta dei quattro satelliti di Giove; osservazione delle macchie solari e dell’aspetto «tricorporeo» di Saturno; scoperta delle fasi di Venere), operate a partire dal 1609 dall’osservazione telescopica condotta da Galilei, aprirono una nuova fase nel dibattito sul copernicanesimo, risolutamente interpretato come filosofia naturale che indaga la reale costituzione dell’Universo fisico, implicante un totale ripensamento della teoria fisica e la sistematica riformulazione dei concetti di ragione, esperienza e contenuto della percezione. In pagine celeberrime del Saggiatore (1623) Galilei sostenne platonicamente il carattere matematico del «grandissimo libro» della natura, deducendo per via analitica le proprietà della materia dalle condizioni geometrico-fisiche necessarie e sufficienti alla sua pensabilità come sostanza corporea (figura, dimensione, movimento, ecc.), e riducendo le qualità percepite, il mondo immediato e concreto dell’esperienza quotidiana – su cui poggiava la fisica essenzialista aristotelica – a «puri nomi» senza referente reale, esistenti soltanto nel soggetto percipiente. Per questa via Galilei pose le basi di una filosofia corpuscolare o meccanica capace di porsi come visione unitaria del mondo naturale, incentrata sulla determinazione geometrica delle leggi del moto e su una concezione archimedea dello spazio fisico, impostando una fisica matematica dei gravi, che ammetteva come unico moto naturale il moto di caduta libera. Una fisica rigorosamente meccanicista fu sviluppata negli anni Trenta e Quaranta del Seicento da Descartes, che escluse dalla costituzione del corpo fisico tutto ciò, pesantezza e impenetrabilità incluse, unificando materia e spazio nell’estensione tridimensionale, in un’immagine complessiva dell’Universo fondata sulla riduzione del movimento fisico a traslazione geometrica, sulla divisibilità all’infinito della materia, sull’impossibilità e la contraddittorietà del vuoto, sulla completa relatività del moto, sull’identificazione del principio d’inerzia nel moto rettilineo uniforme e sulla conservazione della quantità totale di materia e movimento. Simmetricamente, Descartes sviluppò in modo sistematico sul piano gnoseologico e psicofisiologico la distinzione galileiana tra proprietà metrico-geometriche della materia e qualità percepite, elaborando in partic. una nuova teoria della luce e della visione, che perfezionava il processo di riduzione geometrica dell’ottica e della netta distinzione tra fase fisico-fisiologica e fase percettiva dei fenomeni luminosi, avviato da Kepler: con la formulazione della legge della rifrazione (di capitale importanza per lo sviluppo della tecnologia telescopica), Descartes offriva un modello d’indagine fisico-matematica che sarà adottato da Hobbes in chiave integralmente materialistica, e che troverà sistematizzazione nella teoria della luce e dei colori nell’Opticks (post., 1704; trad. it. Scritti di ottica) di Newton. Ma la fisica cartesiana nel suo complesso, e i suoi sviluppi in partic. in Chr. Huygens, costituirono il terreno essenziale per la costituzione del sistema fisico e cosmologico di Newton, che tra il 1666 e il 1687 reinterpretò le precedenti teorie in una sintesi in cui le conquiste della nuova scienza, inquadrata in una cornice concettuale unitaria, trovavano coerente e adeguata formulazione matematica, consentita dall’elaborazione dei procedimenti del calcolo infinitesimale. Il sistema newtoniano si fondava su assiomi e principi transfisici, sperimentalmente inverificabili (spazio, tempo e movimento assoluti, il principio d’inerzia, ecc.), che si saldavano ecletticamente con elementi dottrinali – sottoposti da Newton a rigorosa autocensura – del platonismo di Cambridge, della filosofia corpuscolare vacuista, delle filosofie animistiche della natura, e che trovarono nella nozione di forza il concetto unificatore dei principi della meccanica razionale, enunciati a partire dalla rielaborazione delle leggi del moto di Kepler, della legge galileiana di caduta dei gravi e dalla determinazione cartesiana del principio d’inerzia. Sulla legge della gravitazione universale, in cui trovarono unificazione matematica fisica celeste e fisica terrestre, si fondò l’impalcatura teorica del meccanicismo sette-ottocentesco e dei principi della dinamica sino alla loro radicale riformulazione, all’alba del Novecento, a opera della fisica relativistica di Einstein.
Nel 16° sec. il rinascimento delle lettere e le nuove scoperte geografiche produssero un ampliamento senza precedenti della conoscenza umana. L’invenzione della stampa, in partic., consentì l’ampia diffusione di quel che restava del patrimonio scientifico antico e dei più interessanti sviluppi che esso aveva conosciuto nel Medioevo. Numerose furono le edizioni quattro-cinquecentesche della Naturalis historia di Plinio il Vecchio e del De rerum natura di Lucrezio, che diffuse l’atomismo epicureo, del De architectura di Vitruvio, dei trattati di Euclide, Archimede, Erone, ecc., potenzialmente utili alla cerchia dei tecnici e dei pratici, il cui ruolo sociale subì nel Rinascimento modificazioni profonde, e determinò l’uscita dalle botteghe e dalle officine dei loro «segreti» empirici. Da un lato, la letteratura del Quattrocento e del Cinquecento vide una vastissima produzione di trattati di carattere tecnico, che diedero un contributo decisivo alla presa di contatto tra sapere scientifico e pratica tecnico-artigianale, determinando un forte impulso della matematica applicata in svariati ambiti (cartografia, geografia, teoria delle macchine, balistica, idraulica, pneumatica, ecc.). Dall’altro lato, il Cinquecento conobbe lo sviluppo di discipline – anatomia, chimica, metallurgia, geologia, botanica, storia naturale, ecc. – caratterizzate dall’ampio ricorso all’esperienza, spesso aventi radici nelle diverse professioni artigianali legate alle «arti del fuoco», come nella pratica medica e alchemica, che esercitarono un grande impulso all’emergere di nuovi settori di ricerca empirica, riscontrabili nel programma e nei metodi d’indagine delle accademie scientifiche che dilagheranno nel Seicento, in rottura con il sapere dogmatico aristotelico-scolastico proprio delle istituzioni universitarie del tempo. Ruolo non marginale nello sviluppo di un’attitudine alla ricerca sperimentale ebbe la magia naturale, come dimostra l’opera di F. Bacone che ne assimilò alcuni dei temi e degli scopi (rifiuto della filosofia speculativa, produzione di opere utili, dominio della natura, ecc.) nella sua riforma metodologica empiristico-induttiva, reinterpretando le «simpatie» e «antipatie» della tradizione magica come effetti di schematismi latentes, di configurazioni interne dei corpi, secondo un modello di riconduzione delle «qualità occulte» a flussi invisibili di corpuscoli, che sarà adottato da molte teorie della materia secentesche e da indirizzi della ricerca in campo chimico-alchemico. Fino alla metà del Seicento la chimica fu disciplina soprattutto pratica, subordinata alla farmacia, alla medicina e alle tecniche di assaggio dei metalli, e pur non identificandosi (soprattutto tra i paracelsiani) con l’alchimia, mantenne con quest’ultima stretti rapporti. L’incontro tra la tradizione alchemica medievale e la teoria dei principi chimici o spagirici, sostenuta da Paracelso e da van Helmont, contribuì in maniera decisiva all’impiego delle ricerche alchemiche nel più generale progetto di fondazione chimica della filosofia naturale e della medicina, che costituirà il nucleo della tradizione iatrochimica sei-settecentesca, in opposizione sia alla fisiologia galenica sia alla scuola iatromeccanica di derivazione cartesiana, contro cui si indirizzerà anche la chimica corpuscolare facente capo a R. Boyle. Pubblicato in un’età che aveva visto la riscoperta dei trattati anatomici di Galeno, il primo grande libro di anatomia dell’età moderna, il De humani corporis fabrica di A. Vesalio (1543), dimostrò le straordinarie potenzialità offerte dalla tecnologia della stampa nella riproduzione grafica del corpo umano, nell’esigenza di una nuova cartografia del corpo, fondata sull’esame diretto delle sue strutture interne. Il capolavoro di Vesalio sancì il primato tutto moderno del ‘vedere’ sull’autorità della tradizione, dell’«osservare con i propri occhi» (autopsia) sulla parola scritta, posto alla base di una metodologia di analisi sistematica delle parti del corpo che prevedeva il ricorso alla dissezione come primario strumento didattico, banco di prova delle conoscenze anatomiche acquisite e fondamento della medicina clinica. L’accuratezza delle descrizioni anatomiche vesaliane, i nuovi dati dell’osservazione empirica sistematica condotta da altri grandi anatomisti cinquecenteschi (Serveto, R. Colombo, Cesalpino, F. d’Acquapendente), impressero una svolta decisiva alle scienze del vivente quando trovarono organico e coerente assetto teorico nel De motu cordis (1628; trad. it. Il moto del cuore) di W. Harvey, autore della scoperta della circolazione del sangue. Tale scoperta, ben presto accolta dai due massimi esponenti del meccanicismo secentesco, Descartes e Hobbes, rovesciò alcune tesi fondamentali della fisiologia galenica e fornì lo strumento teorico indispensabile per lo sviluppo della biologia meccanicistica. Se l’insistenza harveyana sulla centralità del cuore, organo unico e fondamentale della vita, definito «Sole del microcosmo», si richiama a temi finalistici cari alla filosofia della natura rinascimentale, e, soprattutto, alla tradizione aristotelica, la tesi, difesa nel De motu cordis, dell’unicità del sangue e del suo moto in un sistema chiuso, rinviava a un contesto tecnico di tipo idromeccanico, in cui il cuore assumeva la funzione di una pompa aspirante e premente, mentre le vene e le arterie quella di condotti idraulici, in cui scorre un liquido, il sangue, in pressione e in continuo movimento, direzionato dalle valvole delle vene. Descartes celebrò nel Discorso sul metodo (1637) l’importanza della scoperta harveyana, reinterpretando in senso rigorosamente meccanicistico la causa del moto del cuore secondo processi di combustione e fermentazione organica, e ponendolo alla base della teoria del corpo-macchina e dell’automatismo animale. Nel Trattato sull’uomo, pubblicato postumo tra il 1662 e il 1664, fu formulato il programma di una descrizione meccanica delle strutture e delle funzioni organiche, che ebbe duratura influenza in ambito medico-biologico, e contribuì in maniera essenziale nell’indirizzare le ricerche sugli automatismi fisiologici, secondo un procedimento euristico che in Descartes si rivelò particolarmente importante e fecondo nell’indagine analitico-strutturale dei dispositivi sensoriali e del sistema nervoso, segnata dal definitivo affrancamento dalla concezione bipolare – insieme cardiocentrica e cerebrocentrica – della localizzazione delle facoltà psichiche che aveva dominato la fisiologia antico-medievale, e dall’attribuzione al cervello del ruolo di centro di controllo della macchina del corpo e di sede dei fenomeni mentali. L’introduzione del microscopio nelle scienze del vivente riorientò le ricerche anatomiche e fisiologiche, che videro in primo piano le indagini strutturistiche della scuola italiana (M. Malpighi, G.A. Borelli, G. Baglivi), nello sforzo, dagli esiti assai parziali, di risoluzione della biologia nella meccanica, ma impressero soprattutto una svolta alle teorie embriologiche, e al dibattito, caratterizzante il panorama medico sei-settecentesco, tra le due grandi teorie dell’epigenesi e della preformazione e preesistenza dei germi. Dominante sino al 1660, l’epigenesi (che spiegava il fenomeno della generazione animale attraverso neoformazioni derivanti da una materia organica indifferenziata), a cui aderirono con opposte finalità Harvey e Descartes, fu affiancato dalla teoria preformista (secondo cui l’essere vivente esiste già strutturato nell’embrione, e si sviluppa per accrescimento meccanico e progressiva comparsa di organi), che a seguito delle scoperte microscopiche di R. de Graaf e A. Leeuwenhoek, si distinguerà in due scuole, l’ovismo e l’animaculismo, che attribuivano la funzione di contenitore dell’embrione preformato rispettivamente alle uova femminili o agli «animaculi spermatici» maschili. La querelle su epigenesi e preesistenza si protrarrà per più di un secolo, non solo in ordine al problema della generazione animale, ma anche in relazione alle questioni poste dallo sviluppo della ricerca sperimentale, dalla scoperta di nuove specie viventi, e in rapporto al dibattito filosofico sulla natura della materia vivente, sulle rigenerazioni animali, sui fenomeni ereditari, sugli infusori, ecc., delimitando il campo delle ipotesi da cui presero forma le ricerche ottocentesche sulle basi organiche della vita.