RIVENDICAZIONE
. All'azione reale, con la quale il proprietario chiede al giudice il riconoscimento del suo diritto di fronte al possessore illegittimo e, in conseguenza, la restituzione della cosa con tutte le accessioni.
Diritto romano. - Nell'antico processo di proprietà, che si svolge nella forma della legis actio sacramento in rem, non si distinguono un attore e un convenuto, dei quali l'uno pretenda come sua la cosa che non possiede e l'altro, che la possiede, la difenda: sì l'uno come l'altro affermano la proprietà della cosa dicendo: aio hanc rem meam esse ex iure Quiritium. Dopo questa affermazione, la lite è impostata sul sacramentum, cioè sulla somma di denaro che ciascuna delle parti promette di versare alla cassa pubblica nel caso che resti soccombente: il giudice decide implicitamente la questione della proprietà decidendo utrius sacramentum iustum sit. In qual modo il vincitore si potesse soddisfare se la cosa si trovava presso il soccombente, che si rifiutava di restituirla coi frutti percepiti nell'intervallo, è problema oscuro.
Problema oscuro è pur quello che riguarda lo svolgimento del processo per sponsionem, che sembra sia stato applicato alla rivendicazione della proprietà in epoca non molto antica, quando le parti lo preferivano: esse si promettevano reciprocamente una somma di denaro per il caso che l'avversario dimostrasse di essere proprietario della cosa e su queste promesse, allo stesso modo che sul sacramentum, si contestava la lite.
Nell'età ciceroniana la rei vindicatio si svolge attraverso un processo che non è più duplice ma semplice: attore è chi, non possedendo, si afferma proprietario; convenuto, il possessore. L'onere della prova incombe all'attore. Nel caso che il convenuto non restituisca volontariamente la cosa arbitratu iudicis, viene condannato in id quod interest, sulla stima giurata dall'attore: stima, che praticamente doveva comprendere, oltre al prezzo della cosa, l'indennizzo del danno dal proprietario subito per questa specie di vendita forzata. Il convenuto può essere costretto a dare garanzia per il pagamento della somma che sarà fissata nella condanna (cautio iudicatum solvi); se si rifiuta, il possesso passa all'attore disposto a prestare cauzione. In tal modo il convenuto diventa attore e, come tale, ha l'onus probandi. Nel diritto giustinianeo (Dig., VI, 1, de rei vind., 68, interpolato) ha luogo - almeno se l'attore così preferisce - l'esecuzione in natura, manu militari.
La rei vindicatio era diretta originariamente contro il possessore, cioè contro colui che riteneva la cosa animo possidendi; più tardi è diretta anche contro il semplice detentore (la giurisprudenza classica esigeva ancora il possesso: in Dig., VI, 1, de rei vind., 9, Pegaso dice che officium iudicis erit ut inspiciat an reus possideat). Il detentore di un immobile ha, peraltro, il diritto e il dovere di nominare coluî per il quale egli detiene; di fare, cioè, la laudatio auctoris, in seguito alla quale, il processo si svolge contro di questo ed egli è estromesso dalla causa. Se il laudatus non si presenta, il giudice, dietro un esame sommario, trasferisce il possesso nell'attore, contro il quale il laudatus, che voglia riavere la cosa, dovrà esperire la rei vindicatio. La rei vindicatio si può anche intentare, alnleno nel diritto giustinianeo, contro due figure di ficti possessores. Si può intentare, cioè, contro colui qui dolo desiit possidere, o per avere alienato la cosa, o per averla distrutta, ecc., sapendo di non essere proprietario: in questo caso dolus pro possessione est. Si può intentare, altresì, contro colui qui liti se optulit, ossia assunse la parte di convenuto facendosi credere possessore per trarre in inganno l'attore. Sì nell'uno come nell'altro caso la restituzione della cosa è impossibile; e la condanna pecuniaria, che nella rei vindicatio normale rappresenta un'eccezione, è qui l'unico scopo dell'azione: qui, sotto la veste di azione reale, si esplica sostanzialmente una pretesa obbligatoria in funzione di soddisfazione penale.
La cosa si rivendica da chi è proprietario, tanto da chi è proprietario esclusivo, quanto dal comproprietario, purché ne indichi la quota. Chi vuol rivendicare più cose, deve esperire più rei vindicationes, né importa che una pluralità di cose si possa assumere sotto una denominazione collettiva: soltanto per il gregge e simili unioni di animali si ammette una rei vindicatio complessiva; il gregge si concepisce come unità, corpus ex distantibus o - come i Giustinianei amano dire - universitas facti.
La prova della proprietà, che deve fornire l'attore, sarebbe, negli acquisti derivativi, più che malagevole, impossibile, perché il proprietario dovrebbe provare il diritto del suo autore e quindi il diritto dell'autore di questo e così via via finché non si raggiunga un modo di acquisto originario: ma soccorre, per altro, l'istituto della usucapione.
Il convenuto condannato deve restituire la cosa con tutte le accessioni (cum omni causa). Circa i danni recati alla cosa, occorie distinguere tra possessore di buona e possessore di mala fede. Tenuto al risarcimento dei danni è, prima della contestazione della lite, soltanto quest'ultimo ed è tenuto se la cosa è perita totalmente o parzialmente per sua colpa. Dopo la contestazione della lite risponde anche il possessore di buona fede; ma la responsabilità del possessore di mala fede si aggrava, in quanto egli è tenuto anche per le perdite dovute a caso fortuito, salvo che non possa provare che il proprietario avrebbe ugualmente subito il danno.
Circa i frutti, il possessore di buona fede nel diritto romano li faceva tutti suoi prima della contestazione della lite; nel diritto giustinianeo, come risulta da testi interpolati, fa suoi soltanto i fructus consumpti, non anche quelli extantes: il possessore di mala fede è tenuto a restituire tutti i frutti percepti e, almeno nel diritto giustinianeo, anche percipiendi, cioè che non ha percepito per incuria.
Il regime delle spese è profondamente diverso nei due diritti. Nel diritto classico il possessore di buona fede aveva diritto al rimborso delle spese necessarie: per le spese utili aveva un diritto di ritenzione sulla cosa qualora non fosse soddisfatto, a meno che l'indennizzo non riuscisse troppo gravoso al rivendicante; nessun indennizzo gli competeva per le spese voluttuarie. Il possessore di mala fede non aveva diritto neppure al rimborso delle spese necessarie. Il diritto giustinianeo riforma tutta questa materia non distinguendo quasi più tra buona e mala fede del possessore. Ogni possessore, sia di buona sia di mala fede, ha diritto al rimborso integrale delle spese necessarie; il possessore di buona fede ha diritto al rimborso delle spese utili nella misura del minimo tra lo speso e il migliorato, e tanto il possessore di buona quanto il possessore di mala fede hanno lo ius tollendi, cioè il diritto di togliere tutte le accessioni, ove ciò si possa fare senza danno della cosa. Lo stesso ius tollendi è concesso sia all'uno sia all'altro possessore anche per le spese voluttuarie.
La rei vindicatio può essere preparata da un'actio ad exhibendum, sia in particolari ipotesi in cui la cosa abbia apparentemente perduto la sua individualità, sia per accertare l'identità della cosa posseduta da ahri con quella che si vuol rivendicare.
La rei vindicatio è concessa per la difesa del dominium ex iure Quiritium. La cosiddetta proprietà provinciale era difesa con un'azione nella cui formula si affermava non lo ius, ma la possessio della cosa; la cosiddetta proprietà pretoria era difesa con l'actio Publiciana, che era actio ficticia, in quanto al giudice era fatto obbligo di regolare la sua attività come se già fosse intervenuta l'usucapione e l'attore fosse quindi dominus ex iure Quiritium.
Nel diritto giustinianeo, alla rei vindicatio sono assimilate varie azioni, dette rei vindicationes utiles. I rapporti protetti da queste azioni non sono diritti reali ma crediti, già difesi - come tali - da actiones in personam.
Bibl.: Opere generali: C. Ferrini, Pandette, Milano 1904, p. 429 segg.; P. Bonfante, Coreso di diritto romano, Proprietà, II, ii, Roma 1926, p. 293 segg.; id., Istituz. di dir. rom., 9ª ed., Milano 1932, p. 285 segg.; V. Arangio-Ruiz, istituz. di dir. rom., 3ª ed., Napoli 1934, p. 209 segg.
Opere speciali: G. W. Wetzell, Der römische Vindicationsprozess, Lipsia 1845; C. Pellat, Principes généraux du droit romain sur la propriété, 2ª ed., Parigi 1854; C. Brezzo, Rei vendicatio utilis, Torino 1889; H. Erman, in Zeitschr. d. Sav. St. f. Rechtsg. (rom. Abt.), XIII (1892), p. 207 segg.; F. Mancaleoni, Contributo alla storia delle rei vindicationes utiles, Sassari 1900; H. Siber, Die Passivlegitimation bei der rei vindicatio, Lipsia 1907; J. C. Naber, De in rem actione legitima et per sponsionem, in Mélanges Girard, Parigi 1912; E. Albertario, La responsabilità del bonae fidei possessor fino al limite dell'arricchimento nella rei vindicatio e nella hereditatis petitio, in Bull. ist. dir. rom., 1913; E. Betti, La vindicatio quale atto del processo reale legittimo, in Rend. Ist. lomb., 1914; S. Riccobono, Dal diritto romano classico al diritto moderno, in Annali Univ. Palermo, 1917, specialmente, p. 357 segg., 445 segg.; U. Ratti, Note esegetiche sui cosiddetti fructus percipiendi, Pisa 1930; F. Bozza, Actio in rem per sponsionem, in Studi in onore di P. Bonfante, Roma 1930; E. Carrelli, L'acquisto della proprietà per litis aestimatio nel processo civile romano, Milano 1934, ecc.
Diritto moderno. - Nel diritto italiano l'azione di rivendicazione trova la sua norma basilare nell'art. 439 del cod. civ., secondo cui "il proprietario della cosa ha diritto di rivendicarla da qualsiasi possessore o detentore, salve le eccezioni stabilite dalla legge".
Fra queste eccezioni rientra il caso in cui il possessore o detentore, dopo che gli sia stata intimata la domanda giudiziale, abbia cessato per fatto proprio di possedere la cosa: in tal caso egli è tenuto a ricuperarla a proprie spese per restituirla all'attore, e, non potendo ricuperarla, a risarcire il valore, salvo all'attore il diritto di rivendicarla presso il nuovo possessore o detentore.
Il detentore può ottenere l'estromissione dal giudizio, facendo la laudatio o nominatio auctoris, indicando cioè colui in nome del quale possiede, e facendosi così sostituire da costui nel giudizio relativo. Tale è il caso del locatario, che sia citato da un terzo che pretenda essere proprietario della cosa locatagli, e ne pretenda la restituzione; egli deve (art. 1582 cod. civ.) chiamare il locatore nello stesso giudizio e, se ciò non faccia, è tenuto a risarcire al locatore stesso i danni che gli siano potuti derivare dalla condanna al rilascio della cosa locata.
La rivendicazione può avere per oggetto qualunque cosa corporale, mobile o immobile, o una quota parte dí essa, oppure un'universalità di mobili. È da rilevare, tuttavia, che, a norma dell'art. 707 cod. civ., la rivendicazione non è esperibile nei confronti del terzo di buona fede, quando abbia per oggetto singoli beni mobili per loro natura o titoli al portatore. In tal caso, infatti, il legislatore ha adottato la massima che possesso vale titolo, tratta dal principio del diritto germanico: Hand muss Hand wahren (la mano deve garantire la mano). All'uopo è da considerare terzo di buona fede colui che, non essendo in precedenti rapporti giuridici, per ragion della cosa, col rivendicante, abbia acquistato la cosa stessa in forza di un titolo abile a trasferirne il dominio e del quale ignorava i vizî.
A norma tuttavia dell'art. 708 cod. civ. chi abbia smarrito la cosa, o ne sia stato derubato, può rivendicarla da ogni possessore o detentore, senza essere tenuto neppure a rivalerlo del prezzo pagato, salvo allo stesso il regresso per indennità contro colui dal quale l'ha ricevuta, contro il ladro o ritrovatore o contro quello a cui costoro l'avessero alienata. Apporta deroga al principio della libera rivendicabilità delle cose smarrite o rubate l'art. 57 cod. comm., il quale, risolvendo una vecchia controversia agitatasi sotto l'impero del codice precedente, ha stabilito che la rivendicazione dei titoli al portatore smarriti o rubati è ammessa soltanto contro chi li abbia trovati o rubati, o li abbia ricevuti per qualunque titolo, sapendo che essi erano provenienti da furto o smarrimento.
Perché il derubato possa in tali casi esercitare l'azione di rivendicazione, non è necessario che il fatto sia perseguibile penalmente; onde l'azione può essere esercitata, anche se l'autore del furto sia per età o per altra causa non imputabile, o sia un prossimo congiunto del derubato, ovvero se il reato sia estinto per amnistia o prescrizione.
Le disposizioni dei citati articoli 708 cod. civ. e 57 cod. comm. vanno applicate quando si tratti di cose o titoli che siano stati oggetto di furto propriamente detto; non si applicano, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, quando il proprietario ne sia stato spogliato per effetto di appropriazione indebita o truffa. Si applicano, invece, quando la cosa rubata sia stata data dal ladro in pegno a un istituto di credito autorizzato a fare prestiti sopra pegni, fatta eccezione per i monti di pietà, ché la relativa legge 4 maggio 1898, n. 169 (art. 11), espressamente dispone che il proprietario di cose rubate o smarrite, costituite in pegno presso un monte di pietà, per ottenerne la restituzione deve rimborsare il monte della somma data a prestito e degl'interessi e accessorî. Si agevola, così, la tutela del piccolo credito fatto da un ente che esercita la carità pubblica, mentre per la tutela del commercio l'art. 709 cod. civ. sancisce che, se l'attuale possessore della cosa sottratta o smarrita l'abbia comprata in una fiera o in un mercato, ovvero in occasione di una vendita pubblica o da un commerciante che faccia pubblico spaccio di simili oggetti, il proprietario non può ottenerne la restituzione, se non rimborsando il possessore del prezzo che gli è costata.
A integrazione di questi principî è da ricordare la norma dell'art. 1298 cod. civ., per la quale, se la cosa rubata sia poi perita, anche senza colpa di colui che l'abbia sottratta, il proprietario di essa, che abbia agito in rivendicazione contro costui, ha diritto a ottenerne la restituzione del valore.
L'azione del proprietario per ottenere la restituzione della cosa mobile rubata o smarrita, nei casi degli articoli 708 e 709 cod. civ., si prescrive, a norma dell'art. 2146, nel termine di due anni, mentre quella contro l'autore del furto si prescrive nel termine ordinario. Tale disposizione si applica anche nel caso dei titoli al portatore rubati o smarriti (art. 57 cod. comm.).
Un regime speciale ha l'azione di rivendicazione in materia fallimentare (art. 802-808 cod. comm.) allo scopo di tutelare il diritto di proprietà dell'estraneo al fallimento sulle cose che si trovano nella massa fallimentare, pur non appartenendo al fallito; esse non vengono confuse nella massa stessa a favore dei creditori. Altro caso speciale di rivendicazione è quello previsto dall'art. 1513 cod. civ., secondo cui, se il venditore abbia venduto una sua cosa mobile senza concedere dilazione per il pagamento può, in mancanza del pagamento stesso, rivendicare la cosa, sino a che essa si trovi in possesso del compratore, purché la domanda sia proposta entro quindici giorni dal rilascio e la cosa sia nello stato medesimo in cui era al momento della consegna. Per l'art. 918 cod. comm., infine, l'azione per rivendicare la proprietà di una nave si prescrive nel termine di dieci anni.
Bibl.: Oltre le opere generali e la voce Rivendicazione, in Enciclop. giurid. ital. e in Digesto italiano, v. A. Butera, La rivendicazione nel dir. civ., comm. e process., Milano 1911; G. Segrè, La rivendicazione delle cose mobili secondo gli articoli 707, 709 e 2146 cod. civ., in Studi per V. Lilla, p. 327 segg. (e varî altri tudî apparsi nella Riv. di dir. comm., Milano 1903, 1907, 1909, 1917, 1919); P. Chironi, La rivendicazione dei titoli al portatore, in Riv. di dir. comm., ivi 1908; L. Barassi, La rivendicazione dei titoli al portatore, in Riv. di dir. civ., ivi 1909; M. Ricca Barberis, Il diritto di togliere del possessore, in Studi in onore di B. Brugi, Palermo 1910, p. 671 segg.; id., Le spese sulle cose immobili, Torino 1914; Talassano, Sulla prova della proprietà, in Riv. di dir. civ., 1920.
Diritto ecclesiastico. - Nel diritto della Chiesa il patrono non può (a prescindere dalla esistenza di una clausola di riversione, accettata, dall'autorità ecclesiastica) divenire o ridivenire proprietario dei beni costituenti il patrimonio dell'ente sottoposto a patronato, nel caso di soppressione di detto ente. Le leggi eversive italiane, che non ebbero in massima scopo fiscale, bensì politico, diedero invece, nel sopprimere enti ecclesiastici, la possibilità ai patroni laicali di avvantaggiarsi deí loro beni. Si parlò di rivendicazione rispetto ai beni dei benefici, per cui aveva avuto luogo la erectio in titulum, di svincolo rispetto a quelli delle cappellanie (con concetto corretto solo per le cappellanie laicali, non per le ecclesiastiche, costituenti una specie di beneficio). Per l'art. 22 della legge sarda 29 maggio 1855, ai patroni laici si devolveva la proprietà dei beni, ma all'estinguersi dell'usufrutto riservato ai beneficiati i patroni avrebbero pagato alla cassa ecclesiastica una somma eguale a un terzo del valore dei beni. Analoga norma contenevano i decreti 11 dicembre 1860 per l'Umbria, 3 gennaio 1861 per le Marche 17 febbraio 1861 per le provincie napoletane. La legge 3 luglio 1870 fissò la somma da pagarsi dai patroni nel 30% per i beni dei benefici e nel 24% per quelli delle cappellanie; la legge 19 dicembre 1895 stabilì ai patroni un termine di decadenza di tre anni per l'esercizio dei loro diritti. La legge italiana 15 agosto 1867 all'art. 5 ammise i patroni laicali a rivendicare entro un anno i beni costituenti la dotazione dei benefici soppressi con detta legge e a svincolare quelli delle cappellanie laicali, prelature, fondazioni e legati pii a oggetto di culto, mediante il pagamento, rispettivamente, del 30 ovvero del 24% del valore: trascorso l'anno, i diritti potevano essere esercitati sui beni mobili e sulla rendita iscritta in corrispettivo di beni immobili, ma non oltre i cinque anni dalla pubblicazione della legge.
Bibl.: V. Del Giudice, Rivendicazione e svincolo, riversione e devoluzione dei beni ecclesiastici, Roma 1912; A. Granito, Rivendicazione (diritto ecclesiastico), in Dig. ital., XX, 2°, 1452 segg.